sabato 15 giugno 2019

Cose trascurabili su Firenze Rocks, il pop e dintorni

Sono stato a Firenze Rocks, al concerto di Ed Sheeran. Non è il mio tipo, ma la mia primogenita è una sua fan e io l’ho accompagnata volentieri, anche perché con la musica intrattengo un rapporto molto positivo ormai da qualche decennio, e introdurla a eventi del genere è stato un passaggio a cui tenevo. Ne ho ricavato impressioni che non si tengono insieme l’una con l’altra e sono assai trascurabili, per cui siete avvisati, insomma, sempre che non l’abbiate già fatto: potete passare tranquillamente oltre.

Ed Sheeran, che io avevo snobbato fino a ieri, è un artista della madonna. Ok, è pop. Ha un angolo di risonanza talmente ampio da poter rischiare di perdere in profondità. Tutto vero. Però io davanti a uno che tiene ipnotizzata una folla di decine di migliaia di persone da solo per un’ora e mezza con una chitarra, una loop station e qualche video che passa dietro, abbasso il cappello. Ha spogliato le sue canzoni di tutti gli orpelli pop. E il pop quando lo spogli lo trovi quasi sempre meglio che vestito.

Era pop, quello che veniva dal palco.
(- Sì ma scusa, che intendi per pop?
- Cose semplici, niente contraddizioni né lacerazioni, non urticanti, che lisciano il pelo per il suo verso; suoni levigati, poche increspature, qualche delusione d’amore e tanti buoni sentimenti. Ok?).
Era pop, dicevo, quello che veniva dal palco, ma con un’attitudine rock. Ed Sheeran è arrivato con la maglia dell’Italia, e mi è piaciuto pensare che fosse una citazione del Mick Jagger che nell’estate dell’82 si presentò al concerto di Torino con la maglia di Paolo Rossi.
(- Sì, perché?, allora i Rolling Stones non sono un fenomeno pop?
- Ok, ho capito, però è un’altra storia, e poi che palle! Fammi continuare).

Il biglietto per entrare costava 70 euro, non ho controllato ma più o meno dovrebbe essere la stessa cifra che si spenderà stasera per Eddie Vedder...
(- Eh, ma vuoi mettere?!
- Sì, però te l’ho detto: che palle!)
...domani per i Cure eccetera. È successo cioè che, calcolando l’inflazione media, i biglietti per eventi del genere sono raddoppiati nel giro di trent’anni. Raddoppiati proprio. Ci sono più spese sul versante organizzativo, sicuro. Però c’è stato un raddoppio. A cavallo tra ottanta e novanta del secolo scorso una roba del genere la vedevi con trenta-quarantamila lire, che a prezzi di oggi sarebbero intorno ai trenta euro, invece te ne chiedono settanta. Business is business, e qualcuno l’ha capito.

L’hanno capito talmente bene che ci si possono fare i soldi, col pop e col rock...
(- Ah, adesso li metti pure sullo stesso piano? Lo vedi che ti sei rincoglionito?
- No, sei tu che non capisci, lasciami finire)
...che ti fanno pagare anche l’aria che respiri a un evento del genere. E per chi organizza pop, rock, liscio o hardcore sono la stessa cosa. Il business non ha generi, vede solo i soldi da fare (hai capito ora?). Così, oltre a farti pagare il doppio rispetto a un tuo coetaneo di trent’anni fa, all’interno dell’arena in cui si svolge il concerto si sono anche inventati una moneta tutta loro. Si chiamano gettoni (loro li chiamano in inglese, token, che fa più fico per le fregature), e tu devi pagare con quelli. Quindi: prima fai la coda per cambiare i soldi in gettoni, poi fai la coda alla cassa per pagare quello che intendi consumare, poi fai ancora la coda per prendere quello che per cui hai pagato in token. La storia dei token funziona così: ognuno vale due euro, e tu ne deve acquistare un minimo di 8 o di suoi multipli, devi cioè spendere almeno 16 euro. Poi devi comporre un tetrix che non ti riuscirà mai. Perché una birra costa 3,5 token (7 euro, ‘tacci loro), e se ne prendi due ti avanza un token con cui non acquisti più una beneamata minchia, per cui sei incentivato a cambiare altri sedici euro. Una bottiglia d’acqua da mezzo litro, costa 1,5 token (3 euro, arimortacci loro), e 8, notoriamente, non è un multiplo di 1,5. Ah, dimenticavo: l’acqua dentro non la puoi portare se non in bottiglie da mezzo litro ma  senza tappo. Considerando che il fan sta lì sotto per ore a una temperatura di quaranta gradi, il candidato calcoli approssimativamente quanti token dovrà spendere il o la poveretto/a per evitare di morire disidratato/a; non a caso mandano anche un video dai maxischermi che ti invita a bere molto per evitare malori (ariarimortacci loro).

Ed Sheeran in un pezzo canta così: “You need me man I don’t need you”. Mi è parsa una cosa di una radicalità irremovibile. Sono loro che hanno bisogno di noi; noi non abbiamo bisogno di loro. Ecco, dovremmo ricordarcelo a ogni token che ci chiedono, tutti i giorni. Ce lo dice uno che fa pop.
(- Ecco, la solita morale, non mi hai convinto.
- E chi ha detto che volevo convincerti?).








venerdì 17 maggio 2019

Grande come una casa


La candidata sindaca di “Perugia città in comune”, Katia Bellillo, ha declinato l’invito di un’associazione cittadina che aveva chiamato a un dibattito, oltre lei, anche il candidato di Casapound. Bellillo ha motivato la scelta dicendo che “le opinioni di Casapound sono la negazione della democrazia, e la propaganda di Casapound sfocia in atti di violenza espliciti, come si è visto di recente in occasione del presidio di Roma, durante il quale si è messa a repentaglio l’incolumità di una donna e della bambina che teneva in braccio a pochi passi dall’ingresso dell’abitazione che le era stata regolarmente assegnata. La democrazia va difesa da chi la nega non solo con le parole, ma con la violenza condotta regolarmente nei confronti dei più deboli”.

Oltre a essere un ragionamento lineare, Bellillo ha avuto il merito di sollevare una questione che è grande come una casa, e che non attiene al derby “rossi contro neri”, come in un post su facebook un quotidiano on line locale ha liquidato la faccenda in maniera sbrigativa e semplicistica. La questione è semmai sulla consistenza della democrazia, e dovrebbe interrogare tutti: è opportuno dialogare, e quindi agevolare la diffusione delle parole di chi nelle strade sfodera il saluto romano e fa presidi contro una donna e una bambina di quattro anni costringendole a correre per rincasare scortate dalla polizia? Non è in questione un “ritorno del fascismo”. È in questione la agibilità politica di persone che si rifanno a movimenti che agiscono violentemente, e che riescono a far male, fosse anche a una sola persona (pensate a come stanno oggi quella donna e la sua bambina, anche se non è stato loro torto un capello).

I commenti delle persone contrarie alla scelta di Bellillo, postati sotto agli articoli in cui i giornali on line locali hanno divulgato la notizia, aiutano a comprendere le linee di pensiero e i modi di approcciarsi alla questione, e valgono la pena di essere analizzati sommariamente.

1) C’è chi dileggia l’allarme-fascismo e nel suo profilo facebook cita i discorsi di Mussolini. Un atteggiamento che dice del modo subdolo attraverso il quale alcune idee di discriminazione vengono veicolate spogliate dell’armamentario ideologico che le sostiene, nonché mascherate da buonsenso, anche da chi esplicitamente attinge da quell’armamentario ideologico, salvo poi negarne l’esistenza e il pericolo.

2) C’è chi rimprovera il fatto che, essendo Casapound legale, è doveroso confrontarcisi. Che è un modo per nascondere l’incapacità, o la mancata volontà, di operare una scelta: io dialogo con Casapound, e tu pure ci devi dialogare, perché Casapound è legale. Che è un po’ il ragionamento per cui se legalizzassero le droghe, ci si dovrebbe drogare tutti perché la cosa sarebbe legale. C’è una deresponsabilizzazione dell’individuo, o se si preferisce, un nascondersi dietro un dito: non decido io con chi dialogare, lo decide la legge per me.

3) C’è, infine, chi rimprovera la scarsa democraticità di una scelta del genere (“In democrazia tutti hanno diritto di parola”, recita l’adagio). A parte il fatto che il sottrarsi al confronto con una persona che non si ritiene degna, non è la stessa cosa che zittirla. Ecco, a parte questo, c’è in questa posizione una visione di una democrazia “in purezza” che non fa i conti col terribile fluire delle cose, che ci inchioda alla scelta giorno per giorno, non c’è delega che tenga. E qui si torna al problema grande come una casa: perché sì, la democrazia è di tutti, ma può essere, deve essere, aperta anche a chi predica idee di discriminazione? Può essere aperta anche a chi si comporta nel modo in cui i militanti di Casapound si comportano contro persone inermi, come l’accaduto di Roma documenta? Detto altrimenti: si può tranquillamente discettare di idee per la città con chi milita in una organizzazione (piccola o grande poco conta) che a parole di discriminazione fa seguire atti che rischiano di mettere in pericolo l’incolumità di altri esseri umani?

martedì 16 aprile 2019

E però (di cose umbre e non solo)

E però, scusate. Due-tre cose che non tornano sulla vicenda sanità in Umbria.

1) Qui sembra che la politica, cioè il Pd, perché alla Regione governa(va) un monocolore Pd, sia tutta uno schifo. Lo schifo c’è. E pure notevole. È appena il caso di far notare però che dall’inchiesta emerge che per ogni politico (o direttore sanitario messo lì da un politico) c’è una pletora di persone comuni che fanno la fila per la raccomandazione: addirittura a un certo punto nelle intercettazioni c’è quel poveraccio di Duca (il direttore generale dell’ospedale, arrestato) che si lamenta perché ci stanno più raccomandati che posti messi a concorso. Se fanno schifo quelli che detengono il potere, è anche perché la gggente gli consente di esercitare il potere in quel modo. O no? Certo che c’è da distinguere tra chi sta sopra e chi sta sotto. Tra chi ha il potere e chi il potere lo subisce. Però, a parte tanto cianciare sulla meritocrazia, pare che la corsa fosse a cercarsi la raccomandazione più sicura, non a fare gli onesti. E a occhio e croce tra i più indignati contro questo “schifo” ci dovrebbero essere anche (ho detto “anche”, non “solo”, facciamo a capirci) quelli che una raccomandazione non ce l’hanno fatta a ottenerla, non solo chi questo sistema lo schifa davvero.

2) Dice: adesso la parte buona del Pd rialzi la testa. Dice anche: adesso i giovani del Pd battano un colpo. Ma santiddio, quello è il partito che in Umbria ha eletto Gianpiero Bocci segretario quattro mesi (4 mesi) fa. E non è questione di guai giudiziari. Bocci ha fatto il sindaco del suo paese natale nel 1985, c’aveva 22 anni. Da lì in poi, uscendo da un palazzo solo per entrare in un altro più grosso, è stato ripetutamente consigliere regionale, parlamentare e sottosegretario. Uno intriso di sistema. Trentaquattro anni di carriera politica senza alcun atto che sia impresso nella memoria di nessuno di noi. Fino a candidarsi alle ultime elezioni da sottosegretario uscente e arrivare terzo su tre nel collegio uninominale in cui si era presentato. A dieci mesi dalla disfatta, è diventato segretario regionale grazie a più di dodicimila persone (la gggente) che sono andate ai gazebo a mettere una croce sul suo nome, e grazie a uno stato maggiore del Pd regionale che lo ha sostenuto a spada tratta; non male per un partito che ha fatto dello slogan “vincere” un mantra fino a perdere del tutto la propria identità. Dice, i giovani. Ma, benedetto il signore, il Pd è un partito che per tre anni e mezzo si è messo in mano a una brigata di quarantenni che l’hanno portato al minimo storico e sono dovuti fuggire. In Umbria è successa più o meno la stessa cosa in miniatura. I giovani? Ma davvero?

3) Il sistema (e qui arriviamo al punto più difficile). Sì. Certo. C’è un problema di sistema. Ma non è quello dei politici cattivi e della gggente buona. Stante che chi è chiamato a governare ha bisogno di personale tecnico-amministrativo coerente per dettare le politiche che ha in mente (è un problema che va al di là della sanità), e stante che la cosa pubblica non è appannaggio di chi la governa pro-tempore, occorrerebbe trovare le soluzioni (cioè le leggi) per salvaguardare il diritto della politica di governare ma non di papparsi tutto, e delle persone competenti di lavorare. Questo è il punto. Ma non lo raggiungeremo mai finché la gggente continuerà a tirarsi fuori, guardare dalla finestra e considerarsi vittima del sistema cui contribuisce senza minimamente metterlo in discussione (disclaimer: solo che mettere in discussione il sistema costa), né finché cercheremo soluzioni improbabili: i giovani, la discontinuità dove regna la palude, l’alternativa dove sta la coazione a ripetere. Per uscire dal pantano occorrono competenza e innovazione. E l’innovazione è un investimento di fiducia che devi fare non solo su te stesso, ma anche su chi ti ascolta, perché devi fargli capire che occorre immaginare qualcosa che adesso non c’è, e spesso non ci riesci. Perché questo crea lo smarrimento che cede alla conservazione. Anche in chi crede di essere progressista. È dura. È già tanto dura di per sé. Non ce la complichiamo con autoassoluzioni e cercando le soluzioni dove non ce n'è traccia.