giovedì 1 dicembre 2011

La realtà

Non è una novità ma leggendo in questi giorni i cenni biografici su Lucio Magri e sulla gente che gli è stata accanto nella sua parabola, emerge in maniera definitiva come la politica fosse per quella generazione innervata con la vita: ci s'innamorava tra compagni e i compagni erano anche amici con cui andare a cena, al cinema, eccetera. Tanto che Magri ha annunciato ai suoi compagni-amici del manifesto una cosa così interna a sé come l'intenzione di farla finita. Tanto che nell'ultimo viaggio ha avuto accanto una compagna, Rossana Rossanda. E una che ti sta accanto nel tuo ultimo viaggio è un po' riduttivo derubricarla a compagna in senso strettamente politico. Ma fin qui, poco di nuovo, appunto. La novità, almeno per me, sta nell'aver corretto, grazie alle letture di questi giorni, due parzialità che insieme disegnano uno scenario nuovo. La prima: avevo sempre ritenuto che questa comunanza di sensibilità politiche ed esistenziali fosse appannaggio di una certa sinistra e in qualche modo legata a una prospettiva rivoluzionaria. Sbagliavo. Magri nasce democristiano e capire da Giuseppe Chiarante (democristiano poi passato al Pci pure lui) quanto fosse stato stretto il rapporto tra i due anche quando erano nella Dc, mi ha spalancato le porte di un mondo: anche quella era una comunità. Anche i bianchi erano compagni-amici, allora. La seconda: avevo sempre considerato un privilegio dell'intellettualità il fatto che la politica si potesse innervare con la vita. Sbagliavo anche qui. E l'errore era ancor più grossolano. Perché io ho avuto la fortuna di vederle con i miei occhi, seppure erano quelli di un bambino, le sezioni del partito piene di gente; le riunioni di operai, impiegati, quadri appena usciti da una giornata di lavoro; le diffusioni militanti di chi la domenica si alzava presto lo stesso perché c'era da portare nelle case dei compagni il giornale del partito; le piazze piene per un comizio; la voglia di esserci nelle scuole come rappresentanti d'istituto, nei posti di lavoro come sindacalisti. Eccolo lo scenario nuovo: non solo per i "rivoluzionari di professione", ma anche per la gente comune, dall'una e dall'altra parte della barricata, c'era la convinzione che la politica potesse cambiare la vita; che la realtà non è un dato a sé stante ma la si può costruire, plasmare attraverso scelte, e che scelte diverse producono risultati differenti. Oggi, assieme a quella politica lì è morta  non dico l'idea di un'alternativa, ma addirittura quella di possibilità diverse. La realtà è una e una soltanto: quella data. E le decisioni sono presentate sempre come ineluttabili, inesorabili; impossibile prenderne altre. E' tutto "impossibile": inquinare meno, tassare i patrimoni, lavorare meno e meglio, migliorare la scuola, investire in ricerca, pensare a una società di eguali e (quindi) liberi. Questo il messaggio che arriva dall'alto. E dal basso, questo è stato il cambiamento antropologico, non solo della sinistra ma della società tutta, si è introiettata l'idea disumana che l'azione umana non sia in grado di cambiare la realtà. Che la realtà è un dogma. Così si vive di comandi e di esecuzioni, come in un'immensa caserma. Così non solo la politica si limita a "gestione più o meno efficiente dell'esistente", come annotano tra gli altri, De Rita e Galdo in L'eclissi della borghesia, ma l'orizzonte non esiste più e si rischia di morire di claustrofobia nella realtà angusta che ci viene costruita intorno.