mercoledì 26 settembre 2012

Il (meno) peggio

Quando vent'anni fa Bettino Craxi fece la celebre chiamata di correità in Parlamento sul finanziamento illecito ai partiti, la cosa creò sconcerto e quella linea di difesa suscitò qualche nota di biasimo. Oggi nel tritatutto di immagini-video-commenti-dichiarazioni-spot, si sta perdendo di vista che la linea difensiva dei protagonisti dello spettacolo indecente che abbiamo davanti - che non va dimenticato, hanno spesso dietro di loro raffinati e ben pagati consiglieri e/o avvocati - è più o meno la seguente: anche gli altri lo fanno, non sono io il/la peggiore, sono stato solo sfortunato che mi hanno beccato/a, e fortunati loro che sono riusciti a nascondere tutto. La linea, al di là dell'eleganza e della sede scelta (Craxi lo fece in Parlamento con un discorso scritto, gli attuali protagonisti lo fanno urlando davanti alle telecamere di programmi di quarta serie) è la medesima. Solo che oggi nessuno lo nota. E al bar, negli uffici, nelle fabbriche e dalle parrucchiere, i teleutenti si accapigliano a discutere sull'agenda dettata da questi arruffapopoli da quattro soldi: "Sì, è vero, lo fanno tutti", "No non è vero, non sono tutti uguali". Ma una politica che non sa più indicare il verso migliore e si ripiega, quando va bene, sul meno peggio, la dice lunga sul peggioramento dei tempi. E un'opinione pubblica che non lo nota e anzi accetta il piano del discorso - annichilita e troppo presa, più che a prendere seriamente e fattivamente le distanze, a covare livore sordo e invidia nei confronti di chi per anni ha svoltato alla faccia degli altri - dà ulteriormente il senso dell'involuzione. E di come sia difficile uscire dal labirinto nel quale siamo ficcati. Perché abbiamo disimparato bene a cercare il meglio.

venerdì 21 settembre 2012

Fiorito e noi

Troppo facile e fuorviante soffermarsi sulla stazza der federale de Anagni, al secolo Franco Fiorito; sulla rozzezza basica con cui Renata Polverini ha chiesto al consiglio regionale del Lazio di fare piazza pulita. Il gessato inevitabilmente sgraziato costretto ad avvolgere i quasi due quintali di Fiorito, le amenità ammannite da Polverini e tutto il circo di immagini e parole che ci sta invadendo da giorni sono così abbaglianti da accecare. C'è quasi da compatire Niccolò Ammaniti, il cui genio ci aveva regalato solo tre anni fa un affresco poderoso ("Che la festa cominci") che una realtà assai più veloce della fantasia rischia oggi di declassare da romanzo a cronaca. Troppo facile affondare le unghie affilate dall'indignazione su quell'adipe molle simbolo di decadenza. Facile. Fuorviante. E autoassolutorio. Scrive Michele Serra che Franco Fiorito siamo noi. Non offendetevi. Serra ha ragione. Ma è ottimista. Perché vede uno spiraglio quasi a portata di mano: un paese può cambiare, dice, se il suo popolo migliora, se le persone migliorano la loro cultura, le loro ambizioni. Certo. Non fosse che milioni di persone, a leggere quelle parole mormorerebbero a se stesse: "Riecco la menata del solito trombone di sinistra". Perché cultura rimanda alla locuzione "che due palle". Perché migliorarsi combacia con arricchirsi. Perché l'ambizione è godersela. E godersela equivale a consumare qualsiasi cosa: benzina, risorse, soldi, sesso. Non per tutti, certo. Ma l'immaginario collettivo, il solco nel quale scorre il fiume del nostro tempo, è questo. Non si spiegherebbe altrimenti perché da decenni Fiorito e migliaia di mediocri come lui prendono decine di migliaia di voti, dal più oscuro dei consiglieri di circoscrizione alle cariche più alte. Con le conseguenze, in termini di governo della "cosa pubblica", che abbiamo sotto gli occhi. E allora, di fronte a un'apocalisse del genere, davvero vogliamo rifugiarci nell'autoassoluzione sostenendo che Fiorito e i troppi come lui sono antropologicamente diversi da noi e dal rimpianto Berlinguer, come sostiene Francesco Merlo? No. Al massimo noi siamo i bastardi e Fiorito e i troppi come lui sono i figli legittimi di un tempo che ha perso la dimensione lunga perché ha bandito le parole "costruzione" e "alternativa", perché ha trasformato la critica in crimine e fa un valore dell'obbedienza da caserma. Un tempo piatto in cui non c'è proiezione e vale solo il qui e ora. E se non c'è dimensione lunga non c'è promozione possibile. Non c'è miglioramento. E se non c'è miglioramento si sfibra anche la dimensione collettiva del vivere. Perché è l'attrazione verso un processo di emancipazione che spinge verso gli altri e chiama gli altri a sé. Se manca la prospettiva di andare avanti vale solo la pena di godersela il più possibile. Da soli. Accumulando il più possibile con qualsiasi mezzo per consumare il più possibile. Decontestualizzati dal resto. Dagli altri. Come appaiono decontestualizzati Fiorito e i mediocri che lo circondano, a godersela in una festa in cui per divertirsi servono decine di migliaia di euro mentre quelli che li hanno votati bestemmiano ogni volta che gli arriva una bolletta, ma se potessero si farebbero eleggere consiglieri non per migliorare la loro regione, ma per spassarsela coi soldi pubblici pure loro. Il mors tua vita mea non è frutto di cattiveria, ma la naturale evoluzione della rivoluzione storica ed economica (c'è chi la definisce apocalisse, appunto) in cui ci è toccato di transitare, che ci ha reso atomi e che ha fatto strame del mondo in cui l'alternativa era almeno possibile. E la fantasia e la creatività mezzi per cercarla. Da questa ferita sgorga lo spettacolo penoso, grigio e monotono che abbiamo davanti da decenni: laddove la società sperimentava, ora consuma e basta; laddove la politica era anche mezzo per porre le basi di un vivere diverso, oggi è solo un modo per sistemarsi.
Siamo colpevoli, noi bastardi? Non del tutto. La rivoluzione è passata molto al di sopra delle nostre teste. E costringe oggi molti di noi a vivere a vuoto come criceti sulla ruota. Mostriamo però miopia e respiro corto quando ci soffermiamo sulle volgarità che pur fanno rabbrividire considerando quelle il problema e non l'epifenomeno. Mentre l'antidoto è tentare di imporre un ragionare lungo. Questo è l'unico, difficilissimo, modo per ribellarsi a questi tempi claustrofobici. Oltre a tentare di scendere dalla ruota su cui giriamo a vuoto.