sabato 24 novembre 2018

I migranti, quella roba lì

Giovanni mi ha chiesto in privato di dirgli che ne pensavo del suo ultimo romanzo una volta che lo avessi letto, dopo aver scritto qui (https://goo.gl/sbKo1L) della sua presentazione, che diventò un evento. Io lo faccio in pubblico, per quelli che vorranno saperne, perché ne consiglio la lettura (del romanzo, intendo). Giovanni di cognome fa Dozzini, e se lo tratto con questa confidenza è perché ci conosciamo (e io lo stimo) da un po’. “E Baboucar guidava la fila”, edito da Minimum Fax, è il suo quarto romanzo. Ed è un’opera matura. Nel senso che leggendo quelle pagine si percepisce lo spessore di uno che non ha bisogno di effetti speciali per indurre alla lettura. Gli è sufficiente una narrazione di normalità. La normalità che nella routine quotidiana non vediamo, e che gli scrittori bravi sanno svelare e indicare.

“E Baboucar guidava la fila” ha come protagoniste persone che vivono in Italia ma non sono nate in Italia. Queste persone normalmente le chiamiamo migranti, e quella definizione le chiude in un tutt’uno che disumanizza perché rende uguale l’irreplicabile di ogni esistenza. È una sorta di metaforico omicidio, seppure involontario, la parola “migranti”, anche se siamo costretti a usarla per farci capire. Però a furia di farne uso, disumanizziamo. Anche noi al di qua di Salvini, molto al di qua. Tendiamo a considerarli tutti uguali, perché li chiamiamo tutti “migranti”, e da quella sola particolarità che li accomuna, ne facciamo un unico gruppo, come si trattasse di un gregge, una mandria, un alveare. Invece sono Baboucar, Ousman, Yaya e decine di migliaia di altri nomi, i “migranti”. Dovremmo ricordarcene. E il romanzo di Giovanni ce lo marchia bene in testa, proponendo un salutare rovesciamento cognitivo.

“E Baboucar guidava la fila” ha come protagoniste persone che vivono in Italia ma non sono nate in Italia. Le racconta stando dalla loro parte. Però non punta a strappare lacrime, a suscitare emozioni di un momento. Punta a solcare un significato. A lasciarlo lì. Ci descrive quattro, cinque, sei persone sospese. “Non c’era niente di male, ma non andava bene”, si legge a un certo punto del romanzo, a proposito dell’intenzione di uno dei protagonisti. Niente di male, la normalità. Eppure non va bene. È questa condizione che avvicina tanto all’ossimoro che rende le vite di queste persone al limite dell’impossibilità. Sì, certo, noi al di qua di Salvini possiamo crogiolarci con la xenofobia, il ringhio dei cattivi che fanno un vanto della loro brutalità anziché vergognarsene. Ma a volte queste cose diventano un alibi per noi, diciamocelo, ché pure noi cadiamo nella trappola dell’omicidio involontario, del considerarli tutti uguali, i “migranti”, di de-personalizzarli.

Giovanni non scrive di ronde, non ci sono razzisti cattivi con la bava alla bocca nel suo romanzo. Anzi. C’è la descrizione della sospensione di alcuni individui. Quella sospensione che rende inopportuna la normalità, e che è il vero nemico contro cui dovremmo batterci. Solo che è un nemico invisibile, sottile, mimetico, raffinato, la sospensione. Un limbo. Che rende impossibili anche tante vite di noi italiani da generazioni, condannandole alla precarietà e accomunandole a quelle dei “migranti”, pensa te!

C’è il recupero della irreplicabilità delle persone, in “E Baboucar guidava la fila”. E questa è una qualità che rende l’opera preziosa. Se ce ne rendessimo conto, se facessimo i conti con questo “invisibile” che ci condanna - tutti - faremmo un gran servizio a noi stessi, autoctoni o migranti che siamo. La narrazione della normalità di Giovanni, questo obiettivo ce lo indica. E questo rende quel libro un libro importante.

Si parla anche di Italia, nel romanzo. E lo si fa con una metafora originale e spiazzante, che gira attorno a una cantante e ai suoi musicisti. A parlarne qui però andrei lungo e farei spoiler. Quindi mi fermo.