venerdì 16 novembre 2012

Ma lasciate stare Pasolini

Non essendo stato in piazza, tendendo a rifuggire dalla trappola della tv e volendo sottrarmi da immagini sempre uguali a se stesse, non ho visto nulla degli scontri nelle piazze europee del 14 novembre. Noto però che la calamità, pardon, la calamita dei luoghi comuni non cessa di attrarre il grosso dei commentatori il cui pigro pensiero (quasi) unico non sarà certo scalfito da modeste considerazioni che però non rinuncio a esporre.
Perché mi pare che ci siano almeno due fattori, se non tre, che non solo quasi tutta la stampa, ma anche tanta gente di buon senso, come vedo dai social network, tiene fuori dal dibattito. Ciò porta a considerazioni inattuali, che fanno leva sul riutilizzo di usurati cliché: Valle Giulia, il Pasolini che stava con i poliziotti e contro i manifestanti; i pochi violenti che pregiudicano la riuscita di una grande manifestazione, eccetera. E che a mio avviso ci portano in un vicolo cieco. Provo a uscirne.
Primo: non c'entra niente il '68. E neanche il '77. Di più: anche Seattle '99 e il massacro di Genova 2001 sono lontanissimi. Lì si andava in piazza per fare la rivoluzione o perché si riteneva che un altro mondo fosse possibile. Lì c'erano movimenti che sapevano di avere una pars construens da affrontare, perché si vedeva il futuro. Qui c'è una generazione (ormai forse anche due o tre) con le spalle al muro che il futuro non lo vede proprio. E a battagliare con i proletari delle forze dell'ordine di pasoliniana memoria l'altro giorno non c'erano i figli dei borghesi che potevano permettersi l'Università nel '68 e che strada facendo hanno dimenticato che volevano fare la rivoluzione. C'era gente che vive (a stenti) di precariato, che non avrà una pensione, che vede lo stato sociale sgretolarsi sotto i cannoneggiamenti dei pareggi di bilancio messi in Costituzione. 
Gli scontri, e qui veniamo al secondo punto, non sono stati ingaggiati perché si vuol fare la rivoluzione, ma per sfogare la rabbia di anni di umiliazioni; di stage non pagati, di studi che non danno qualità della vita, di sorrisetti beffardi (magari da parte del dirigente d'azienda che nel Sessantotto faceva a botte coi poliziotti), di co.co.co e co.co.pro, di "tempi determinati" incompatibili col tempo della vita. Non c'è un'ala militare organizzata. Perché si organizza chi ha uno scopo. Questa è una generazione costretta a misurarsi con problemi che stanno ben più in basso: ha da pensare alla propria vita, altro che rivoluzione. E' per questo che in piazza non ci sono gli stereotipi del violento e del bravo ragazzo. Meno che mai i rivoluzionari di professione, non foss'altro perché manca la rivoluzione da fare, appunto. Ci sono persone portate a un tale livello di stress sociale per le quali la piazza può diventare - neanche regolarmente, ma solo a volte - valvola di sfogo, difesa disperante. Il violento e il bravo ragazzo sono insomma tipi intercambiabili, come spiega bene qui Marco Bascetta.
Terzo: il fatto che non si capisca tutto questo, spiega almeno in parte il perché della violenza disperante. Le generazioni cui si sta amputando il futuro sentono di stare toccando il fondo. Eppure il mainstream non cambia. Così come le analisi che raffigurano gli scontri di piazza, anche le ricette per uscire dalla crisi ripercorrono strade che non portano da nessuna parte. Cioè: nel vortice di un crisi che viene descritta come "unica", si annaspa aggrappandosi a sostegni inservibili. E ciò porta sempre più giù. Le generazioni già a fondo lo sentono e gridano come gli viene la loro disperazione. 
Condannatela pure la violenza, ma senza un cambio di rotta non fate altro che alimentarla. Di questo si dovrebbe prendere coscienza. Invece che continuare a pensare, scrivere e agire come se si fosse in un mondo che non esiste più. 

Nessun commento: