mercoledì 16 gennaio 2013

Esclusiva, gli appelli al voto dei partiti

La maggior parte di voi non lo sa, ma gli appelli finali al voto che la Rai manderà in onda la sera del 22 febbraio sono già stati registrati dai leader politici. Questo blog è riuscito a visionare le riprese ed è in grado di proporvi le trascrizioni dei testi (tra parentesi le persone che compaiono in video).
Rivoluzione civile (Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, Oliviero Diliberto)
Ingroia in primo piano, dietro di lui gli altri tre che sgomitano per farsi inquadrare e discutono via via più animatamente. Il brusio si fa sempre più fastidioso.
Ingroia (rivolto ai tre): "E zitti, cazzo!". E tra sé e sé, quasi un pensiero a voce alta: "La colpa è mia che me li porto dietro".
Poi, finalmente rivolto alla telecamera: "L'importante non è vincere, ma partecipare".
Sinistra e libertà (Nichi Vendola): "Vi chiedo un voto, elettori, non per meschino calcolo dettato da un individualistico tornaconto personale che non appartiene alla storia mia e delle genti che rappresento. Ma perché un voto dato a Sel è un voto contro la teocrazia del dio denaro e dei suoi cantori idolatri, un voto contro i mercanti nel tempio, un voto per smontare uno a uno i tasselli che compongono questo panorama postmoderno derivante da vortici depressionari che cesellano le nostre vite e le incardinano in un progetto di neoliberismo illiberale che non può non farci affogare nel mare delle nostre stesse parole".
Fratelli d'Italia (Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Guido Crosetto)
Voci fuori campo.
Meloni: "Allora vado io?".
La Russa: "Vai, vai tu Giorgia, sei la più giovane, la più fresca, la più presentabile".
Crosetto: "E poi sei donna, eh eh".
Meloni: "Ok, vado".
Entrano in favore di telecamera: Crosetto, che si posiziona a destra per chi guarda il video, Meloni al suo fianco e La Russa a sinistra.
Meloni, dando un ultimo fugace sguardo a Crosetto: "Ok, allora...italiani, votate per noi, in questo momento di smarrimento aggrappatevi al nostro braccio destro teso verso l'alto...ehm... verso di voi. Non sprecate l'occasione di votare una destra finalmente presentabile". Pausa, sguardo verso La Russa che accenna un sorriso compiaciuto e rilassato. Poi riprende: "E poi, quanno c'era lui, i treni arivavano in orario, capito? E quanno quelle zecche dii partiggiani l'hanno messo a capoccia in giù a piazzale Loreto, da quelle tasche non è uscita nemmeno 'na moneta, perché lui non rubava, capito? Artro che 'sti zozzoni!". La Russa guarda allarmato Crosetto che, interpretando il messaggio, da consumato buttafuori tappa la bocca a Meloni e la porta via di peso.
Resta solo La Russa, visibilmente imbarazzato, davanti alla telecamera: "Abbiate pazienza, è giovane. E pure femmina".
Forza Nuova (Roberto Fiore)
"E però non vale, la Meloni copia".
Casapound (Gianluca Iannone)
"Se potressimo ve menassimo a tutti quanti. Ma 'gnaa famo, ancora sete troppi. Perciò votatece, votate noi de casapau, capito?".
Poi andandosene, sconsolato, sottovoce: "'Aa democrazia, guarda che cazzo me tocca da fa', io je l'avevo detto: nun c'annamo, continuamo a mena'. Ma quelli gnente oh, so de' coccio".
Movimento 5 Stelle (Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio)
Primo piano su Beppe Grillo. Occhi fuori dalle orbite e colorito che tende al cianotico.
"Li seppelliremo con un rutto. E se non basterà li asfalteremo. E se ancora avranno il coraggio di parlare porteremo il cemento a presa rapida...". Entra Casaleggio: "Ok Beppe, bene così. Ora basta se no mi demotivi l'elettorato moderato".
Udc (Perferdinando Casini)
Sguardo ammiccante, di tre quarti, voce flautata, fresco di shampoo.
"Amici, guardiamoci negli occhi, lo sapete anche voi: ci siamo sempre stati, ci siamo e continueremo ad esserci. Non votarci è inutile, di noi non vi libererete mai".
Futuro e libertà (Gianfranco Fini)
"Cognati? Quali cognati? Mai avuto cognati in vita mia".
Scelta civica con Monti (Mario Monti ed Enrico Bondi)
Primo piano su Mario Monti che guarda smarrito verso la telecamera, poi attacca.
"Ce lo dice l'Europa: in un triangolo rettangolo, l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei quadrati costruite sui due cateti. Sopra la panca la capra canta, sotto la panca la capra crepa. Trentatre trentini entrarono a Trento tutti e trentatre...". Entra Bondi: "Ok Mario, può andare così".
Lega nord (Roberto Maroni)
La telecamera lo sorprende con un bicchiere di grappa della Valcamonica in mano. Lui non si scompone. Lo poggia sulla scrivania, poi apre un sorriso: "Il nord prima di tut...Burp! Scusate, è che andando avanti con gli anni faccio sempre più difficoltà a digerire la cassoeula".
Pdl (Silvio Berlusconi)
"Cari elettori, siamo in democrazia, e voi potreste anche voltarmi le spalle perché mi rendo conto che dopo vent'anni anche lo spettacolo circense più spumeggiante spacca i coglioni. Sappiate però che io ho ancora da fare qui e nella malaugurata ipotesi in cui dovessi perdere le elezioni non sarò certo morto. Dopo tre giorni risorgerò, mi imbottirò di viagra e vi farò un culo così".
Pd (Pierluigi Bersani)
Telecamera fissa nel vuoto. Due voci fuori campo.
"Dai Pierluigi, ne abbiamo diritto anche noi a fare il nostro appello".
"Sì, dai e dai, ma cosa vuoi dare?, tanto è inutile..."
"Ma su, fai un bell'appello come si deve. Ti ricordi quel bel comizio nella tua Bettola quando ti applaudirono tutti. Che erano, le elezioni del '76, no?".
"Così però mi fai commuovere".
Il cameraman della Rai: "Allora? 'Nnamo?"
"Ok, arrivo".
Bersani compare davanti alla telecamera, finisce di asciugarsi gli occhi con un fazzoletto e poi:
"Se non avete niente da fare il 24 febbraio, andate al seggio. E se proprio non sapete a chi darlo il voto, beh potete sempre darlo a noi. Grazie e oh, scusate il disturbo".
Voce fuori campo: "Bravo Pierluigi, vedrai che stavolta ce la facciamo".





venerdì 11 gennaio 2013

Quello che siamo


Più di un esponente di spicco della cosidetta società civile - questa fantomatica entità di cui si canta la purezza non contaminata dalla mefitica politica - è pronto a candidarsi con chiunque, o giù di lì. O almeno, questa è l'idea che stanno dando di sé in parecchi, in questi giorni di convulse compilazioni di liste di candidati. Una faccia della medaglia che si salda con l'altra: i partiti politici, depresso il loro appeal, vanno alla disperata ricerca di "facce nuove" ritenendo che la soluzione sia una mano di vernice sopra la ruggine. "Nella mia Bologna mi hanno chiesto di candidarmi a sindaco da più parti, in modo trasversale", ha detto Milena Gabanelli al manifesto. "Certo che mi hanno chiesto di candidarmi", ha risposto anche Marco Travaglio all'autore del pezzo, Giorgio Salvetti. Ma se la carrozzeria è fradicia, la vernice sopra non serve a niente, soprattutto se messa a caso. E noi, politica e società, se non siamo del tutto infradiciati, poco ci manca. E una delle cause del nostro stare male - questo il punto - sta proprio in questa melassa indistinguibile nella quale siamo stati trascinati e sguazziamo. Si può andare con Monti o con Berlusconi; col Pd o con Ingroia; con Sel o con Grillo o con Renzi. Non ci sono grandi differenze. Perché abbiamo amputato dal nostro orizzonte obiettivi nobili, cioè autentici, da raggiungere. E se non devi andare da nessuna parte, ogni mezzo è buono per (non) arrivarci. Se non hai contenuti, la forma del contenitore dove metterli è del tutto indifferente. Se la missione è tirare a campare, un asino vale l'altro per trascinarti (non me ne vogliano gli animalisti).
I piatti della bilancia, quello della società e quello della politica, sono perfettamente alla pari. Ci siamo tutti adeguati a questa menomazione dell'indistinguibile rassicurante ed esiziale. Non ci sono opzioni in campo (da parte della politica), perché le scelte di campo autentiche spaventano una società raggomitolata su di sé - al calduccio nella propria casa mentre fuori si desertifica tutto. Una società che a sua volta non esprime un briciolo di vitalità neanche sotto elettrochoc. Come tanti piccoli camaleonti, tendiamo ad assumere tonalità neutre che non disturbino, e che proprio per il loro essere inoffensive trovino la forza di attrarre il maggior numero di (tiepidi) consensi possibile. Contiamo sul fatto che si fondano sui cardini che ci stanno uccidendo: il mantenimento della melassa nella quale nuotiamo sazi di inutilità; la riduzione delle complessità; l'andare di corsa verso il nulla col capo chino sullo smartphone.
La latitanza delle possibilità reali è però insopportabile - questo lo sentiamo lontano, da dentro - anche se la capsula anestetica nella quale siamo immersi ha l'indubbio vantaggio di preservarci dalle intemperie. Così colmiamo la lacuna con l'innalzamento del volume del dibattito politico. Giocando a far finta di scegliere e a convincerci anche un po' di farlo davvero. E' un paradiso artificiale. Grottesco. Come  vedere moglie e marito che si minacciano l'un l'altra il divorzio in seguito a una lite sul posizionamento del divano. La divaricazione massima è: divano più su o più giù di qualche centimetro - con relativi schieramenti ululanti in curva - non "divano sì" o "divano no". Così ci assecondiamo l'illusione di essere protagonisti di scelte e al tempo stesso non scalfiamo la sicurezza che non cambierà nulla.
Non è un caso se uno dei termini più in voga e più apprezzati di questa era nebbiosa è "bipartisan". E non è casuale l'accettazione rispettosa di un ossimoro sempre più diffuso: quello dell'unicità della scelta. L'unicità è la negazione della possibilità di scegliere. Ma non ci facciamo caso. Perché compromessi, pigri e impauriti dalle nostre stesse ombre, fuggiamo il conflitto delle idee come il demonio e mascheriamo tutto battagliando infervorati sul trascurabile. E il compromesso al ribasso è quello che otteniamo: raccogliamo politicamente quello che socialmente seminiamo ma ci piace lamentarci con l'alibi posticcio di meritare ben altro perché ciò ci fa sentire meno inutili. E ci nasconde che siamo spaventosamente conformisti e ci stiamo lentamente suicidando, riducendo di giorno in giorno la nostra biodiversità. Cioè la possibilità di evolvere.

giovedì 3 gennaio 2013

Welcome, rattristatevi

E allora mi sono rovinato inavvertitamente il primo dell'anno seguendo su Rai3 il film "Welcome" a più di tre anni dalla sua uscita. Sono andato a letto col magone la sera dell'1 e mi sono risvegliato con la stessa sensazione la mattina del 2. Però, poiché è dai tentativi di colmare le mancanze e gli stati di insoddisfazione, di placare le urgenze e sanare le ferite che si riesce ad andare avanti, se non l'avete fatto vi consiglio di guardarlo e di stare almeno un po' male anche voi. Perché un conto è essere immersi in un ambiente che nasconde la sua insalubrità con la forza della normalità e che così rende ordinario il patologico; un conto è vederselo srotolato davanti sotto forma di pellicola: fa un altro effetto. E l'egoismo cieco, i drammi umani piccoli e grandi, l'umanità piccola che si crede grande contro cui sbattiamo tutti i giorni assumono tutt'altra dimensione. Guardatelo, "Welcome", e rattristatevi, che poi magari dopo si riesce a dimensionare meglio le cose.

domenica 30 dicembre 2012

Ma chi l'ha detto che il 2013 sarà così pessimo?

Con i tempi che corrono a fare gli auguri di buon 2013 si rischia di passare per ipocriti. Neanche durante le ultime guerre mondiali probabilmente si è mai saputo con tanto anticipo che l'anno ancora non nato sarebbe stato peggiore di quello che stava per andare in archivio. E però in questa visione delle cose c'è tanto della malattia sorda che ci portiamo dentro senza saperlo: quella di misurare tutto con i soldi. Più soldi uguale più benessere. Meno soldi (come se ne annunciano per l'anno che arriva) più fatica. Che in parte è vero. Ma solo in parte, appunto. Ben-essere non è del tutto coincidente con ben-avere. Ecco una lista di cose che non costano, ma senza le quali la vita sarebbe molto più triste. Ognuno ha le sue. Fate la vostra e concentratevici su. Questo è l'augurio per il 2013. Che magari ci serve anche per cominciare a rivedere l'unità di misura con cui giudichiamo le cose. Qui c'è la mia (alla rinfusa e ovviamente non definitiva):
La pennata irregolare di Keith Richards
Lo sguardo di chi ti vuole bene quando te lo sta dicendo con gli occhi
Riuscire a dire con gli occhi quanto provi
Eddie Vedder che urla la colonna sonora di Into the wild
Into the wild, il film
Correre da soli quand'è giorno da poco in riva al mare
Il pesce grigliato in compagnia dopo il tramonto guardando il mare
Il panorama dall'alto
1Q84 letto da solo nel silenzio della casa vuota
Il piccolo principe letto con i tuoi figli (una pagina ciascuno, alternati)
I tuoi che ti chiedono come va
Where the streets have no name degli U2 riascoltata dopo anni
Thony, cantautrice, scoperta per caso guardando l'ultimo film di Virzì
Pane e olio
La carbonara (solo se fatta bene)
Un concerto dei Sud Sound System in piena estate in Salento
Rileggere Luigi Pintor e trovarlo attuale
Rivedere il Corrado Guzzanti di Avanzi e trovarlo attuale
Riuscire a ridere di chi pensa di essere serio e non sa quant'è ridicolo
Saper pesare cose e persone
I tuoi figli che ballano i Black Keys
Il primo sorso di una birra agognata
La potenza dei Primus
La cristallinità dei Sigur Ros
Aspettando Godot
Vincenzina e la fabbrica di Jannacci
Chiudere un pranzo ballando quando non avresti mai pensato che l'avresti fatto
Chiudere, quand'è ora.

Awards 2012

  • Disco: Padania, Afterhours
  • Libro: 1Q84, Murakami Haruki
  • Film: Io e te, Giuseppe Bertolucci

mercoledì 28 novembre 2012

Due vie (almeno)

Lessi in qualche libro tanto tempo fa (mi pare fosse "Impresa e no" di Bruno Morandi) una cosa del genere: alla domanda "perché il figlio di Agnelli deve andare a scuola gratuitamente come il figlio dell'operaio della Fiat?", noi rispondiamo così: "Perché il papà del figlio di Agnelli ha pagato tante tasse da consentire a tutti i bambini di Torino di andare a scuola". In quel ragionamento fatto nel secolo scorso c'è la risposta alla "nuova" tematizzazione in materia di sanità fatta da Mario Monti ieri e ripresa indirettamente dal professor Giavazzi nell'intervista concessa nei giorni scorsi ma mandata in onda solo ieri sera a "Porta a porta". Giavazzi, in maniera assai efficace, sostiene (banalizzo un po' il suo argomentare per esigenza di brevità) che è un'ingiustizia che i ricchi non paghino i servizi. Abolendo la gratuità per chi gode di redditi da un certo ammontare in su, è la tesi, lo stato risparmia risorse, fattore cruciale nei tempi di carestia che stiamo vivendo, e non fa del male a nessuno. Anzi: toglie a chi ha di più per non aumentare le tasse. Sembrerebbe la quadratura del cerchio. E per di più con un ragionamento che sta dalla parte delle fasce deboli. Invece non è così. Perché l'abolizione dell'universalità e della gratuità dei servizi pubblici, non è che l'apertura a un sistema duale in cui l'utente diventa cliente. I clienti di fascia alta sceglieranno, potendosela permettere, l'eccellenza; quelli di fascia bassa si dovranno accontentare della carità del pubblico privato di risorse. Ora: questo tipo di approccio può essere accettato in tema di capi d'abbigliamento; di ristorazione: chi può compra Missoni, chi no va al mercatino; chi può va da Vissani, chi no alla mensa Caritas. Ma quando ci sono di mezzo fattori costitutivi della cittadinanza come la formazione e la prevenzione e cura delle malattie siamo su tutt'altro terreno. Non è una questione di demonizzare il liberismo del professor Giavazzi, mosso sicuramente da principi alti e con molti più argomenti rispetto a quelli modesti e incerti di chi state leggendo. Si tratta solo di esporre senza paure che quella di Monti e Giavazzi è una delle possibili vie da seguire; che consentirebbe di diminuire (forse) la pressione fiscale e al tempo stesso tenere (forse) in ordine il bilancio dello stato. Ma non è affatto vero che ha come stella polare le fasce deboli: persegue semmai - senza voler essere troppo cattivi - la tenuta strettamente ragionieristica del bilancio. E soprattutto non è l'unica, come si sente dire da troppe parti. L'alternativa non è il socialismo reale, ma piuttosto servizi pubblici per tutti a prescindere dal reddito, snelli, sburocratizzati e che perseguano l'eccellenza, finanziati da una tassazione progressiva unita a una messa alla gogna sociale dell'evasore fiscale. In politica le vie devono essere almeno due: quando ce n'è una sola si chiama dittatura. E sì, il figlio di Agnelli, o di Cucinelli o di qualsiasi altro cognome importante, può, deve, andare a scuola gratuitamente, se la sceglie pubblica. Altrimenti il papà si paga la retta privata senza nessuno sconto. Non prima di aver pagato tante tasse da consentire a tutti i bambini della sua città di sedersi su un banco e seguire la lezione di un ottimo e ben pagato insegnante, senza rischiare che gli crolli il soffitto in testa.

martedì 20 novembre 2012

La fuga

Fuori pioveva. Condizionale stava al calduccio e avrebbe fatto volentieri a meno di uscire, tanto più perché sapeva che avrebbe contribuito a storpiare l'ennesima frase. Ma anche stavolta non ci fu verso, fu tirato fuori a forza: "Ma se io farei questo, non sarei degno della fiducia che voi avete in me", scrisse fiero l'uomo. Sulla via del ritorno, Condizionale buttò mestamente l'occhio alla finestra di Indicativo che, svelto svelto, appallottolò un pezzo di carta e glielo lanciò bisbigliando: "Guarda che cosa sono stato costretto a fare l'altro giorno". Tornato a casa dispiegò il foglio accartocciato e lesse: "Permettere che alcuni manifestanti generano violenza non è accettabile". Fu a quel punto che capì che non c'erano più margini per trattare. Consapevole del rischio che correva, inviò un sms a Indicativo. Nella notte, all'ora stabilita, si videro davanti alla baracca in cui era stato costretto ad andare a vivere il loro compagno malridotto. Entrarono, lo svegliarono delicatamente, consapevoli che le sorprese, vista l'ipertensione da stress accumulata negli anni, potevano giocargli un brutto scherzo. Gli spiegarono il piano. Congiuntivo s'emozionò fin quasi alle lacrime: "Finalmente, era ora, sono anni che ve lo dico. Aiutatemi a salire sulla carrozzella e fate attenzione quando spingete, se si va troppo veloci cigola". Uscirono incamminandosi come se stessero a piedi nudi su un tappeto di bicchieri rotti. Sotto al solito lampione spento incontrarono Libero Schiavotti, il consigliere economico dell'uomo che non s'era più ripreso da quando sua moglie era andata a vivere col boss. Lo interruppero mentre stava impartendo l'ormai usuale lezione notturna sul pensiero di Adam Smith al palo della luce. "Tieni, dai questo a chi sai tu", gli disse Condizionale porgendogli un biglietto. Libero Schiavotti sapeva a chi era indirizzato ma non resistette e lesse: "Se tu fossi stato un poveraccio costretto ad andare a lavorare da piccolo, avremmo capito e ti saremmo venuti incontro. Ma non si può tollerare che un professionista col conto corrente a sei zeri, che per di più è eletto dal popolo in un'assemblea rappresentativa, continui a violentare così la lingua italiana. Ce ne andiamo, così sarai costretto a rimanere muto". Schiavotti alzò gli occhi, gettò uno sguardo davanti e li vide che erano diventati tre piccole sagome in fondo al viale. Poi, noncurante, si voltò e riprese: "Allora, la mano invisibile...".

venerdì 16 novembre 2012

Ma lasciate stare Pasolini

Non essendo stato in piazza, tendendo a rifuggire dalla trappola della tv e volendo sottrarmi da immagini sempre uguali a se stesse, non ho visto nulla degli scontri nelle piazze europee del 14 novembre. Noto però che la calamità, pardon, la calamita dei luoghi comuni non cessa di attrarre il grosso dei commentatori il cui pigro pensiero (quasi) unico non sarà certo scalfito da modeste considerazioni che però non rinuncio a esporre.
Perché mi pare che ci siano almeno due fattori, se non tre, che non solo quasi tutta la stampa, ma anche tanta gente di buon senso, come vedo dai social network, tiene fuori dal dibattito. Ciò porta a considerazioni inattuali, che fanno leva sul riutilizzo di usurati cliché: Valle Giulia, il Pasolini che stava con i poliziotti e contro i manifestanti; i pochi violenti che pregiudicano la riuscita di una grande manifestazione, eccetera. E che a mio avviso ci portano in un vicolo cieco. Provo a uscirne.
Primo: non c'entra niente il '68. E neanche il '77. Di più: anche Seattle '99 e il massacro di Genova 2001 sono lontanissimi. Lì si andava in piazza per fare la rivoluzione o perché si riteneva che un altro mondo fosse possibile. Lì c'erano movimenti che sapevano di avere una pars construens da affrontare, perché si vedeva il futuro. Qui c'è una generazione (ormai forse anche due o tre) con le spalle al muro che il futuro non lo vede proprio. E a battagliare con i proletari delle forze dell'ordine di pasoliniana memoria l'altro giorno non c'erano i figli dei borghesi che potevano permettersi l'Università nel '68 e che strada facendo hanno dimenticato che volevano fare la rivoluzione. C'era gente che vive (a stenti) di precariato, che non avrà una pensione, che vede lo stato sociale sgretolarsi sotto i cannoneggiamenti dei pareggi di bilancio messi in Costituzione. 
Gli scontri, e qui veniamo al secondo punto, non sono stati ingaggiati perché si vuol fare la rivoluzione, ma per sfogare la rabbia di anni di umiliazioni; di stage non pagati, di studi che non danno qualità della vita, di sorrisetti beffardi (magari da parte del dirigente d'azienda che nel Sessantotto faceva a botte coi poliziotti), di co.co.co e co.co.pro, di "tempi determinati" incompatibili col tempo della vita. Non c'è un'ala militare organizzata. Perché si organizza chi ha uno scopo. Questa è una generazione costretta a misurarsi con problemi che stanno ben più in basso: ha da pensare alla propria vita, altro che rivoluzione. E' per questo che in piazza non ci sono gli stereotipi del violento e del bravo ragazzo. Meno che mai i rivoluzionari di professione, non foss'altro perché manca la rivoluzione da fare, appunto. Ci sono persone portate a un tale livello di stress sociale per le quali la piazza può diventare - neanche regolarmente, ma solo a volte - valvola di sfogo, difesa disperante. Il violento e il bravo ragazzo sono insomma tipi intercambiabili, come spiega bene qui Marco Bascetta.
Terzo: il fatto che non si capisca tutto questo, spiega almeno in parte il perché della violenza disperante. Le generazioni cui si sta amputando il futuro sentono di stare toccando il fondo. Eppure il mainstream non cambia. Così come le analisi che raffigurano gli scontri di piazza, anche le ricette per uscire dalla crisi ripercorrono strade che non portano da nessuna parte. Cioè: nel vortice di un crisi che viene descritta come "unica", si annaspa aggrappandosi a sostegni inservibili. E ciò porta sempre più giù. Le generazioni già a fondo lo sentono e gridano come gli viene la loro disperazione. 
Condannatela pure la violenza, ma senza un cambio di rotta non fate altro che alimentarla. Di questo si dovrebbe prendere coscienza. Invece che continuare a pensare, scrivere e agire come se si fosse in un mondo che non esiste più. 

martedì 30 ottobre 2012

Io e te

Un artista ti riporta alla vita. Alla sua radice inesplicabile. Alla tensione infinita, divaricante e mortale che la sottende. Questo ti può capitare di pensare quando esci dalla sala dove hai appena visto "Io e te". Questo ti può capitare di pensare, soprattutto, se hai preferito il cinema alla tv del "Grande commento", nella sera in cui il caos si è materializzato sotto forma di risultati elettorali. Questo ti capita di pensare quando esci e ti appare nitido quello che normalmente è sfocato. E diventi capace di misurare alla perfezione la distanza tra il reale e l'irreale paccottiglia che lo sovrasta e che scambiamo per realtà. Perché c'è (quasi) tutto quello che conta dentro "Io e te": il singhiozzo della vita e lo spettro della morte che l'accompagna; la tentazione del guscio che ci protegge e ci indebolisce al tempo stesso; il vuoto davanti che si riempie di cose che non capiamo e ci calamitano, il mistero della fratellanza e della sorellanza, e della genitorialità. Tutti ingredienti che rendono il film di Bertolucci "assoluto", sciolto dal tempo in cui è stato partorito. E che ne fanno un'opera all'altezza (e forse di più) del gran libro di Niccolò Ammaniti che l'ha originato. Sarà che nel libro, Ammaniti non ha potuto far cantare David Bowie. Poi esci dalla sala. E torni alla realtà.

venerdì 26 ottobre 2012

Lettera al manifesto (spedita da facebook)


Caro manifesto, in una volta sola compio due azioni che non faccio mai: scrivere di cose private, e per di più farlo sulla bacheca facebook altrui. Ma ne vale la pena, credo. Perché penso che nella sostanza la mia sia una vicenda accomunabile a quella di tanti altri, fatti salvi i miliardi di percorsi personali possibili. E forse sentirla ti può far bene in un momento come quello che stai passando.
Ti ho preso in mano la prima volta che erano gli anni ottanta. Ero un adolescente di provincia che voleva fare il giornalista. Lo desideravo perché convinto che far sapere alle persone cose che normalmente vengono taciute fosse un modo per cambiare il mondo in meglio. Sei diventato, stavo per dire il mio giornale. Invece sei stato molto di più. Dai miei genitori privatamente e da te pubblicamente ho imparato (credo fosse un editorale di Luigi Pintor all'indomani di una delle tante sconfitte elettorali) che quando le cose vanno male la prima azione che devi fare è domandarti dove stai sbagliando. Attraverso te ho saputo che il senso dell'utopia è spostare l'orizzonte avanti e tentare di raggiungerlo, e quindi camminare. Attraverso Pintor ho capito che un articolo si può sempre asciugare, e ne guadagna. E ricordo ancora quando la mia prima lettura mattutina era il mattinale di Norma Rangeri. Mi sono innamorato e nutrito degli affreschi sociali delle cronache delle manifestazioni che faceva Pierluigi Sullo, della lucidità di Rossana Rossanda e Ida Dominijanni; ho fatto tesoro degli inviti alla lettura di Benedetto Vecchi e della capacità di analisi di Marco D'Eramo, godo ancora con Jena-Barenghi, giusto per dirti i primi tra i tanti che mi vengono in mente. Sei stato per anni un compagno con cui andavo d'accordo su quasi tutto. Mi hai insegnato la libertà, il valore del dissenso, altro che socialismo reale (pensa: tu che volevi uscire dall'orbita sovietica e ancora ti dici comunista e gli altri che c'erano rimasti dentro e hanno cambiato tre volte nome!). Ma non ho mai conosciuto personalmente i tuoi giornalisti benché li ammirassi incondizionatamente. Troppo grandi per me, pensavo anche quando li ho avuti a portata di mano. E dire che volevo fare il giornalista da te. Nel frattempo giornalista lo sono diventato. Anche grazie alla cassetta degli attrezzi di cui tu inconsapevolmente mi hai fatto dono, che va bene anche per la provincia nella quale sono rimasto. Nel tempo sono venuto trovando diversi punti di disaccordo con te e da parecchio ormai, ovviamente, non sei più l'unico quotidiano che leggo. Ma, questo voglio dirti, anche se non mi appari più come il “genitore” che eri, continuo a trarre da te spunti introvabili altrove. E, mi perdonino i colleghi che li fanno e i lettori che li comprano, non c'è un giornale come te: libero e dunque credibile. Perché sono libere le persone che ti fanno. Perché ti fanno e ne detengono la proprietà contemporaneamente, questo è il punto. Non so come si metteranno le cose per te. Ovviamente spero il meglio. Ho scritto queste righe perché tu sappia quanto vali. E non posso ovviamente dire al collettivo di smetterla di litigare. Anzi: discutete, liberi. Però fate in modo che la vostra esperienza continui. Sapendo che in molti saranno ben contenti di darvi una mano. E non vi perdonerebbero se le vostre divisioni mettessero a repentaglio una voce come non ce ne sono. E, se sparite, non ce ne saranno.
Ciao, buona vita

lunedì 22 ottobre 2012

Come prima, più di prima

Per chi ha avuto l'opportunità di vivere in diretta la prima tangentopoli di vent'anni fa, la tentazione di fare dei parallelismi con la situazione attuale è troppo forte. E in effetti, fatti salvi un mondo completamente diverso (lì si scongelava la guerra fredda, qui la finanza cancella la politica) e un panorama politico differente (lì la Lega e l'astro nascente Berlusconi, qui il Movimento cinque stelle), la sensazione è di vivere un altro momento che in superficie appare rivoluzionario ma che se vai a guardare un po' più a fondo ha tutte le caratteristiche per diventare l'ennesimo flop. Perché? Perché quello che neanche in apparenza è cambiato è la ggente. Vent'anni fa lo scioglimento dei ghiacciai che avevano diviso i due blocchi faceva da prologo alla globalizzazione di cui la finanza al governo planetario è oggi la conseguenza. Vent'anni fa - potrà apparire un falso storico ai più giovani, ma abbiate fiducia: basta che andiate a leggere i giornali del tempo - la Lega e Berlusconi erano dalla parte dei giudici e reclamavano il "piazza pulita", così come il Movimento cinque stelle oggi. L'unica cosa che non è cambiata, neanche in superficie, è la collera popolare della ggente. Dove ci ha portato quella collera che vent'anni fa sembrava essere il propellente per un passaggio storico lo sappiamo: avevamo Forlani ed è arrivato il bunga-bunga, Craxi ha lasciato spazio a Fiorito. Dove ci porterà la collera attuale è a questo punto immaginabile. Perché la veemenza, a tratti plebea, della protesta è inversamente proporzionale alla capacità di andare alle radici delle questioni. Stiamo dentro una crisi che porta le vendite di auto a percentuali negative a doppia cifra, a Taranto si registrano morti per tumore da far accapponare la pelle; la capacità produttiva ipertrofica e dannosa di un sistema settato solo sulla quantità, insomma, non riesce a trovare sbocchi di mercato; in Europa invecchiamo assai più che negli altri continenti e investiamo meno in innovazione. E in questo tsunami noi ci preoccupiamo della tempesta nel bicchiere d'acqua: le indennità dei parlamentari, quanto rubano questi o quelli. Certo che occorre più morigeratezza nella vita pubblica. Certo che occorre far pagare i ladri. Ma non si può esaurire a quello un programma politico. E se ciò accade, e sta accadendo, la dice lunga sulla profondità di respiro di un'indignazione pronta a incarognirsi sul capro espiatorio di turno senza esigere, mettendosi anche in gioco in prima persona, un cambiamento che premi l'innovazione, la fantasia, il nuovo vero e non le scatole ridipinte con il nulla dentro. L'avremo, il capro espiatorio. Poi torneremo, anzi, continueremo a mangiare e respirare veleni, a produrre l'inutile e a farci togliere servizi perché ci diranno che ce lo chiede qualche entità inarrivabile cui non si può dire di no.

lunedì 15 ottobre 2012

Il vecchio Renzi

Una delle battute più applaudite ai suoi comizi 2.0 Matteo Renzi la ottiene così: fa abbassare le luci in platea e manda un video in cui un ingrigito D'Alema ospitato a "Otto e mezzo" sentenzia che se le primarie fossero vinte dal sindaco di Firenze "finirebbe il centrosinistra". Spento il video, riaccese le luci, Renzi riprende la parola e statuisce: "Se vinco le primarie io semmai finisce la carriera parlamentare di D'Alema". Giù applausi. Bene, nella battuta e negli applausi che la seguono ci sono lo spirito dei tempi, il capovolgimento di senso che ha già fatto strame della parola "riformismo", lo smarrimento cosmico di un popolo che vuole il nuovo ma abbraccia il vecchio. Perché in quelle poche parole Renzi rivela che se diventasse leader del centrosinistra, sarebbe lui a decidere chi far entrare in Parlamento. Esattamente come è avvenuto quattro anni fa con una legge elettorale esecrata anche da lui. Esattamente quello che ha fatto D'Alema, quattro anni fa insieme ai maggiorenti del suo partito. Esattamente quello che hanno fatto quattro anni fa i partiti che si stanno squagliando in questa coda ingloriosa di seconda Repubblica. Che D'Alema non rientri per l'ennesima volta in Parlamento è francamente questione secondaria. Ma la natura del "one man show" che Renzi sta portando in tour nei teatri e nelle tv dovrebbe se non preoccupare, far discutere chi, dopo anni di antiberlusconismo, potrebbe trovarsi a votare un Berlusconi ringiovanito senza bisogno di fare lifting. Il fatto che neanche D'Alema - che da settimane ci estenua ingaggiando un duello al giorno con il suo detrattore - abbia fatto notare la cosa all'opinione pubblica, è sintomatico di come la pratica della cooptazione sia consuetudinaria a quei piani alti della politica. Tanto consuetudinaria da non essere notata. Tanto consuetudinaria che il giovane Renzi c'ha già fatto il callo. Consuetudinaria come i capovolgimenti di senso che stanno inebetendo un'opinione pubblica sempre più debole. Che cerca una scatola nuova purchessia, senza curarsi di quello che c'è dentro.

mercoledì 26 settembre 2012

Il (meno) peggio

Quando vent'anni fa Bettino Craxi fece la celebre chiamata di correità in Parlamento sul finanziamento illecito ai partiti, la cosa creò sconcerto e quella linea di difesa suscitò qualche nota di biasimo. Oggi nel tritatutto di immagini-video-commenti-dichiarazioni-spot, si sta perdendo di vista che la linea difensiva dei protagonisti dello spettacolo indecente che abbiamo davanti - che non va dimenticato, hanno spesso dietro di loro raffinati e ben pagati consiglieri e/o avvocati - è più o meno la seguente: anche gli altri lo fanno, non sono io il/la peggiore, sono stato solo sfortunato che mi hanno beccato/a, e fortunati loro che sono riusciti a nascondere tutto. La linea, al di là dell'eleganza e della sede scelta (Craxi lo fece in Parlamento con un discorso scritto, gli attuali protagonisti lo fanno urlando davanti alle telecamere di programmi di quarta serie) è la medesima. Solo che oggi nessuno lo nota. E al bar, negli uffici, nelle fabbriche e dalle parrucchiere, i teleutenti si accapigliano a discutere sull'agenda dettata da questi arruffapopoli da quattro soldi: "Sì, è vero, lo fanno tutti", "No non è vero, non sono tutti uguali". Ma una politica che non sa più indicare il verso migliore e si ripiega, quando va bene, sul meno peggio, la dice lunga sul peggioramento dei tempi. E un'opinione pubblica che non lo nota e anzi accetta il piano del discorso - annichilita e troppo presa, più che a prendere seriamente e fattivamente le distanze, a covare livore sordo e invidia nei confronti di chi per anni ha svoltato alla faccia degli altri - dà ulteriormente il senso dell'involuzione. E di come sia difficile uscire dal labirinto nel quale siamo ficcati. Perché abbiamo disimparato bene a cercare il meglio.

venerdì 21 settembre 2012

Fiorito e noi

Troppo facile e fuorviante soffermarsi sulla stazza der federale de Anagni, al secolo Franco Fiorito; sulla rozzezza basica con cui Renata Polverini ha chiesto al consiglio regionale del Lazio di fare piazza pulita. Il gessato inevitabilmente sgraziato costretto ad avvolgere i quasi due quintali di Fiorito, le amenità ammannite da Polverini e tutto il circo di immagini e parole che ci sta invadendo da giorni sono così abbaglianti da accecare. C'è quasi da compatire Niccolò Ammaniti, il cui genio ci aveva regalato solo tre anni fa un affresco poderoso ("Che la festa cominci") che una realtà assai più veloce della fantasia rischia oggi di declassare da romanzo a cronaca. Troppo facile affondare le unghie affilate dall'indignazione su quell'adipe molle simbolo di decadenza. Facile. Fuorviante. E autoassolutorio. Scrive Michele Serra che Franco Fiorito siamo noi. Non offendetevi. Serra ha ragione. Ma è ottimista. Perché vede uno spiraglio quasi a portata di mano: un paese può cambiare, dice, se il suo popolo migliora, se le persone migliorano la loro cultura, le loro ambizioni. Certo. Non fosse che milioni di persone, a leggere quelle parole mormorerebbero a se stesse: "Riecco la menata del solito trombone di sinistra". Perché cultura rimanda alla locuzione "che due palle". Perché migliorarsi combacia con arricchirsi. Perché l'ambizione è godersela. E godersela equivale a consumare qualsiasi cosa: benzina, risorse, soldi, sesso. Non per tutti, certo. Ma l'immaginario collettivo, il solco nel quale scorre il fiume del nostro tempo, è questo. Non si spiegherebbe altrimenti perché da decenni Fiorito e migliaia di mediocri come lui prendono decine di migliaia di voti, dal più oscuro dei consiglieri di circoscrizione alle cariche più alte. Con le conseguenze, in termini di governo della "cosa pubblica", che abbiamo sotto gli occhi. E allora, di fronte a un'apocalisse del genere, davvero vogliamo rifugiarci nell'autoassoluzione sostenendo che Fiorito e i troppi come lui sono antropologicamente diversi da noi e dal rimpianto Berlinguer, come sostiene Francesco Merlo? No. Al massimo noi siamo i bastardi e Fiorito e i troppi come lui sono i figli legittimi di un tempo che ha perso la dimensione lunga perché ha bandito le parole "costruzione" e "alternativa", perché ha trasformato la critica in crimine e fa un valore dell'obbedienza da caserma. Un tempo piatto in cui non c'è proiezione e vale solo il qui e ora. E se non c'è dimensione lunga non c'è promozione possibile. Non c'è miglioramento. E se non c'è miglioramento si sfibra anche la dimensione collettiva del vivere. Perché è l'attrazione verso un processo di emancipazione che spinge verso gli altri e chiama gli altri a sé. Se manca la prospettiva di andare avanti vale solo la pena di godersela il più possibile. Da soli. Accumulando il più possibile con qualsiasi mezzo per consumare il più possibile. Decontestualizzati dal resto. Dagli altri. Come appaiono decontestualizzati Fiorito e i mediocri che lo circondano, a godersela in una festa in cui per divertirsi servono decine di migliaia di euro mentre quelli che li hanno votati bestemmiano ogni volta che gli arriva una bolletta, ma se potessero si farebbero eleggere consiglieri non per migliorare la loro regione, ma per spassarsela coi soldi pubblici pure loro. Il mors tua vita mea non è frutto di cattiveria, ma la naturale evoluzione della rivoluzione storica ed economica (c'è chi la definisce apocalisse, appunto) in cui ci è toccato di transitare, che ci ha reso atomi e che ha fatto strame del mondo in cui l'alternativa era almeno possibile. E la fantasia e la creatività mezzi per cercarla. Da questa ferita sgorga lo spettacolo penoso, grigio e monotono che abbiamo davanti da decenni: laddove la società sperimentava, ora consuma e basta; laddove la politica era anche mezzo per porre le basi di un vivere diverso, oggi è solo un modo per sistemarsi.
Siamo colpevoli, noi bastardi? Non del tutto. La rivoluzione è passata molto al di sopra delle nostre teste. E costringe oggi molti di noi a vivere a vuoto come criceti sulla ruota. Mostriamo però miopia e respiro corto quando ci soffermiamo sulle volgarità che pur fanno rabbrividire considerando quelle il problema e non l'epifenomeno. Mentre l'antidoto è tentare di imporre un ragionare lungo. Questo è l'unico, difficilissimo, modo per ribellarsi a questi tempi claustrofobici. Oltre a tentare di scendere dalla ruota su cui giriamo a vuoto.

venerdì 24 agosto 2012

Alla rovescia

Nel mondo alla rovescia che abitiamo, siamo abituati a sentir abbaiare dalle nostre parti di volta in volta che per garantire maggiore sicurezza occorrerebbe armare: i vigili urbani, i portieri di notte, quelli di giorno ma solo dei condomini da un certo livello di reddito medio in su, gli arbitri di partite importanti e i proprietari di villette isolate, non quelli dei villoni ma solo perché lì ci sono i bodyguard con cannone d'ordinanza. Stupisce sentire il sindaco di New York dire che ci sono troppe armi in giro, da quelle parti. Hai visto, a volte il mondo si capovolge.

venerdì 29 giugno 2012

Tifo o ragione


Da una parte undici ragazzotti cui hanno fatto ripassare l'inno nazionale in fretta e furia per poi costringerli a cantarlo a squarciagola in favore di telecamera. Dall'altra sono lo stesso in undici, alcuni cantano, la maggioranza no, come è normale che sia. Con chi staresti? Con i secondi, ovvio, anche perché gli inni nazionali t'hanno sempre dato l'orticaria. Da una parte uno che fa il portiere e in conferenza stampa se la prende con giudici e giornalisti perché è stato divulgato che scommette forte. Dall'altra uno che fa il portiere e basta, senza voler sembrare per forza l'ex presidente del Consiglio. Con chi staresti? Con il secondo, ovvio. Da una parte uno in odore di essere indagato per il calcio-scommesse, dall'altra tutti al di sopra di ogni sospetto. Staresti ancora con i secondi. Poi cominciano. Giocano. Anzi, i primi giocano. Bene. Molto bene. Gli altri ci provano. I primi fanno gol. Esulti. Rifanno gol. Riesulti. Essendo conscio che insieme a te lo stanno facendo un mare di evasori fiscali che detesti. Ma esulti. No, il tifo non ha niente a che vedere con la ragione.

martedì 26 giugno 2012

Per Federico, per sua madre (e per noi)

Ora apriranno inchieste, procedimenti disciplinari e chissà cos'altro. Ma la peggiore punizione, l'agente di polizia condannato per l'omicidio di Federico Aldrovandi che ha vomitato in rete insulti contro le sue vittime (Federico e sua madre Patrizia, protagonista di una battaglia legale da medaglia al valore civile), se l'è inflitta da sé. Denudando se stesso in maniera che tutti potessero vedere come ragiona una testa che pensa che una divisa indosso attribuisca più diritti di quelli in dotazione a un comune mortale. Dimostrando la rozzezza che gli ha impedito perfino di prendere in considerazione l'idea di rifugiarsi nell'ipocrisia per nascondere sentimenti che in pochi (ammesso che li provino) avrebbero il coraggio di esprimere in maniera tanto pornografica. Si faranno inchieste, si apriranno procedimenti, certo. Ma la faticaccia che nessuno vuol prendersi in carico, da Genova in qua, è quella di capire la radice del motivo per cui le forze dell'ordine vengano permeate troppo spesso da sentimenti così sprezzanti del prossimo di cui dovrebbero prendersi cura. Certo, la divisa ha in sé il germe della violenza. Costituzionalmente ne detiene il monopolio, della violenza. Per cui la questione è di quelle radicali, appunto. Ma non ci si può arrendere al fatto che l'ordine pubblico sia in mano a gente così, che mette in costante pericolo la gente comune. E che magari, essendo appena un po' meno rozza del collega che ha dato lo spunto per questo post, è intelligente quel tanto che basta a sfruttare l'ipocrisia per non esprimere pornograficamente la sua rozzezza, ma opera ogni giorno contro la Costituzione. E il buon senso. E la vita.

venerdì 18 maggio 2012

Da Gigi D'Alessio a Cristina Donà (contro Grillo)

Dice: che hai contro Grillo? Pochi argomenti. Il primo è di pelle. Non mi piace la gente che urla. E non mi piace l'idea che sta passando sottotraccia, cioè che la radicalità debba esprimersi urlando. Che poi non è solo pelle. Perché l'urlo è la scorciatoia per farsi ascoltare dai timpani meno avvezzi alla complessità. E se invece vogliamo trovare una via d'uscita dal pantano planetario in cui siamo finiti occorre tenere conto di una molteplicità di variabili che l'urlo non contempla. Dovremmo semmai affinare ancora di più i timpani nostri, e tentare quelli di chi ascolta Gigi D'Alessio se non con i Sigur Ros almeno con Cristina Donà, per dire, piuttosto che proporre un D'Alessio iperproteico con qualche chitarra distorta in più. Con l'urlo invece, non si fa che rendere più solida la catena della superficialità, la prima da spezzare, la più spessa di quelle che ci tengono legati alla politica del qui e ora che cancella l'orizzonte. E che ci ha portato qui, miopi, grassi e incapaci di un guizzo per portarci fuori dal fango che ci cinge le vite. E poi, altro che antipolitica: confrontate non tanto i candidati grillini o il Movimento 5 Stelle, ma il personaggio Grillo (senza cui non esisterebbero né candidati né movimento) di quattro-cinque anni fa, quello delle energie rinnovabili, della qualità della vita, del riutilizzo e del riciclaggio, della biodiversità, con quello di oggi: quello delle sparate sui migranti e sulle tasse. Quello che guarda al potenziale di voti in libera uscita del centrodestra e ne carezza le viscere più oscure anche spingendo sull'acceleratore del "sono tutti uguali". Sofisticato, a suo modo; mediaticamente (ed elettoralmente) parlando efficace. Ma niente che ci possa far uscire dal pantano. Perché è proprio la politica delle viscere, dell'attaccamento alla terra senza più alzare gli occhi al cielo, dello spot (urlato) che ci ha portati dove siamo. Servirebbe una ribellione di massa alla semplificazione delle complessità, invece; che sappia contrapporre il lungo al breve, il profondo al superficiale. Cosa che Grillo non fa.

lunedì 7 maggio 2012

La furbata della terza stella

Forse in questa rivendicazione della terza stella sulla maglia da parte dei tifosi della Juventus e della stessa società c'è molto della goliardia che circonda il calcio. E forse questa storia dovrebbe rimanere confinata al capitolo "Bar Sport", soprattutto in un giorno che la storia (chissà?) ricorderà come quello in cui l'Europa riprese in mano se stessa. Però, nella rivendicazione dei due scudetti che la Figc (l'organo di governo del calcio) ha revocato a causa della vicenda di calciopoli (sentenza che riduce da 30 a 28 i campionati vinti riconosciuti alla Juventus e che quindi nega il diritto alla terza stella sulla maglia) è forte la tentazione di vedere gran parte dei difetti nazionali: l'inflessibile richiamo della legalità solo quando il rispetto delle regole dev'essere onorato dagli altri; il vittimismo del "così facevano tutti ma hanno colpito solo noi"; la sindrome del complotto che ne segue; la mala educazione che s'impartisce ai tanti bimbi che seguono il calcio ai quali si comunica: sì, c'è stata una sentenza, ma chi se ne frega; la difficoltà a riconoscersi nelle istituzioni - Corte costituzionale o Figc che siano -, cioè nei soggetti che ci siamo dati per uscire dal dominio della legge della giungla. Beninteso, la storia dell'umanità è storia di rotture, di disconoscimenti di autorità che non avevano diritto ad esserlo; di volontà di superare leggi che cristallizzavano rapporti superati dal tempo. Insomma, le rivoluzioni, e anche le riforme, che ci hanno portato dove siamo oggi sono sempre nate dalla presa di coscienza che lo stato di cose presenti è insopportabile, o che è almeno da cambiare un po'. E quindi dalla presa di responsabilità che va superato, anche in maniera traumatica. Ma giocare un campionato - vincerlo addirittura - essere immersi nel sistema che regola le cose del calcio fin nel midollo, e volersi al tempo stesso cucire addosso una stella che quello stesso sistema ha giudicato illegale, farlo prendendo la scorciatoia della caciara e prescindendo dall'assunzione di responsabilità di condurre una battaglia - legale o "rivoluzionaria" che sia - sa tanto di furbata. Nazional-popolare. E per questo detestabile e da contestare. Ben al di là della saracinesca del Bar Sport.

venerdì 27 aprile 2012

Quando gli mp3 erano le cassette

Qui si ha un'età sufficiente per ricordare che questo è l'anno in cui compiono venticinque anni il disco d'esordio dei Jane's Addiction, quello d'addio degli Smiths, The Joshua Tree degli U2 e Document dei Rem. E per concludere che se il 2012 ricordasse almeno la metà dei dischi di quella potenza variegata sarebbe, musicalmente, un anno da ricordare.

giovedì 1 dicembre 2011

La realtà

Non è una novità ma leggendo in questi giorni i cenni biografici su Lucio Magri e sulla gente che gli è stata accanto nella sua parabola, emerge in maniera definitiva come la politica fosse per quella generazione innervata con la vita: ci s'innamorava tra compagni e i compagni erano anche amici con cui andare a cena, al cinema, eccetera. Tanto che Magri ha annunciato ai suoi compagni-amici del manifesto una cosa così interna a sé come l'intenzione di farla finita. Tanto che nell'ultimo viaggio ha avuto accanto una compagna, Rossana Rossanda. E una che ti sta accanto nel tuo ultimo viaggio è un po' riduttivo derubricarla a compagna in senso strettamente politico. Ma fin qui, poco di nuovo, appunto. La novità, almeno per me, sta nell'aver corretto, grazie alle letture di questi giorni, due parzialità che insieme disegnano uno scenario nuovo. La prima: avevo sempre ritenuto che questa comunanza di sensibilità politiche ed esistenziali fosse appannaggio di una certa sinistra e in qualche modo legata a una prospettiva rivoluzionaria. Sbagliavo. Magri nasce democristiano e capire da Giuseppe Chiarante (democristiano poi passato al Pci pure lui) quanto fosse stato stretto il rapporto tra i due anche quando erano nella Dc, mi ha spalancato le porte di un mondo: anche quella era una comunità. Anche i bianchi erano compagni-amici, allora. La seconda: avevo sempre considerato un privilegio dell'intellettualità il fatto che la politica si potesse innervare con la vita. Sbagliavo anche qui. E l'errore era ancor più grossolano. Perché io ho avuto la fortuna di vederle con i miei occhi, seppure erano quelli di un bambino, le sezioni del partito piene di gente; le riunioni di operai, impiegati, quadri appena usciti da una giornata di lavoro; le diffusioni militanti di chi la domenica si alzava presto lo stesso perché c'era da portare nelle case dei compagni il giornale del partito; le piazze piene per un comizio; la voglia di esserci nelle scuole come rappresentanti d'istituto, nei posti di lavoro come sindacalisti. Eccolo lo scenario nuovo: non solo per i "rivoluzionari di professione", ma anche per la gente comune, dall'una e dall'altra parte della barricata, c'era la convinzione che la politica potesse cambiare la vita; che la realtà non è un dato a sé stante ma la si può costruire, plasmare attraverso scelte, e che scelte diverse producono risultati differenti. Oggi, assieme a quella politica lì è morta  non dico l'idea di un'alternativa, ma addirittura quella di possibilità diverse. La realtà è una e una soltanto: quella data. E le decisioni sono presentate sempre come ineluttabili, inesorabili; impossibile prenderne altre. E' tutto "impossibile": inquinare meno, tassare i patrimoni, lavorare meno e meglio, migliorare la scuola, investire in ricerca, pensare a una società di eguali e (quindi) liberi. Questo il messaggio che arriva dall'alto. E dal basso, questo è stato il cambiamento antropologico, non solo della sinistra ma della società tutta, si è introiettata l'idea disumana che l'azione umana non sia in grado di cambiare la realtà. Che la realtà è un dogma. Così si vive di comandi e di esecuzioni, come in un'immensa caserma. Così non solo la politica si limita a "gestione più o meno efficiente dell'esistente", come annotano tra gli altri, De Rita e Galdo in L'eclissi della borghesia, ma l'orizzonte non esiste più e si rischia di morire di claustrofobia nella realtà angusta che ci viene costruita intorno.

martedì 29 novembre 2011

Volare

Non ho granché da scrivere in questo momento, posto qualcosa solo perché mantenere un titolo come "Fare festa" dopo la notizia della morte di Lucio Magri mi sembrava del tutto fuori luogo. E perché fa male constatare che si può decidere di sotterrarsi dopo aver tentato di volare. Soprattutto se hai provato anche tu che volare è tanto, tanto difficile.

sabato 19 novembre 2011

Fare festa

Anche se non è il migliore degli scenari possibili (magari ne riparliamo in seguito), niente monetine, solo gioia. Non smodata, contenuta. Non riso ma sorriso. Così.

giovedì 27 ottobre 2011

Certezze

Se, come è, nel livello politico-finanziario di una società (è di Europa che parlo, non di B&B) prevale trasversalmente l'idea che un decreto anti-crisi o sviluppo che lo si voglia definire debba contenere misure per agevolare i licenziamenti - ossia c'è la convinzione che lo sviluppo e il superamento di una crisi passano per la codificazione legislativa di meno lavoro e meno diritti, perdonate la semplificazione - quella società, almeno il suo incancrenito livello politico-finanziario, è da abbattere e rifondare e se non lo si fa si è destinati all'agonia. A volte, anche qui si hanno certezze.

domenica 16 ottobre 2011

Il nulla intorno

L'ordinario garantisce di accomodarsi su una morbidezza avvolgente e soffocante. Come la normalità delle reazioni seguite agli scontri di ieri a Roma: rassicurano, ma stanno togliendo ossigeno alla possibilità di capire qualcosa di quello che è successo, sta succedendo. E' che il già sentito è rassicurante, che venga da destra, da sinistra, o dal movimento. Ma se le letture di un fatto che accade oggi con le lenti di dieci, venti, trenta e più anni fa, hanno garantito a un'opinione pubblica anestetizzata (di destra, di sinistra e di movimento) di andare a dormire tranquilla ieri sera, non consentono di fare un passo avanti, rivolte all'indietro come sono. La destra di governo che punta il dito sul pesante clima politico che sarebbe stato propedeutico agli scontri o rispolvera il suo antico spirito animale manganellatore? La sinistra parlamentare che si scandalizza e si chiede retorica e strumentale come sia possibile che una città venga messa a soqquadro così, stante un ordine pubblico gestito dalla destra? Il movimento che, almeno in qualche sua parte, paventa infiltrazioni e dietrologie? Cosa c'è di differente dalle dichiarazioni sentite negli ultimi decenni in seguito a fatti del genere? Cambiano le bocche a pronunciarle, non i temi. Questa è la dannazione. L'ostinazione con cui si seguono binari consunti che portano verso destinazioni sballate. Il clima politico pesante favorisce gli scontri? Come se i ragazzi che ieri hanno scatenato il caos fossero orientabili dalle vibranti dichiarazioni quotidiane di Bersani e Di Pietro. La mancata tenuta dell'ordine pubblico? Come se le forze dell'ordine, oltre ad essere mandate a prendere schiaffi, avessero potuto fare altro se non esasperare l'esito degli scontri; era questo che avrebbe voluto l'impalpabile sinistra di opposizione? Infiltrati e dietrologie? No, per favore, basta. Erano migliaia, i mascherati. Tutti infiltrati o strumentalizzati? Ma dai. Gli accadimenti di ieri sono frutto di almeno due tendenze, come ha in parte spiegato una delle poche persone rimaste lucide, Andrea Alzetta. Primo, c'è una parte di movimento che vuol imprimere un marchio di violenza alla protesta. E anche fin qui, niente di nuovo. La novità sta nel fatto, e stiamo al secondo punto, che c'è una fetta consistente di gioventù così lasciata a se stessa da essere sensibile all'opzione violenta. Non tanto per cambiare lo stato delle cose, che è stato l'obiettivo delle frange più violente che hanno operato fino a qualche anno fa e dei "duri" che hanno pianificato i disordini di ieri. L'opzione violenta è l'unica che rimane in piedi per ragazzi che non riescono a riconoscersi più in un panorama di convivenza che si è dissolto. Anche i più estremi sulla scena degli anni Settanta avevano un orizzonte di cambiamento. Facevano politica, insomma. Con le spranghe, ma era politica. Perché la politica c'era, anche nei suoi aspetti e personaggi più squalificanti. Oggi la politica è roba da Bagaglino, affare circense di nani e ballerine. Oggi la politica è esanime. Lo testimonia un banchiere che dopo aver messo nero su bianco un diktat politico-bancario, appunto, dice di comprendere la ribellione anti-finanza e rischia pure di diventare l'eroe di una parte di indignados. Molti delle migliaia che ieri hanno appiccato il fuoco, hanno probabilmente incendiato auto meno costose di quelle che i loro genitori tengono in garage. In parecchi avranno avuto in tasca l'ultimo modello di iPhone da centinaia di euro. Alcuni staranno pure frequentando costosissimi master. Ma sono (dis)integrati. Sciolti da ogni vincolo di comunità. Perciò la distruzione è gratuita, perché si ritiene di distruggere il nulla che c'è intorno. Perché dopo decenni di bombardamento sistematico, nella comunità politica che è stata in grado di tenere dentro negli ultimi due secoli anche chi era anti-sistema, oggi non si riconoscono più migliaia di giovani che vestono e si comportano da integrati. Questo accade perché a posto di quella comunità oggi c'è il deserto delle opposte, sterili tifoserie. Non ci sono più fili a tenerci. E si sprofonda giù, ognuno nei propri luoghi comuni. Destra, sinistra e movimento. Intorno, il nulla. Ripristinare qualcosa per cui valga la pena di rimanere in comunità, ecco la migliore ricetta anti-violenza. Ma la normalità parla d'altro. E ci racconta che il resto del corteo era civile e non violento. E che gli altri, che sono figli e fratelli nostri, erano neri da espellere.

lunedì 19 settembre 2011

L'apparenza che inganna

Tra i tanti modi per parlare della vita ce ne sono anche di apparentemente rudi ma sostanzialmente commoventi. Come questo. Che adesso i Marta sui Tubi c'hanno fatto il singolo.

domenica 4 settembre 2011

Cose che non t'aspetti

Cosa c'è di simile tra due canzoni così distanti per stato d'animo, colori, lingua utilizzata, sfumature, raffinatezza, modo di cantare, modo di suonare e quant'altro? Che c'entrano l'amore e la morte in entrambe. E non te l'aspetteresti mai. Ma proprio mai, dico.

venerdì 5 agosto 2011

La paralisi

L'elemento che getta nello sconforto in mezzo a questa crisi economica è che non si sente una voce - non una, neanche al di là dell'Oceano, dove pure siede uno che aveva acceso diverse speranze - all'altezza della situazione, se è vero che la questione pare epocale. Perché il problema non è l'entrare in crisi, quello può succedere. L'abisso è che da un lato si descrive quello che sta accadendo come un flagello biblico, dall'altro non si scorge uno scarto, un guizzo, una di quelle forme di creatività che sono l'essenza della politica. E' la pigrizia mentale, l'assuefazione al già visto, l'impossibilità a muoversi perché il cervello (questo cervello collettivo occidentale) non comunica stimoli efficaci al resto del corpo in una situazione strutturalmente emergenziale; è questo che mette sconforto più che la crisi in sé.

giovedì 4 agosto 2011

Io c'ero

Spiegare come si può essere così bravi da rendere un'isola così magica da farla diventare essa evento per farci annegare l'arte e farla riemergere nuova è difficile. Farlo vedere può rendere meglio l'idea.

lunedì 11 luglio 2011

Brividi

Immagino le critiche, ma a me a vedere 'sta roba mi sono venuti i brividi. Immagino le critiche, dicevo. Ma i Doors, se non sbaglio, non si sono mai più visti in concerto dopo la morte di Jim Morrison e da quello che leggo ne hanno fatto uno di grandioso l'altro giorno a Pistoia. E rivederli così, con quel cantante lì che sembra un fantasma che ritorna in carne ed ossa, dà quella strana e drogata sensazione di sicurezza, come se la morte non esistesse, fosse evitabile o come se ci fosse la possibilità di ritrovarsi chissà quando nell'aldilà a riprenderti quello che ti è stato negato di qua. Siamo abbastanza grandi per capire che è un'operazione commerciale e bla bla bla. Non abbastanza incartapecoriti da non farci venire i brividi. Ecco.

martedì 14 giugno 2011

Respirare

E' sempre bene farsi trovare pronti a prendere le distanze da noi stessi. Lo è ancora di più di fronte a un'eruzione come quella alla quale si sta assistendo da qualche tempo a questa parte. Quando un vulcano erutta tu non sai cos'è successo dentro prima che vedessi il fiume incandescente sgorgare. Non sai che movimenti magmatici ci sono stati. Vedi semplicemente della lava uscire e te ne sorprendi. Noi oggi stiamo così: vediamo un vulcano silente da anni che si è messo ad eruttare e copre di lava i fianchi della sua montagna e la valle sotto. Copre le certezze, gli strumenti d'analisi, perfino gli alfabeti che si era soliti usare. Di fronte a questo, come poter pensare di avere sicurezze se non quella dell'indefinibilità del panorama che si è venuto a creare? Come, di converso, poter essere certi che siamo davvero di fronte a una soluzione di continuità? Come non essere sfiorati dal dubbio che anni di letargo (se era letargo e non sedimentazione lenta e nascosta) non possono portare a rivolgimenti? Come non considerare che quello che sta succedendo può essere solo un incidente di percorso? Detto quindi che il margine d'errore è infinitamente alto e dando ormai per scontato quello che si scrisse qui, uno tenta di capire cosa sarà cercando di raccattare i segni di oggi.
1) I canali tradizionali di formazione del consenso sono saltati. I partiti, già in parte venuti meno insieme alla prima repubblica, sono una componente sempre meno decisiva nelle scelte delle persone. I quesiti referendari sono stati promossi nonostante i partiti. Le vittorie più significative per il centrosinistra alle Amministrative sono state còlte da due eretici. Da due che secondo la vulgata degli opinion leader e politici mainstream, erano perdenti in partenza perché incapaci di parlare ai moderati, al centro; a quell'entità quasi metafisica con cui abbiamo a che fare da decenni, che per seguirla non devi fare altro che tentare di essere meno diverso possibile dal tuo avversario. La televisione ha messo la sordina ai quesiti, eppure questo non ha compromesso il raggiungimento del quorum. Anche in questo caso, un'altra entità metafisica ha mostrato tutta la sua vuotaggine: l'auditel, lo share, non tengono conto che ogni sera ci sono milioni di italiani che la tv non la guardano perché fanno mille altre cose: parlano, leggono, lavorano, ascoltano musica, giocano coi figli, navigano in internet, fanno l'amore, vanno al cinema, a teatro, a un concerto, al ristorante. Tutte attività che l'auditel non contempla. E soprattutto, gli italiani, si fanno opinioni che non si capisce come si formino, vista la loro incongruenza con gli input che da decenni sono stati sparati sul corpo sociale.
2) I partiti, che l'aria l'hanno fiutata in massima parte perché pagano i sondaggisti (i quali, a loro volta, hanno tenuto il quorum in bilico mostrando lenti parzialmente distorte anche loro), sono dovuti andare a traino. Alcuni dando libertà di voto sull'abrogazione di leggi che essi stessi avevano votato in parlamento; altri saltando preventivamente sul carro buono dopo mesi di sdegnosa indifferenza verso chi quel carro l'ha trainato. Ora, i partiti a traino ci vanno da anni. Berlusconi in questo è stato un maestro. Si fa il sondaggio, si vede come la pensa la maggioranza e si modulano i segnali da mandare all'opinione pubblica. Il punto è che pur andando a traino, fino a qualche tempo fa, i partiti sapevano essere anche acceleratori, modellatori di consenso. Oggi no. Semplicemente vanno dietro a un'opinione pubblica che non capiscono più. Se ne avessero coscienza proverebbero la sensazione di Dorian Gray davanti allo specchio. Ma forse sono addirittura così incartapecoriti da non provarle neanche più, le sensazioni.
3) E in effetti è difficile capire un'inversione di tendenza tanto decisiva. Ci siamo ubriacati di privatizzazioni. Abbiamo trasformato in manager i dirigenti scolastici e quelli ospedalieri. Tutto l'arco parlamentare non trova alcunché di scandaloso nel fatto che si facciano profitti su acqua, salute, istruzione. E che ti fa una buona maggioranza di italiani dopo tre decenni di sbornia anti-pubblico? Ti dice che i servizi pubblici locali vanno sottratti al profitto privato. Che è una contraddizione in termini, per una società di persone, che qualcun di queste persone sia messa in condizione di lucrare su qualcosa di irrinunciabile per vivere. Puoi lucrare sui pantaloni, sul caviale, sulle auto, ma non sull'acqua, sulla salute, sull'istruzione. E' una cosa tanto ovvia oggi quanto blasfema ce l'hanno fatta apparire negli ultimi trent'anni.
4) Cosa succederà? E che ne so? Si può azzardare che nelle risposte ai quesiti referendari su acqua e nucleare (essendo quello sul legittimo impedimento un accidente capitato per avere un capo del governo anomalo), c'è in nuce un programma di governo: la cosa pubblica va amministrata dalla sfera pubblica in maniera efficiente, non utilizzata per parcheggiare nei consigli d'amministrazione vecchi tromboni ormai impresentabili nelle aule consiliari e parlamentari; l'energia è una cosa seria e serve un serio programma di ricerca per liberarci dall'inquinamento, soddisfare i fabbisogni e dare impulso a una crescita autentica perché sana dell'economia. Di più. Non si deve aver paura dell'innovazione, visto che se ne ha bisogno come dell'aria. Gli elettori l'hanno capito nonostante i cannoni dell'indifferenza puntati contro. E si stanno mostrando molto più avanti di quanto la pelosa retorica sul moderatismo ne distorca le posizioni. E non si deve aver paura di misure drastiche se queste porteranno a buoni risultati nel medio periodo. In una parola, si deve rialzare la testa e guardare un po' più in là della punta dei nostri piedi. Si deve tornare a respirare, se non si vuol morire di claustrofobia. Cominciando a capire che è cambiato tutto. Non è più una sensazione, gli italiani l'hanno fatto capire mettendo una croce su un passato in cui non c'è solo Berlusconi, ma i protagonisti di un'intera stagione politica.

lunedì 13 giugno 2011

Senza parole

Sono le 23,48 e quel giornalista di razza che risponde al nome di Bruno Vespa sta trasmettendo una puntata sul caso della povera Sarah Scazzi. Non ci sarà nessuno scandalo, perché non ci sarà nessuna presa di posizione del suddetto giornalista di razza. Nessuna eruzione alla Santoro contro Castelli, nessun corsivo di Travaglio, nessun faro puntato sul presidente del Consiglio di cui non si può parlare se non macchiandosi del reato di lesa maestà. Solo un parlare di nulla nel giorno in cui è successa una cosa straordinaria, che nessuno condannerà. Perché non c'è parola contro. Semplicemente non c'è parola.

Sì!

Stasera sono andato a fare festa in piazza. Non accadeva dall'11 luglio dell'82. Annoto due frasi, a prima vista non piacevoli, ascoltate da due persone diverse, una delle quali sicuramente rispettabile, l'altra lo penso. La prima: "Mi ride anche il culo". La seconda: "Mi dispiace avere un solo pene perché stasera devo farmi almeno quattro seghe". Io ho anche un paio di cose serie da dire dopo i referendum. Le rimando a domani. Stasera è festa e c'è tanta gente che sorride in giro.

venerdì 10 giugno 2011

Urlo con Santoro

Non vorrei passare per il santoriano che non sono. Penso, come ha scritto qualche giorno fa Aldo Grasso sul Corriere, che sia un ottimo giornalista non immune da difetti. Resta il fatto che cassare una trasmissione che fa una media di ascolti sensibilmente superiore a quella della rete che la ospita, come ha scritto Grasso, è un'enormità difficile da riscontrare altrove. E resta il fatto che tra i tanti difetti che la Rai ha, c'è quello di sacrificare le professionalità (questione che va al di là di Santoro) sull'altare della politica. Non vorrei passare per il santoriano che non sono, dicevo. ma quando ho visto questo pezzo di trasmissione, non sono riuscito a trattenere un moto di soddisfazione. Anzi. Di più. Ero lì che urlavo scomposto insieme a Santoro. Perché tra le tante cose cui ci siamo assuefatti in questi anni difficili, c'è non tanto la menzogna, quanto proprio il rovesciamento della realtà. Dire, come ripete  nel video Castelli con taroccato buonsenso, che i soldi del canone servono a pagare Santoro e Travaglio, è una delle tante falsità di cui si avvale la propaganda di destra. La Rai con Santoro, a quanto mi consta, incassa il doppio di quello che spende. E semmai il surplus serve a pagare, come urla Santoro nel video, i fallimenti voluti in video dalla partitocrazia ottusa che sta sfettucciando la Rai. Invitare Santoro a confrontarsi col mercato da parte di un dirigente di un partito che ha imposto in Rai Gianluigi Paragone, è come vedere un sequestratore rinfacciare al proprio rapito di avere dei modi rudi. La realtà è che Santoro è uno che la televisione la sa fare. E sta a suo agio nel mercato, come dimostra da anni. Sono altri a dover ricorrere al doping per starci dentro. Sentirli far prediche è davvero insopportabile. Per questo urlo con Santoro anche se non sono santoriano.

lunedì 6 giugno 2011

Monosillabo referendario

Quattro Sì. Anche se la gestione degli acquedotti l'azzererei. E la ricerca sul nucleare non la mollerei.

mercoledì 1 giugno 2011

Una grande, continua promessa

Si prova un sentimento di tenerezza a vedere per l'ennesima volta la stampa di destra - dopo diciassette anni di promesse e di tasse mai abbassate, di caste mai colpite, di burocrazie sempre imperanti, di spese improduttive mai sanate - pregare a mani giunte Berlusconi perché torni il Berlusconi del '94. Berlusconi è sempre stato così, una grande promessa mai realizzata. Anzi, la politica della promessa. Tanto che degli impegni presi  da diciassette anni a questa parte non ne ha realizzato uno e li ha reiterati di anno in anno, di elezione in elezione. La cosa che è cambiata è che i suoi elettori, complici anche le sue intemperanze insopportabili per il ruolo che riveste, se ne sono accorti e hanno preferito andare al mare piuttosto che votarlo. Tutto qua.

lunedì 30 maggio 2011

Appello inutile

De Magistris, Pisapia, Zedda, per favore, non lo dite. Non dite che sarete i sindaci di tutti. Almeno voi.

La terza?

Non è successo ancora niente. Per questo, in maniera magari avventata, voglio mettere a verbale che con  risultati alle amministrative di questa portata, con la vittoria di questi candidati, cambieranno parecchie cose. Azzardo: il Pdl, con l'ormai scontata uscita di scena del collante Berlusconi potrebbe sfaldarsi in più rivoli con conseguenze al momento imprevedibili; il Pd è costretto a non poter prescindere dalla sua sinistra. Occhio: non è come ai tempi di Rifondazione, quando alla coalizione servivano i voti che sapeva portare il partito di Bertinotti; oggi di quella parte politica servono anche gli uomini. Ma è l'intero sistema politico scaturito da Tangentopoli e cosidetto della seconda repubblica che sta venendo meno.

La forza dell'abitudine

Guardo i risultati. E quasi non ci credo.

martedì 17 maggio 2011

Ululati

C'erano un partito di grande tradizione in bilico da vent'anni tra il non-si-può-fare e il dio-che-paura e delle brave persone così poco tradizionaliste da non avere partito. Il partito di grande tradizione era numeroso e stava in una casa elegante e attrezzata. La grande tradizione gli consentiva di rimanere consistente in termini numerici, ma la sua vita era da tempo inerte perché la fazione del non-si-fa e quella del dio-che paura non riuscivano ad uscire di casa. "Guardate che va a piovere, prendiamo l'ombrello", dicevano gli uni. "Ma è tutto sereno", rispondevano gli altri. "Ma che dite, guardate che nuvoloni!", era la replica. E mentre quelli si affacciavano dalla finestra a guardare le condizioni del cielo, qualcuno della parte avversa nascondeva le chiavi che poi si faceva notte a furia di cercarle e non trovarle. Le brave persone, fuori dalla casa ad aspettare che quelli del grande partito si decidessero a uscire, non riuscivano nel frattempo ad andare da nessuna parte. I popolani del villaggio che era nei pressi non li ospitavano perché li consideravano pericolosi da mettersi in casa e li ritenevano responsabili di cose strane che accadevano di notte. Le giornate erano calde e assolate quanto le notti fredde, piovose e animate da ululati che scuotevano di paura al solo sentirli, anche se nessuno aveva mai visto gli animali che li emettevano. I popolani pensavano che fossero strane bestie allevate dai senza casa là fuori. Questi dal canto loro non riuscivano a farsi credere quando dicevano che gli ululati si sentivano soltanto, ma nessuno aveva mai visto gli animali che li emettevano. Restava il fatto che di giorno era difficile mettersi in cammino sapendo di non avere una casa dove approdare la notte successiva. Passarono anni. Quelli del grande partito dentro la loro bella abitazione a litigare e cercare continuamente le chiavi per uscire, le brave persone troppo impegnate a trovare riparo in anfratti, grotte, capanne messe in piedi alla meglio. E i popolani che mettevano il naso fuori di casa solo per andare a guadagnarsi la pagnotta e vi si rintanavano la notte con i brividi per gli strani ululati che venivano da chissà dove. E per i senza casa erano polmoniti, stordimenti, malesseri di ogni tipo là fuori, dove i giorni splendenti e le notti gelate sembravano governati dal dio del meteo, che tutti sapevano che non esisteva ma quasi cominciavano a crederci. Le brave persone cominciarono a recriminare con quelli dentro la casa: "Guarda tu, essere così in tanti, attrezzati e non riuscire a decidersi a uscire di casa per metterne in piedi una più grande in grado di ospitarci tutti". Ed erano disposti a dare una mano, seppure tra loro non mancava chi si beava di una vita sempre e comunque all'aperto. Poi una delle brave persone si decise a suonare il campanello di quella casa bella, attrezzata ma non sufficiente a farci star dentro tutti: "Venite fuori - disse - ho diversi amici disposti a dare una mano a costruire un edificio più grande in grado di ospirtarci tutti, se voi volete. Noi da soli non ce la facciamo senza la vostra attrezzatura, ma voi dovete avere il coraggio di uscire da casa vostra. Lo potremmo rendere autosufficiente da un punto di vista energetico, prevedere delle stanze per gli ospiti che vengono da lontano e saremmo in tanti a coltivare la terra qua intorno che potrebbe dare frutti per tutti". Quelli dentro non ci credevano e rimasero scettici ma fu la distrazione a fregarli: fuori c'era un bel sole e loro smisero senza neanche accorgersene di litigare sull'ombrello e di cercare le chiavi. Semplicemente, uscirono di casa. Nel villaggio la notizia si sparse in un baleno. "Ehi, quelli del partito dalla grande tradizione sono usciti e stanno insieme a quelli senza casa, mi sa che stanno costruendo un edificio più grande, ho intravisto il progetto, verrà bellissimo", disse uno dei ragazzi di ritorno dal call center in cui avrebbe lavorato tutto il mese grazie alla chiamata dell'agenzia interinale. Parecchi dei popolani del villaggio uscirono di casa per vedere. La notte successe una cosa che non accadeva da così tanti anni da sembrare incredibile: la temperatura scese ma non gelò. E nessuno sentì ululare.

martedì 10 maggio 2011

Momenti di trascurabile felicità

Quando ti squilla il telefono e, dopo non aver fatto in tempo a rispondere, guardi il numero e realizzi che era una scocciatura.

venerdì 15 aprile 2011

Niente, o quasi

Niente, solo per dire che se l'avessi conosciuto di persona l'avrei salutato con un "ciao Vik", come stanno facendo in questi momenti i suoi amici. Ma a me, che di persona non l'ho mai visto se non in video e che non ho conosciuto come la pensasse e cosa facesse se non leggendo le sue cose, e che tendo a non accorciare le distanze anche con le persone per cui provo ammirazione, esce solo un "ciao Vittorio" oltre ai brividi per la morte assurda che gli è toccata.

lunedì 21 marzo 2011

Da profano

Qualcuno forse un giorno ci fornirà una compiuta illustrazione dei reali motivi dell'accelerazione improvvisa nella guerra a Gheddafi. Petrolio, volontà di ridisegnare una mappa geopolitica inserendosi nella sopravvenuta instabilità, contenimento dell'avanzata cinese in Africa, una spruzzata di diritti umani e quant'altro. O, più verosimilmente, un po' di tutto questo saggiamente dosato. Di certo, dopo le sollevazioni di Tunisia, Egitto e Libia, quella della guerra è l'ennesima sorpresa che coglie un po' tutti. Anche perché, a leggere commentatori non del tutto sprovveduti nei giorni a ridosso della decisione di muovere guerra, a tutto si pensava tranne che a un così repentino intervento (qui e qui un paio di esempi). Questo giusto per mettere in chiaro che non è questo il post dove si daranno interpretazioni che farebbero sorridere per la loro lacunosità, vista anche l'oscurità in cui brancola gente a cui ci si rivolge per capirne qualcosa. E non sarà neanche il post in cui si sparerà su un pover'uomo - inopinatamente capo di governo - che dopo aver baciato le mani, fatto affari e firmato trattati, si trova costretto a rincorrere i bombardieri altrui per non rimanere indietro nella spartizione del bottino di guerra - fase nella quale l'Italia, essendo stata fino a ieri il principale partner commerciale della Libia, avrà solo da perdere. Il punto semmai è questo: poteva l'Italia svolgere un ruolo di mediazione, cerniera e moral suasion nei confronti di Gheddafi nel momento in cui la situazione in Libia precipitava (ruolo che il suo passato coloniale e il suo presente di partner commerciale facevano apparire agli occhi di un profano quasi naturale)? Cosa l'ha impedito? Troppo forti Francia e Gran Bretagna? Troppo arduo fare fronte comune con la Germania? Meglio tenersi con le mani libere per conservare quel ruolo predominante in Libia che gli avvenimenti di questi giorni rischiano di ridimensionare pesantemente? Rispondere è tanto difficile almeno quanto è forte la tentazione di concludere che l'opacità della posizione italiana è frutto della scarsezza della sua diplomazia. Ma è l'opinione di un profano.

giovedì 17 marzo 2011

Visti da lontano

Ma com'è stato possibile che voi, quelli che "teacher leave your kids alone", quelli che la scuola era da cambiare e i professori che avevate (alcuni, non tutti) erano da (ri)mettere sotto naftalina; voi che volevate rompere gli schemi, andare oltre, riformare, se non rifondare; quelli che "il proletariato non ha nazione ecc..."; ecco, com'è possibile che vi ritrovate a difendere tutto, a dare l'idea di quelli che vogliono che tutto rimanga uguale a se stesso, dalla scuola alla Costituzione; e ci fate sopra manifestazioni in cui sfilate col tricolore in mano? Voglio dire: che ci siano soggetti che nel tempo cambiano opinione, questo blog l'ha sempre ritenuto un fenomeno vitale. Ma che un'intera parte politica subisca una trasformazione così lenta, impercettibile e profonda da ribaltare quasi il senso del suo stare sulla scena, pone interrogativi. E anche risposte. Ad esempio questa: il berlusconismo ha cambiato tutti, anche voi che berlusconiani non siete mai stati; non illudetevi. E così vi ritrovate a difendere la scuola pubblica così com'è: sclerotizzata, con professori improbabili a insegnarci dentro e, spesso, fuori dal tempo. Sdilinquite per il Benigni sanremese istituzionalizzato e - a tratti, solo a tratti, non fraintendete - quasi nazionalista. Appendete il tricolore al davanzale dopo averci messo, anni fa, l'arcobaleno della pace. Ma che è successo? E' successo che - hai voglia a essere ottimista e a vedere il bicchiere mezzo pieno - siamo tutti da anni impegnati in una spesso neanche troppo onorevole ritirata. E per non sprofondare troppo giù, difendiamo quello che un tempo volevamo superare per andare più su. Con la non trascurabile conseguenza di apparire conservatori. Certo, ci sono state ragioni anche al di là delle nostre incapacità; certo, meglio una scuola pubblica sgangherata, che il ritorno al censo, al liceo per la borghesia e agli istituti, se va bene, per i subordinati; meglio l'Italia unita da Pordenone a Palermo che la Padania e chissà cosa sotto. Però ammettetelo, se cantate a squarciagola l'inno di Mameli brandendolo come arma politica è perché l'orizzonte si è ristretto. E quel tricolore sventolatelo almeno con meno baldanza, che i tempi sono quelli che sono.
PS: qui, qualcosa di analogo, magari più lucido e sofisticato.

martedì 15 marzo 2011

Intraducibile

Nella successione di immagini inimmaginabili e del fiume di parole che si vanno accavallando da venerdì scorso, una in particolare mi ha impressionato. L'inviato che l'ha citata l'ha spiegata più o meno così, per illustrare il modo in cui nell'altra parte di mondo stanno fronteggiando la sciagura che gli è toccato di sopportare: volontà di "tenere" per non avere la vergogna di essere un peso per la comunità di cui si fa parte. E ha concluso che la parola giapponese che aveva appena citato è intraducibile in italiano.

Nuclear era

Non ho elementi di conoscenza sufficienti a disposizione per essere in maniera convinta pro o contro il nucleare. di certo, la paura di eventuali contaminazioni e il problema dello smaltimento delle scorie, mi fa tendere a stare dalla parte dei contro, ma sono disposto a sentirle, le ragioni degli altri. Chiederei solo che di fronte a disastri di portata epocale, i sedicenti moderati nonché teorici della fine delle ideologie, usassero un po' del pragmatismo che consigliano a quelli che loro sono soliti definire comunisti, per prendere in esame la questione in maniera un po' più problematica rispetto all'approccio ottusamente furente e ideologico che stanno utilizzando.

lunedì 14 marzo 2011

mercoledì 9 marzo 2011

C'è di meglio (per fortuna)

Ieri sera dopo aver visto la copertina di Crozza e il primo intervento di Vendola a Ballarò, stavo per passare dalla sedia della cucina al divano in sala con l'intento di seguire la trasmissione. Poi la Brambilla ha elargito del falsario, prima a Vendola poi alla Perina. Ho spento la tv e ho ricominciato a leggere dalla pagina che avevo lasciato in sospeso prima di cena.

Dimenticavo

A furia di sciogliermi nell'ascolto, stavo per omettere di scrivere che l'ultimo di Paolo Benvegnù è con tutta probabilità il suo miglior disco.

Anonimi

Una delle conseguenze dell'ascolto di musica digitale su supporti sempre più trasportabili, maneggevoli e piccoli e che consentono una fruizione comoda ma forse eccessivamente "fast" dei brani in playlist personalizzate, è che i pezzi, oltre ad essere decontestualizzati rispetto alle intenzioni degli autori, vengono resi anonimi. Cioè: Pride degli U2, pubblicata nell'84, è semplicemente Pride, non è "la seconda di Unforgettable fire". Si dirà: ma quello è stato un hit mondiale. Ok, sarò stato, all'epoca, un fan dissennato ma per me, rimanendo a quell'Lp, Bad è Bad, non "la settima ecc...", "4th of July" ha un nome, non è "la sesta ecc...". Pensate a un disco bello che avete ascoltato tanto. I titoli dei pezzi ve li ricordate come se li aveste ascoltati ieri. Anzi, magari non vi ricorderete della posizione. Per esempio, se vi dicessi che "la prima di Sticky Fingers spacca", esitereste un momento, ma se vi dico che Brown sugar degli Stones è uno dei migliori pezzi rock mai scritti, capite subito di cosa si sta parlando. Oggi invece no. Sarà la vecchiaia incipiente ma io di due album recentemente pubblicati che giudico vicini al capolavoro, "In Rainbow" dei Radiohead e Grinderman 2, così, su due piedi, non ricordo un titolo. Saprei solo dirvi che le prime quattro di "In Rainbow" sono da cineteca (sì, da cineteca, perché fanno viaggiare come se si fosse al cinema), e che la medesima sequenza di Grinderman 2, ad ascoltarla, ti viene voglia di aprire la finestra e urlare al mondo che in quel momento forse potresti anche riconciliarti con lui. Ma i titoli no. Non riesco a ficcarmeli in testa. Questione di digitale o di rincoglionimento? Non lo so, fate voi. Più la prima, però, secondo me. Con un pizzico di seconda.

venerdì 25 febbraio 2011

A volte

La canzone di Giusy Ferreri è una delle tre cose da salvare di un festival di Sanremo tra i più dimenticabili di quelli che io ricordi (ed è tutto dire). Le altre due sono: sprazzi di Luca e Paolo e il pezzo dei La Crus, non al loro massimo, ma per ben figurare a Sanremo basta poco. Ora, sulle ultime due i guardiani dell'ortodossia sinistrorsa saranno pure d'accordo. Immagino invece che sulla Ferreri ci sia sorpresa. La stessa mia che non la conoscevo se non per la partecipazione a un talent che non amo e che, tentando di documentarmi un po', mi sono imbattuto in questa cosa qui e ho pensato che i conti tornano, a volte.

martedì 15 febbraio 2011

Risolvere i problemi

Questa dichiarazione si commenta da sé agli occhi di qualsiasi normodotato. Vale la pena soffermarvisi però, perché che ad incupirsi a causa dell'efficienza di una Procura (sic!) sia un pasdaran del berlusconismo; un elettore del Pdl al bancone del bar dopo il terzo grappino o un'elettrice stordita da mariadefilippi mentre finisce di friggere dolci di carnevale e distrattamente ascolta il tg1, darebbe solo il senso del baratro sociale in cui è precipitata l'Italia ai tempi della seconda repubblica. Che invece quella stessa affermazione provenga dalla riflessione di un sottosegretario alla Giustizia, è il sintomo di come chi si ostina a sostenere che questo governo tutto sommato non ha agito male e sfida B. a governare piuttosto che pensare ai suoi affari personali, non ha capito che, se è vero che con la fuoriuscita di B. l'Italia non avrà risolto i suoi problemi, è altrettanto vero che senza la fuoriuscita di B. l'Italia i suoi problemi non li affronterà mai.

giovedì 10 febbraio 2011

Moralista? Ma dde che?

Domenica tornerò a manifestarmi in piazza, portando mia figlia, dopo non so quanti anni. Le ragioni le hanno scritte meglio di quanto saprei fare io qui. Sarò in piazza sapendo, a differenza di tanti anni fa, che molti di quelli avrò attorno mi stanno lontano anni luce; che a volte sono peggiori di chi denunciano; che io stesso non faccio parte di nessuna schiera degli eletti; che già in partenza so che qualche slogan mi farà incazzare; che la manifestazione probabilmente non servirà a niente. Ma ci sarò, perché ho l'impellenza di esprimere che con questa prostituzione diffusa - con le chiappe utilizzate a posto del cervello per far carriera, con chi ce le mette e con chi le valorizza - io non c'entro proprio nulla, neanche di striscio. Ci sarò perché sto a disagio qui così. E perché ho l'impotenza di non poter sostenere e valorizzare quest'idea in altro modo.

mercoledì 9 febbraio 2011

Andromeda Maria

Su Radio2 potrete ascoltare da venerdì il nuovo singolo di Paolo Benvegnù, qui da subito. E ne vale la pena, come al solito.

Sol uomo

A veder schierati i partigiani delle libertà mentre difendono come un sol uomo l'indifendibile, il primo moto è di sorpresa (ma come si fa?), il secondo di rabbia (ma come si fa!!), il terzo è una domanda irrazionale (ma sono dotati di comprendonio anche loro?), il quarto è una delle risposte possibili a quella che viene definita l'anomalia italiana: sì che sono dotati di intelligenza, solo che sono loro stessi imprigionati nel carcere d'oro in cui li ha ficcati il loro (sol) uomo: il problema dell'Italia oggi non è solo o tanto il fatto di non aver un'opposizione all'altezza della situazione, ma anche e soprattutto quello di avere una maggioranza senza la forza di trovare alternative all'indifendibile che sta a palazzo Chigi.

sabato 29 gennaio 2011

Stupefacente

La cosa che stupisce di più di quest'uomo non è tanto l'inorridente vacuità o il fatto che se ne circondi una delle massime cariche istituzionali. E' che riesce a prendersi per il culo da solo facendo sue le massime di Cetto La Qualunque, caricatura che non sarebbe mai nata se in giro non ci fosse gente come lui.

lunedì 24 gennaio 2011

A mani giunte

Ora che Bagnasco ha parlato e che voi che ne avete spesso (quasi sempre, giustamente) denunciato le intromissioni in cose italiane avete ascoltato più o meno le cose che avevate atteso a mani giunte per giorni, fatemi mettere a verbale che un paese in cui la parola delle gerarchie cattoliche fosse un po' meno sovradimensionata e restituita al rango che merita, forse non si troverebbe nello stato osceno in cui si trova oggi l'Italia. Sì, lo so che in questa Italia, purtroppo, leggere in controlouce le parole delle gerarchie cattoliche è di cruciale importanza per capire le cose. E infatti stiamo così: a mani giunte ad aspettare Bagnasco.

sabato 22 gennaio 2011

Sottosopra così

In un paese sottosopra così, succede anche che ti tocca sentire spiegarti come tornare - no, dico, tornare - a vincere, da uno così. Ma per favore.

venerdì 21 gennaio 2011

"Non molto"

Uno cerca di capire, prova a leggere. Perché nonostante i paradossi, le esagerazioni bulimiche, l'abuso di potere dell'ancora presidente del Consiglio siano ormai di un'evidenza accecante, molta gente comune - non il diretto interessato, non i miracolati che crolleranno insieme a lui, che è normale - si ostina a non voler vedere? Christian Raimo oggi sul manifesto dà una lettura che, anche se solo parzialmente, contribuisce a far capire qualcosa (qui).

mercoledì 19 gennaio 2011

E comunque

Se per voi la candidatura e conseguente elezione in consigli provinciali, regionali, financo in parlamento, in cambio di seratine hard (tutto da provare, però le intercettazioni e i fatti - debitamente ricollegate le une agli altri - a questo sembrerebbero portare); se l'intervento notturno via telefono per bypassare la legge sfruttando la propria autorità e, così, tirare fuori da una caserma una giovane fermata per furto; se lo scambio corpi-favori-carriere che pare emergere dalla ricostruzione delle serate del presidente del consiglio; ecco: se per voi tutto questo è privacy, be', è evidente che avete qualche problema a livello mentale. Tu puoi fare tutto quel che vuoi, ma quando sfrutti la tua posizione pubblica per questioni private, io - che faccio parte del pubblico - sono autorizzato a mettere becco. Non mi sembra un concetto così arduo da capire. Ma a ben vedere questa non è che l'ultima, pecoreccia sfaccettatura del conflitto di interessi che ci domina da lustri, ormai. Altra è la pena che si prova nel vedere un uomo così alla deriva, costretto a pagare per palpeggiare carne fresca e farsi ascoltare mentre canta e racconta barzellette: quelle sì che sono questioni private, penosamente private.
PS: sono tornato a sprecare un po' di bit sulla questione perché mi sembra che gli arcoriani si stiano attestando penosamente sulla linea di difesa della privacy violata del premier, appunto. E tralascio il discorso su quanto quell'argomento risulti strumentale e inconsistente se sventolato da chi sta dalla parte di uno che ha fatto del suo privato (seppur taroccato) una questione pubblica, a cominciare da "Una storia italiana", do you remember?

martedì 18 gennaio 2011

Che dire?

Che dire?
Che siamo così messi male da essere monopolizzati e dedicare ettolitri d'inchiostro e quantità tediose di bit a una questione generata dalle patologie di uno che è partito per la tangente.
Uno sul quale ogni parola ormai è di troppo o troppo poco.
Uno da cui la sua stessa parte politica, se fosse una parte politica e non un'accolita di rancorosi e miracolati, avrebbe saputo già liberarsi.
Uno che ha occupato uno spazio esorbitante perché ha saputo intuire che intorno aveva un vuoto cosmico e ha avuto il talento di riempirlo di enormità.
Uno che ha elevato la paraculaggine a scienza politica. 
Che dire?
Che siamo messi male.
Tanto.
Da tanto.
Vuoti a perdere.
Siamo.
Grazie ad Aldo Nove

martedì 11 gennaio 2011

Carne e ossa (post autocritico)

Poiché penso che siamo tutti un po' stronzi, noi che si parla di operai senza senza cognizione di causa; noi che magari sì, conosciamo "il padrone" ma non la fabbrica, non la catena; noi che "sì il referendum è da firmare perché se no bla bla bla" e noi che "no il referendum non si deve firmare perché se no bla bla bla"; noi che "non esistono solo gli operai delle grandi fabbriche e non è giusto che di Mirafiori si parli tutti i giorni mentre se chiudono dieci fabbriche da cinquanta operai l'una sono 500 posti in fumo ma se ne fregano tutti"; noi che "la globalizzazione porta per forza a rivedere le cose" e via discorrendo, segnalo a chi non l'avesse vista questa cosa qui, perché a me ha fatto un po' impressione e, appunto, mi ha fatto sentire un po' stronzo.

lunedì 3 gennaio 2011

Wizzo Awards 2010

  • Disco: Grinderman - Grinderman 2
  • Libro: Antonio Pennacchi - Canale Mussolini
  • Film: Avatar

venerdì 17 dicembre 2010

In ascolto

Interrompo il lungo silenzio dovuto a motivi non dipendenti dalla mia volontà (come si dice in questi casi) ma da cause di forza maggiore, per dire che mi propongo di tornare più di frequente e che ho scritto poco ma ascoltato molto in questi ultimi tempi e mi sono reso conto che gli ultimi cd acquistati sono rigorosamente italiani. Di due, Sud sound system e Africa Unite, mi limito a riferirvi che se non li avete ascoltati e avete voglia di sereno anche quando il cielo è grigio, vale la pena averli a portata di mano. Di altrettanti, Massimo Volume ("Le cattive abitudini") e Marlene Kuntz ("Ricoveri virtuali e sexy solitudini), che il primo è bellissimo, a tratti emozionante, e arriva subito (da avere); che il secondo arriva al quarto-quinto ascolto e poi cresce ogni volta che lo metti su.

martedì 2 novembre 2010

Replica

Pare che per replicare alla sequela di sdegnate reazioni alla battuta del presidente del Consiglio sui gay, palazzo Chigi stia per diramare una dichiarazione alla stampa che dovrebbe avere il seguente tenore: "Portatemi le vostre sorelle".

Più e meno

Ho un'età sufficiente per ricordare che quando Craxi e Andreotti, che sembravano immortali, caddero sotto Tangentopoli, mi sembrò di vivere un momento storico che non avrei mai pensato si potesse avverare. Oggi siamo alla vigilia di una caduta che sarà al tempo stesso più fragorosa e meno solenne.

giovedì 14 ottobre 2010

Shake

Prendete il meglio dei Birthday Party e dei Bad Seeds. Mettete il cantante di entrambi i gruppi al microfono e affiancatelo con alcuni dei Bad Seeds. Mescolate bene: è il secondo album dei Grinderman.

mercoledì 13 ottobre 2010

Giustizialista

Se la radio rimane accesa quando spengo la macchina, alla rimessa in moto dell'auto, riparte anche l'audio. Questo stava succedendo poco fa mentre uscivo per la pausa pranzo, ma poiché ero partito con l'intenzione di ascoltare il cd già inserito nel lettore, ho dato il comando ma la radio era già partita e ho fatto appena in tempo ad ascoltare le parole: "Anch'io sono stata dossierata diverse volte", che mi hanno acceso la curiosità e mi hanno fatto tornare indietro - alla radio, intendo - giusto per gli attimi necessari a realizzare che il timbro di voce della sedicente dossierata era quello di Daniela Santanchè: mi sono immediatamente rituffato nell'ascolto del cd.

mercoledì 29 settembre 2010

De profundis

Il fatto che parte dell'elettorato (elettorato dico, non solo i dirigenti, ché alle topiche che prendono loro ci siamo abituati) del Pd occhieggi con simpatia (pardon: abbia occhieggiato, perché temo che il voto di fiducia di oggi scandito oggi dai futuristi getterà nello sconforto quel "popolo") ai finiani, la dice lunga sullo stato culturale, prima ancora che politico, della sinistra in Italia.

martedì 21 settembre 2010

L'alieno

Ci sarebbe da ragionare su un bel po' di cose che stanno succedendo. E linkare un articolo su Mourinho, pubblicato peraltro poco meno di una settimana, fa può apparire bizzarro. Ma è un pezzo che parla dell'Italia, non solo di Mourinho; e non solo di calcio. Ha quindi una sua validità, anche se uscito qualche giorno fa perché sfugge alla cronaca del giorno per giorno. E poi qui, a voler essere benevolenti, un po' bizzarri lo si è. E poi chi è senza bizzarrie scagli la prima pietra. L'articolo è questo.

lunedì 30 agosto 2010

Nuovo Ulivo?

C'ho pensato su. E ho concluso, per quel che può importare, che c'erano davvero pochi modi meno appetibili per Bersani per rientrare in politica dopo le ferie.

mercoledì 25 agosto 2010

Riuscire a fare la pace

Ma, insomma, che la sinistra abbia più di un problema, noi sinistri cani sciolti ce lo ripetiamo praticamente fin da quando abbiamo cominciato a masticare un po' di politica. Tanto che forse il problema comincia con noi, che non è un noi generazionale (di 'sti quarantenni orfani di tutto): è un noi trans-solidaristico (un po' come il partito radicale dei tempi andati, era il partito radicale, no?, quello trans-tutto). Un noi che abbraccia tutti quelli che quando il bicchiere è pieno a metà, si concentrano sulla parte vuota; usi a fare i conti con la perfettibilità e allergici ai proclami. Ecco, noi lo sappiamo che i partiti per i quali nel corso degli anni abbiamo votato sono pieni di gente che non ci piace. E sappiamo che quando quelli che avevamo votato sono andati al governo, più di una volta abbiamo storto bocca, naso e orecchi, di fronte a provvedimenti che non ci aspettavamo. Sappiamo anche che per due volte, una volta al governo negli ultimi anni, ci siamo fatti degli autogol che neanche Nicolai. Quelli di destra invece no. Loro rimangono a palazzo Chigi anche col respiratore automatico. Loro non si fanno male da soli. Se ne dicono come noi non sappiamo fare, e a volte se le danno anche. Ma tengono, loro. Se le danno ma tengono unito l'impossibile (date un'occhiata a caso qui, se vi va: vi si parla di donne-ancelle di partito, di berlusconismo riconducibile a editto-e-slogan e altre amenità e tenete conto che questi ancora governano con B.). Ecco, loro, quelli di destra, ce l'avranno qualche problema? E' che loro i problemi non li vedono, o meglio, li scansano: l'importante è tenere, anche quando è impossibile. Si vergognano, magari, dopo anni di fango gettato su chi diceva cose anche più moderate di quelle che vanno oggi sbraitando loro, che, ribadisco, sono ancora al governo con B. Ecco, una domanda da sinistro disastrato: ma non pensano, quelli di destra, che se le due espressioni più performanti di uomini di governo partorite dalla loro parte politica da poco meno di un secolo a questa parte, si chiamano Mussolini e Berlusconi, sarà bene che comincino a farsi qualche domanda? Per carità, non tante quante le nostre, che ci auto-conduciamo all'inazione, a volte, e magari ci auto-detestiamo. E che però, guardandoli, quelli di destra - tanto quelli che si torcono e, oggi, si vergognano, quanto quelli che vergogna non conoscono - tronfi nelle loro sicurezze, riusciamo quasi a fare la pace con noi stessi.

lunedì 23 agosto 2010

Gemme punk

Dopo parecchio che non mi capitava, mi è successo - imbattendomi in un paio di gruppi che, sebbene suonino da tempo, non conoscevo se non di nome - di ritrovare dischi da consumare. Quelli che te li porti in macchina e speri che il viaggio duri il più possibile; quelli che appena puoi te li spari in casa. Quelli che, dopo mesi, anni, di cose tiepidine, dici: oh, finalmente. Si tratta dei due ultimi lavori dei Bud Spencer Blues Explosion (Bsbe) e dei Black Keys. Non starò a farvi una assai poco interessante e molto ritardata recensione (ammesso che non li conosciate, qui e qui potete saggiarli). Quello che mi va di notare è la fecondità di questa nuova attitudine punk. Attitudine, ho detto. Entrambi i gruppi sono un duo: chitarra e batteria. I Bsbe, che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo, ci salgono anche sul palco con quella formazione. Senza nessuno a supportarli: no tastiere, no marchingegni elettronici: un duo autentico, insomma, con la sfrontatezza di aprire il set con una cover di Hendrix senza basso senza far rimpiangere l'originale e proseguendo poi con roba loro (tolta una roboante Hey boy hey girl dei Chemical Brothers). Gli altri, i Black Keys, si fanno sì aiutare, ma la loro musica rimane spiccatamente chitarra-e-batteria. E' questo, al di là di qualche venatura che pure c'è, che li fa entrambi punk: l'aver deciso di fare musica anche se manca uno di quegli strumenti che hanno fatto la storia del rock, il decidere di farlo come viene, mettendoci tutto il talento a disposizione. L'aver deciso, quando erano ancora ragazzini in un garage, di salire sul palco metaforico non rispettando i canoni. Un po' come i due folk-punkettoni Pan del Diavolo, che pestano sulle loro chitarrone acustiche e sulla cassa a-la Bennato come fossero Syd Vicious, ma senza distorsore. E' così che nascono le cose buone, prendendo il buono che c'è stato ma guardando avanti. Musica se ne può fare in tantissimi modi: ce l'ha insegnato il punk, che ancora, in alcuni casi anche senza distorsori, fa nascere gemme.
Update: a proposito di bassi e per capire meglio la sfrontatezza dei gruppi di cui si parla.