mercoledì 26 settembre 2012

Il (meno) peggio

Quando vent'anni fa Bettino Craxi fece la celebre chiamata di correità in Parlamento sul finanziamento illecito ai partiti, la cosa creò sconcerto e quella linea di difesa suscitò qualche nota di biasimo. Oggi nel tritatutto di immagini-video-commenti-dichiarazioni-spot, si sta perdendo di vista che la linea difensiva dei protagonisti dello spettacolo indecente che abbiamo davanti - che non va dimenticato, hanno spesso dietro di loro raffinati e ben pagati consiglieri e/o avvocati - è più o meno la seguente: anche gli altri lo fanno, non sono io il/la peggiore, sono stato solo sfortunato che mi hanno beccato/a, e fortunati loro che sono riusciti a nascondere tutto. La linea, al di là dell'eleganza e della sede scelta (Craxi lo fece in Parlamento con un discorso scritto, gli attuali protagonisti lo fanno urlando davanti alle telecamere di programmi di quarta serie) è la medesima. Solo che oggi nessuno lo nota. E al bar, negli uffici, nelle fabbriche e dalle parrucchiere, i teleutenti si accapigliano a discutere sull'agenda dettata da questi arruffapopoli da quattro soldi: "Sì, è vero, lo fanno tutti", "No non è vero, non sono tutti uguali". Ma una politica che non sa più indicare il verso migliore e si ripiega, quando va bene, sul meno peggio, la dice lunga sul peggioramento dei tempi. E un'opinione pubblica che non lo nota e anzi accetta il piano del discorso - annichilita e troppo presa, più che a prendere seriamente e fattivamente le distanze, a covare livore sordo e invidia nei confronti di chi per anni ha svoltato alla faccia degli altri - dà ulteriormente il senso dell'involuzione. E di come sia difficile uscire dal labirinto nel quale siamo ficcati. Perché abbiamo disimparato bene a cercare il meglio.

venerdì 21 settembre 2012

Fiorito e noi

Troppo facile e fuorviante soffermarsi sulla stazza der federale de Anagni, al secolo Franco Fiorito; sulla rozzezza basica con cui Renata Polverini ha chiesto al consiglio regionale del Lazio di fare piazza pulita. Il gessato inevitabilmente sgraziato costretto ad avvolgere i quasi due quintali di Fiorito, le amenità ammannite da Polverini e tutto il circo di immagini e parole che ci sta invadendo da giorni sono così abbaglianti da accecare. C'è quasi da compatire Niccolò Ammaniti, il cui genio ci aveva regalato solo tre anni fa un affresco poderoso ("Che la festa cominci") che una realtà assai più veloce della fantasia rischia oggi di declassare da romanzo a cronaca. Troppo facile affondare le unghie affilate dall'indignazione su quell'adipe molle simbolo di decadenza. Facile. Fuorviante. E autoassolutorio. Scrive Michele Serra che Franco Fiorito siamo noi. Non offendetevi. Serra ha ragione. Ma è ottimista. Perché vede uno spiraglio quasi a portata di mano: un paese può cambiare, dice, se il suo popolo migliora, se le persone migliorano la loro cultura, le loro ambizioni. Certo. Non fosse che milioni di persone, a leggere quelle parole mormorerebbero a se stesse: "Riecco la menata del solito trombone di sinistra". Perché cultura rimanda alla locuzione "che due palle". Perché migliorarsi combacia con arricchirsi. Perché l'ambizione è godersela. E godersela equivale a consumare qualsiasi cosa: benzina, risorse, soldi, sesso. Non per tutti, certo. Ma l'immaginario collettivo, il solco nel quale scorre il fiume del nostro tempo, è questo. Non si spiegherebbe altrimenti perché da decenni Fiorito e migliaia di mediocri come lui prendono decine di migliaia di voti, dal più oscuro dei consiglieri di circoscrizione alle cariche più alte. Con le conseguenze, in termini di governo della "cosa pubblica", che abbiamo sotto gli occhi. E allora, di fronte a un'apocalisse del genere, davvero vogliamo rifugiarci nell'autoassoluzione sostenendo che Fiorito e i troppi come lui sono antropologicamente diversi da noi e dal rimpianto Berlinguer, come sostiene Francesco Merlo? No. Al massimo noi siamo i bastardi e Fiorito e i troppi come lui sono i figli legittimi di un tempo che ha perso la dimensione lunga perché ha bandito le parole "costruzione" e "alternativa", perché ha trasformato la critica in crimine e fa un valore dell'obbedienza da caserma. Un tempo piatto in cui non c'è proiezione e vale solo il qui e ora. E se non c'è dimensione lunga non c'è promozione possibile. Non c'è miglioramento. E se non c'è miglioramento si sfibra anche la dimensione collettiva del vivere. Perché è l'attrazione verso un processo di emancipazione che spinge verso gli altri e chiama gli altri a sé. Se manca la prospettiva di andare avanti vale solo la pena di godersela il più possibile. Da soli. Accumulando il più possibile con qualsiasi mezzo per consumare il più possibile. Decontestualizzati dal resto. Dagli altri. Come appaiono decontestualizzati Fiorito e i mediocri che lo circondano, a godersela in una festa in cui per divertirsi servono decine di migliaia di euro mentre quelli che li hanno votati bestemmiano ogni volta che gli arriva una bolletta, ma se potessero si farebbero eleggere consiglieri non per migliorare la loro regione, ma per spassarsela coi soldi pubblici pure loro. Il mors tua vita mea non è frutto di cattiveria, ma la naturale evoluzione della rivoluzione storica ed economica (c'è chi la definisce apocalisse, appunto) in cui ci è toccato di transitare, che ci ha reso atomi e che ha fatto strame del mondo in cui l'alternativa era almeno possibile. E la fantasia e la creatività mezzi per cercarla. Da questa ferita sgorga lo spettacolo penoso, grigio e monotono che abbiamo davanti da decenni: laddove la società sperimentava, ora consuma e basta; laddove la politica era anche mezzo per porre le basi di un vivere diverso, oggi è solo un modo per sistemarsi.
Siamo colpevoli, noi bastardi? Non del tutto. La rivoluzione è passata molto al di sopra delle nostre teste. E costringe oggi molti di noi a vivere a vuoto come criceti sulla ruota. Mostriamo però miopia e respiro corto quando ci soffermiamo sulle volgarità che pur fanno rabbrividire considerando quelle il problema e non l'epifenomeno. Mentre l'antidoto è tentare di imporre un ragionare lungo. Questo è l'unico, difficilissimo, modo per ribellarsi a questi tempi claustrofobici. Oltre a tentare di scendere dalla ruota su cui giriamo a vuoto.

venerdì 24 agosto 2012

Alla rovescia

Nel mondo alla rovescia che abitiamo, siamo abituati a sentir abbaiare dalle nostre parti di volta in volta che per garantire maggiore sicurezza occorrerebbe armare: i vigili urbani, i portieri di notte, quelli di giorno ma solo dei condomini da un certo livello di reddito medio in su, gli arbitri di partite importanti e i proprietari di villette isolate, non quelli dei villoni ma solo perché lì ci sono i bodyguard con cannone d'ordinanza. Stupisce sentire il sindaco di New York dire che ci sono troppe armi in giro, da quelle parti. Hai visto, a volte il mondo si capovolge.

venerdì 29 giugno 2012

Tifo o ragione


Da una parte undici ragazzotti cui hanno fatto ripassare l'inno nazionale in fretta e furia per poi costringerli a cantarlo a squarciagola in favore di telecamera. Dall'altra sono lo stesso in undici, alcuni cantano, la maggioranza no, come è normale che sia. Con chi staresti? Con i secondi, ovvio, anche perché gli inni nazionali t'hanno sempre dato l'orticaria. Da una parte uno che fa il portiere e in conferenza stampa se la prende con giudici e giornalisti perché è stato divulgato che scommette forte. Dall'altra uno che fa il portiere e basta, senza voler sembrare per forza l'ex presidente del Consiglio. Con chi staresti? Con il secondo, ovvio. Da una parte uno in odore di essere indagato per il calcio-scommesse, dall'altra tutti al di sopra di ogni sospetto. Staresti ancora con i secondi. Poi cominciano. Giocano. Anzi, i primi giocano. Bene. Molto bene. Gli altri ci provano. I primi fanno gol. Esulti. Rifanno gol. Riesulti. Essendo conscio che insieme a te lo stanno facendo un mare di evasori fiscali che detesti. Ma esulti. No, il tifo non ha niente a che vedere con la ragione.

martedì 26 giugno 2012

Per Federico, per sua madre (e per noi)

Ora apriranno inchieste, procedimenti disciplinari e chissà cos'altro. Ma la peggiore punizione, l'agente di polizia condannato per l'omicidio di Federico Aldrovandi che ha vomitato in rete insulti contro le sue vittime (Federico e sua madre Patrizia, protagonista di una battaglia legale da medaglia al valore civile), se l'è inflitta da sé. Denudando se stesso in maniera che tutti potessero vedere come ragiona una testa che pensa che una divisa indosso attribuisca più diritti di quelli in dotazione a un comune mortale. Dimostrando la rozzezza che gli ha impedito perfino di prendere in considerazione l'idea di rifugiarsi nell'ipocrisia per nascondere sentimenti che in pochi (ammesso che li provino) avrebbero il coraggio di esprimere in maniera tanto pornografica. Si faranno inchieste, si apriranno procedimenti, certo. Ma la faticaccia che nessuno vuol prendersi in carico, da Genova in qua, è quella di capire la radice del motivo per cui le forze dell'ordine vengano permeate troppo spesso da sentimenti così sprezzanti del prossimo di cui dovrebbero prendersi cura. Certo, la divisa ha in sé il germe della violenza. Costituzionalmente ne detiene il monopolio, della violenza. Per cui la questione è di quelle radicali, appunto. Ma non ci si può arrendere al fatto che l'ordine pubblico sia in mano a gente così, che mette in costante pericolo la gente comune. E che magari, essendo appena un po' meno rozza del collega che ha dato lo spunto per questo post, è intelligente quel tanto che basta a sfruttare l'ipocrisia per non esprimere pornograficamente la sua rozzezza, ma opera ogni giorno contro la Costituzione. E il buon senso. E la vita.

venerdì 18 maggio 2012

Da Gigi D'Alessio a Cristina Donà (contro Grillo)

Dice: che hai contro Grillo? Pochi argomenti. Il primo è di pelle. Non mi piace la gente che urla. E non mi piace l'idea che sta passando sottotraccia, cioè che la radicalità debba esprimersi urlando. Che poi non è solo pelle. Perché l'urlo è la scorciatoia per farsi ascoltare dai timpani meno avvezzi alla complessità. E se invece vogliamo trovare una via d'uscita dal pantano planetario in cui siamo finiti occorre tenere conto di una molteplicità di variabili che l'urlo non contempla. Dovremmo semmai affinare ancora di più i timpani nostri, e tentare quelli di chi ascolta Gigi D'Alessio se non con i Sigur Ros almeno con Cristina Donà, per dire, piuttosto che proporre un D'Alessio iperproteico con qualche chitarra distorta in più. Con l'urlo invece, non si fa che rendere più solida la catena della superficialità, la prima da spezzare, la più spessa di quelle che ci tengono legati alla politica del qui e ora che cancella l'orizzonte. E che ci ha portato qui, miopi, grassi e incapaci di un guizzo per portarci fuori dal fango che ci cinge le vite. E poi, altro che antipolitica: confrontate non tanto i candidati grillini o il Movimento 5 Stelle, ma il personaggio Grillo (senza cui non esisterebbero né candidati né movimento) di quattro-cinque anni fa, quello delle energie rinnovabili, della qualità della vita, del riutilizzo e del riciclaggio, della biodiversità, con quello di oggi: quello delle sparate sui migranti e sulle tasse. Quello che guarda al potenziale di voti in libera uscita del centrodestra e ne carezza le viscere più oscure anche spingendo sull'acceleratore del "sono tutti uguali". Sofisticato, a suo modo; mediaticamente (ed elettoralmente) parlando efficace. Ma niente che ci possa far uscire dal pantano. Perché è proprio la politica delle viscere, dell'attaccamento alla terra senza più alzare gli occhi al cielo, dello spot (urlato) che ci ha portati dove siamo. Servirebbe una ribellione di massa alla semplificazione delle complessità, invece; che sappia contrapporre il lungo al breve, il profondo al superficiale. Cosa che Grillo non fa.

lunedì 7 maggio 2012

La furbata della terza stella

Forse in questa rivendicazione della terza stella sulla maglia da parte dei tifosi della Juventus e della stessa società c'è molto della goliardia che circonda il calcio. E forse questa storia dovrebbe rimanere confinata al capitolo "Bar Sport", soprattutto in un giorno che la storia (chissà?) ricorderà come quello in cui l'Europa riprese in mano se stessa. Però, nella rivendicazione dei due scudetti che la Figc (l'organo di governo del calcio) ha revocato a causa della vicenda di calciopoli (sentenza che riduce da 30 a 28 i campionati vinti riconosciuti alla Juventus e che quindi nega il diritto alla terza stella sulla maglia) è forte la tentazione di vedere gran parte dei difetti nazionali: l'inflessibile richiamo della legalità solo quando il rispetto delle regole dev'essere onorato dagli altri; il vittimismo del "così facevano tutti ma hanno colpito solo noi"; la sindrome del complotto che ne segue; la mala educazione che s'impartisce ai tanti bimbi che seguono il calcio ai quali si comunica: sì, c'è stata una sentenza, ma chi se ne frega; la difficoltà a riconoscersi nelle istituzioni - Corte costituzionale o Figc che siano -, cioè nei soggetti che ci siamo dati per uscire dal dominio della legge della giungla. Beninteso, la storia dell'umanità è storia di rotture, di disconoscimenti di autorità che non avevano diritto ad esserlo; di volontà di superare leggi che cristallizzavano rapporti superati dal tempo. Insomma, le rivoluzioni, e anche le riforme, che ci hanno portato dove siamo oggi sono sempre nate dalla presa di coscienza che lo stato di cose presenti è insopportabile, o che è almeno da cambiare un po'. E quindi dalla presa di responsabilità che va superato, anche in maniera traumatica. Ma giocare un campionato - vincerlo addirittura - essere immersi nel sistema che regola le cose del calcio fin nel midollo, e volersi al tempo stesso cucire addosso una stella che quello stesso sistema ha giudicato illegale, farlo prendendo la scorciatoia della caciara e prescindendo dall'assunzione di responsabilità di condurre una battaglia - legale o "rivoluzionaria" che sia - sa tanto di furbata. Nazional-popolare. E per questo detestabile e da contestare. Ben al di là della saracinesca del Bar Sport.

venerdì 27 aprile 2012

Quando gli mp3 erano le cassette

Qui si ha un'età sufficiente per ricordare che questo è l'anno in cui compiono venticinque anni il disco d'esordio dei Jane's Addiction, quello d'addio degli Smiths, The Joshua Tree degli U2 e Document dei Rem. E per concludere che se il 2012 ricordasse almeno la metà dei dischi di quella potenza variegata sarebbe, musicalmente, un anno da ricordare.

giovedì 1 dicembre 2011

La realtà

Non è una novità ma leggendo in questi giorni i cenni biografici su Lucio Magri e sulla gente che gli è stata accanto nella sua parabola, emerge in maniera definitiva come la politica fosse per quella generazione innervata con la vita: ci s'innamorava tra compagni e i compagni erano anche amici con cui andare a cena, al cinema, eccetera. Tanto che Magri ha annunciato ai suoi compagni-amici del manifesto una cosa così interna a sé come l'intenzione di farla finita. Tanto che nell'ultimo viaggio ha avuto accanto una compagna, Rossana Rossanda. E una che ti sta accanto nel tuo ultimo viaggio è un po' riduttivo derubricarla a compagna in senso strettamente politico. Ma fin qui, poco di nuovo, appunto. La novità, almeno per me, sta nell'aver corretto, grazie alle letture di questi giorni, due parzialità che insieme disegnano uno scenario nuovo. La prima: avevo sempre ritenuto che questa comunanza di sensibilità politiche ed esistenziali fosse appannaggio di una certa sinistra e in qualche modo legata a una prospettiva rivoluzionaria. Sbagliavo. Magri nasce democristiano e capire da Giuseppe Chiarante (democristiano poi passato al Pci pure lui) quanto fosse stato stretto il rapporto tra i due anche quando erano nella Dc, mi ha spalancato le porte di un mondo: anche quella era una comunità. Anche i bianchi erano compagni-amici, allora. La seconda: avevo sempre considerato un privilegio dell'intellettualità il fatto che la politica si potesse innervare con la vita. Sbagliavo anche qui. E l'errore era ancor più grossolano. Perché io ho avuto la fortuna di vederle con i miei occhi, seppure erano quelli di un bambino, le sezioni del partito piene di gente; le riunioni di operai, impiegati, quadri appena usciti da una giornata di lavoro; le diffusioni militanti di chi la domenica si alzava presto lo stesso perché c'era da portare nelle case dei compagni il giornale del partito; le piazze piene per un comizio; la voglia di esserci nelle scuole come rappresentanti d'istituto, nei posti di lavoro come sindacalisti. Eccolo lo scenario nuovo: non solo per i "rivoluzionari di professione", ma anche per la gente comune, dall'una e dall'altra parte della barricata, c'era la convinzione che la politica potesse cambiare la vita; che la realtà non è un dato a sé stante ma la si può costruire, plasmare attraverso scelte, e che scelte diverse producono risultati differenti. Oggi, assieme a quella politica lì è morta  non dico l'idea di un'alternativa, ma addirittura quella di possibilità diverse. La realtà è una e una soltanto: quella data. E le decisioni sono presentate sempre come ineluttabili, inesorabili; impossibile prenderne altre. E' tutto "impossibile": inquinare meno, tassare i patrimoni, lavorare meno e meglio, migliorare la scuola, investire in ricerca, pensare a una società di eguali e (quindi) liberi. Questo il messaggio che arriva dall'alto. E dal basso, questo è stato il cambiamento antropologico, non solo della sinistra ma della società tutta, si è introiettata l'idea disumana che l'azione umana non sia in grado di cambiare la realtà. Che la realtà è un dogma. Così si vive di comandi e di esecuzioni, come in un'immensa caserma. Così non solo la politica si limita a "gestione più o meno efficiente dell'esistente", come annotano tra gli altri, De Rita e Galdo in L'eclissi della borghesia, ma l'orizzonte non esiste più e si rischia di morire di claustrofobia nella realtà angusta che ci viene costruita intorno.

martedì 29 novembre 2011

Volare

Non ho granché da scrivere in questo momento, posto qualcosa solo perché mantenere un titolo come "Fare festa" dopo la notizia della morte di Lucio Magri mi sembrava del tutto fuori luogo. E perché fa male constatare che si può decidere di sotterrarsi dopo aver tentato di volare. Soprattutto se hai provato anche tu che volare è tanto, tanto difficile.

sabato 19 novembre 2011

Fare festa

Anche se non è il migliore degli scenari possibili (magari ne riparliamo in seguito), niente monetine, solo gioia. Non smodata, contenuta. Non riso ma sorriso. Così.

giovedì 27 ottobre 2011

Certezze

Se, come è, nel livello politico-finanziario di una società (è di Europa che parlo, non di B&B) prevale trasversalmente l'idea che un decreto anti-crisi o sviluppo che lo si voglia definire debba contenere misure per agevolare i licenziamenti - ossia c'è la convinzione che lo sviluppo e il superamento di una crisi passano per la codificazione legislativa di meno lavoro e meno diritti, perdonate la semplificazione - quella società, almeno il suo incancrenito livello politico-finanziario, è da abbattere e rifondare e se non lo si fa si è destinati all'agonia. A volte, anche qui si hanno certezze.

domenica 16 ottobre 2011

Il nulla intorno

L'ordinario garantisce di accomodarsi su una morbidezza avvolgente e soffocante. Come la normalità delle reazioni seguite agli scontri di ieri a Roma: rassicurano, ma stanno togliendo ossigeno alla possibilità di capire qualcosa di quello che è successo, sta succedendo. E' che il già sentito è rassicurante, che venga da destra, da sinistra, o dal movimento. Ma se le letture di un fatto che accade oggi con le lenti di dieci, venti, trenta e più anni fa, hanno garantito a un'opinione pubblica anestetizzata (di destra, di sinistra e di movimento) di andare a dormire tranquilla ieri sera, non consentono di fare un passo avanti, rivolte all'indietro come sono. La destra di governo che punta il dito sul pesante clima politico che sarebbe stato propedeutico agli scontri o rispolvera il suo antico spirito animale manganellatore? La sinistra parlamentare che si scandalizza e si chiede retorica e strumentale come sia possibile che una città venga messa a soqquadro così, stante un ordine pubblico gestito dalla destra? Il movimento che, almeno in qualche sua parte, paventa infiltrazioni e dietrologie? Cosa c'è di differente dalle dichiarazioni sentite negli ultimi decenni in seguito a fatti del genere? Cambiano le bocche a pronunciarle, non i temi. Questa è la dannazione. L'ostinazione con cui si seguono binari consunti che portano verso destinazioni sballate. Il clima politico pesante favorisce gli scontri? Come se i ragazzi che ieri hanno scatenato il caos fossero orientabili dalle vibranti dichiarazioni quotidiane di Bersani e Di Pietro. La mancata tenuta dell'ordine pubblico? Come se le forze dell'ordine, oltre ad essere mandate a prendere schiaffi, avessero potuto fare altro se non esasperare l'esito degli scontri; era questo che avrebbe voluto l'impalpabile sinistra di opposizione? Infiltrati e dietrologie? No, per favore, basta. Erano migliaia, i mascherati. Tutti infiltrati o strumentalizzati? Ma dai. Gli accadimenti di ieri sono frutto di almeno due tendenze, come ha in parte spiegato una delle poche persone rimaste lucide, Andrea Alzetta. Primo, c'è una parte di movimento che vuol imprimere un marchio di violenza alla protesta. E anche fin qui, niente di nuovo. La novità sta nel fatto, e stiamo al secondo punto, che c'è una fetta consistente di gioventù così lasciata a se stessa da essere sensibile all'opzione violenta. Non tanto per cambiare lo stato delle cose, che è stato l'obiettivo delle frange più violente che hanno operato fino a qualche anno fa e dei "duri" che hanno pianificato i disordini di ieri. L'opzione violenta è l'unica che rimane in piedi per ragazzi che non riescono a riconoscersi più in un panorama di convivenza che si è dissolto. Anche i più estremi sulla scena degli anni Settanta avevano un orizzonte di cambiamento. Facevano politica, insomma. Con le spranghe, ma era politica. Perché la politica c'era, anche nei suoi aspetti e personaggi più squalificanti. Oggi la politica è roba da Bagaglino, affare circense di nani e ballerine. Oggi la politica è esanime. Lo testimonia un banchiere che dopo aver messo nero su bianco un diktat politico-bancario, appunto, dice di comprendere la ribellione anti-finanza e rischia pure di diventare l'eroe di una parte di indignados. Molti delle migliaia che ieri hanno appiccato il fuoco, hanno probabilmente incendiato auto meno costose di quelle che i loro genitori tengono in garage. In parecchi avranno avuto in tasca l'ultimo modello di iPhone da centinaia di euro. Alcuni staranno pure frequentando costosissimi master. Ma sono (dis)integrati. Sciolti da ogni vincolo di comunità. Perciò la distruzione è gratuita, perché si ritiene di distruggere il nulla che c'è intorno. Perché dopo decenni di bombardamento sistematico, nella comunità politica che è stata in grado di tenere dentro negli ultimi due secoli anche chi era anti-sistema, oggi non si riconoscono più migliaia di giovani che vestono e si comportano da integrati. Questo accade perché a posto di quella comunità oggi c'è il deserto delle opposte, sterili tifoserie. Non ci sono più fili a tenerci. E si sprofonda giù, ognuno nei propri luoghi comuni. Destra, sinistra e movimento. Intorno, il nulla. Ripristinare qualcosa per cui valga la pena di rimanere in comunità, ecco la migliore ricetta anti-violenza. Ma la normalità parla d'altro. E ci racconta che il resto del corteo era civile e non violento. E che gli altri, che sono figli e fratelli nostri, erano neri da espellere.

lunedì 19 settembre 2011

L'apparenza che inganna

Tra i tanti modi per parlare della vita ce ne sono anche di apparentemente rudi ma sostanzialmente commoventi. Come questo. Che adesso i Marta sui Tubi c'hanno fatto il singolo.

domenica 4 settembre 2011

Cose che non t'aspetti

Cosa c'è di simile tra due canzoni così distanti per stato d'animo, colori, lingua utilizzata, sfumature, raffinatezza, modo di cantare, modo di suonare e quant'altro? Che c'entrano l'amore e la morte in entrambe. E non te l'aspetteresti mai. Ma proprio mai, dico.

venerdì 5 agosto 2011

La paralisi

L'elemento che getta nello sconforto in mezzo a questa crisi economica è che non si sente una voce - non una, neanche al di là dell'Oceano, dove pure siede uno che aveva acceso diverse speranze - all'altezza della situazione, se è vero che la questione pare epocale. Perché il problema non è l'entrare in crisi, quello può succedere. L'abisso è che da un lato si descrive quello che sta accadendo come un flagello biblico, dall'altro non si scorge uno scarto, un guizzo, una di quelle forme di creatività che sono l'essenza della politica. E' la pigrizia mentale, l'assuefazione al già visto, l'impossibilità a muoversi perché il cervello (questo cervello collettivo occidentale) non comunica stimoli efficaci al resto del corpo in una situazione strutturalmente emergenziale; è questo che mette sconforto più che la crisi in sé.

giovedì 4 agosto 2011

Io c'ero

Spiegare come si può essere così bravi da rendere un'isola così magica da farla diventare essa evento per farci annegare l'arte e farla riemergere nuova è difficile. Farlo vedere può rendere meglio l'idea.

lunedì 11 luglio 2011

Brividi

Immagino le critiche, ma a me a vedere 'sta roba mi sono venuti i brividi. Immagino le critiche, dicevo. Ma i Doors, se non sbaglio, non si sono mai più visti in concerto dopo la morte di Jim Morrison e da quello che leggo ne hanno fatto uno di grandioso l'altro giorno a Pistoia. E rivederli così, con quel cantante lì che sembra un fantasma che ritorna in carne ed ossa, dà quella strana e drogata sensazione di sicurezza, come se la morte non esistesse, fosse evitabile o come se ci fosse la possibilità di ritrovarsi chissà quando nell'aldilà a riprenderti quello che ti è stato negato di qua. Siamo abbastanza grandi per capire che è un'operazione commerciale e bla bla bla. Non abbastanza incartapecoriti da non farci venire i brividi. Ecco.