mercoledì 9 maggio 2018

Da PalaEvangelisti a Palapincopallino, che male c'è?

Nei giorni scorsi ha fatto discutere la decisione presa dalla giunta comunale di Perugia di cambiare il nome al palazzetto dello sport dove domenica scorsa la squadra di pallavolo cittadina ha conquistato il primo scudetto della sua storia. È successo che l’esecutivo cittadino ha dato il diritto di ribattezzare la struttura all’azienda che si fosse aggiudicata la gara bandita lo scorso 26 marzo. La cosa frutterà all’incirca 50 mila euro l’anno.

Il palazzetto si chiama oggi PalaEvangelisti. Evangelisti è il cognome di Giuseppe: ciclista, pittore, garibaldino e antifascista. Ci sono state diverse amenità intorno alla vicenda. Un assessore della suddetta giunta ha cannato la data di morte di Evangelisti collocandola alla fine dell’ottocento, deducendone così che Giuseppe non avrebbe mai potuto essere stato antifascista «salvo che fosse veggente», ha ironizzato. Giuseppe invece è morto a Nizza nel 1935, dopo che nel 1926 il regime fascista l’aveva mandato al confino. La cosa grave non è che il membro di giunta non sapesse nulla di Evangelisti, ma che non abbia sentito il bisogno di documentarsi prima di scriverci su. Ma non è questo il punto. Ci sono stati Vanni Capoccia e la cittadina Società operaia di Mutuo soccorso a ricordare a smemorati e spiritosi chi fu Giuseppe Evangelisti. E Leonardo Malà ha copiato-incollato sul suo profilo facebook il ritratto di “Peppino” tratto da un libro che lui, Malà, ha pubblicato nel 2008 insieme ad Alfio Branda, “Stelle in corsa”. Paradossalmente quindi, la topica dell’assessore è stata produttiva, consentendo alla città di riscoprire un suo eroe. Certo, sarebbe meglio che un membro di giunta fosse un pelino più accorto. Ma tant’è, non si può avere tutto dalla vita.

Sulla polemica si è registrato anche un comunicato della giunta, che con una discreta dose di spericolatezza ha argomentato che in seguito alla concessione del diritto di rinominare il PalaEvangelisti all’azienda aggiudicatrice dell’asta, «non verrà meno il nome giuridico-istituzionale del palazzetto dello sport che è e resta intitolato a Giuseppe Evangelisti». Cioè: la struttura si chiamerà PalaPincopallino. PalaPincopallino verrà scritto a caratteri cubitali su tutti i lati della struttura. PalaPincopallino la struttura verrà chiamata in occasione di tutte le dirette tv delle partite della squadra di volley campione d’Italia e di tutte le manifestazioni che lì verranno ospitate. Però, sotto sotto, continuerà ad essere intitolata a Giuseppe Evangelisti. Geniale. Ma non è neanche questo il punto.

Il punto è che questa cosa è stata fatta per soldi. Nel sopra citato comunicato spericolato la giunta tenta di schermarsi dietro al fatto che «si tratta di un’operazione largamente diffusa in tutte le principali città italiane che ospitano palazzetti dello sport di significative dimensioni». Al di là del fatto che la giustificazione lascia trapelare un qualche tipo di imbarazzo, come se qualcuno, all’interno della giunta, avesse subodorato che passare da PalaEvangelisti a PalaPincopallino non è una di quelle operazioni di cui andare orgogliosi. Al di là di questo, appunto, c’è un particolare che nello sgangheramento dei tempi passa per fisiologico, ma è invece patologico. È che al nome corrisponde la cosa. Se cambia il nome cambia la cosa. Succede di proposito, quando l’attacco armato a un paese viene definito «esportazione di democrazia». Succede quando si finge di distrarsi e si consente di passare da PalaEvangelisti a PalaPincopallino. Perché la struttura che ora porta il nome di un eroe, porterà il nome di un’azienda. Dove aleggiava la memoria, da domani aleggerà lo sponsor, con buona pace del «nome giuridico-istituzionale» evocato dallo spericolato comunicato della giunta. Per capire il senso della cosa, ci si può avvalere di una pratica cara alle persone attente alle questioni di genere: definire sindaca un donna eletta al vertice della massima assise cittadina non è una questione formale, come alcuni spiritosi che ironizzano su queste cose vorrebbero far credere. Definire sindaca una donna è comunicare a una bambina che c’è il nome per la carica per la quale lei un giorno decidesse di concorrere. È dire alla bambina che sì, lei potrà essere sindaca o architetta, avvocata, chirurga. Ciò, nonostante nei secoli addietro quelle professioni sono state solo appannaggio dei maschi, che le hanno coniugate secondo il loro genere perché le consideravano cosa loro. Il nome dà il senso all’oggetto, altrimenti il nostro linguaggio di umani si sarebbe limitato alla sola parola cosa. Quindi: PalaEvangelisti descrive una cosa, PalaPincopallino ne descrive un’altra. Con buona pace dei comunicati spericolati delle giunte.

Ma non siamo ancora arrivati al nodo principale. Perché abbiamo solo accennato che da PalaEvangelisti a Palapincopallino ci si arriverà per soldi. E invece è qui che sta il punto. I comuni, come quasi tutte le persone, sono sempre più strangolati da diktat provenienti da entità e dipinti come ineluttabili che non impongono solo austerità insensata e tagli e impoverimento dei servizi, ma anche veri e propri cambiamenti di senso. Secondo i dati del ministero dell’Interno, i trasferimenti erariali dello Stato al comune di Perugia sono diminuiti nell’arco di dieci anni dagli oltre 38 milioni del 2007, ai 31 del 2017. E non è successo ovviamente solo per Perugia, è una tendenza generale. Si tratta di un’erosione lenta e inesorabile che impone sforbiciate, e suggerisce la ricerca di sponsorizzazioni. Che possono portare a cambi di nome, cioè di natura delle cose, cioè di immaginario, cioè di senso, cioè di essenza di quello che siamo. Come quando si passa da PalaEvangelisti a Palapincopallino. Che lo si faccia e lo si consenta pensando che non ci sia niente di male, non attenua il male che c’è. Testimonia solo dell’incapacità di vederlo.

martedì 27 febbraio 2018

Post vano

Oggi nella città in cui vivo verrà inaugurata una sede di Forza Nuova. È stato organizzato per le 19 un presidio di protesta a Sant’Ercolano (lo dico per i perugini, invitandoli) al quale cercherò di essere in ogni modo. Ciò anche se penso che il neofascismo insorgente (quello di Casapound e Forza Nuova) sia niente più che una messa in scena muscolare e dopata, e sia assai meno pericoloso del postfascismo istituzionale di cui ci sono in giro esempi macroscopici, e della cui azione di sfondamento i neofascisti si stanno nutrendo per ripresentarsi oggi in pubblico. Ciò anche se penso che questi neofascisti stiano anzi diventando un’arma di distrazione. Ciò, anche se nell’appello gli organizzatori fanno riferimento alla messa fuorilegge delle organizzazioni neofasciste.

Sono allergico ai proibizionismi, e non è solo una questione di principio. Credo che se un umore, un’idea pericolosa vengono messi in circolazione, questi vanno combattuti destrutturandoli, denudandoli dinanzi all’opinione pubblica, non invocandone la messa fuorilegge, benché sancita dalla Costituzione. Il che non significa parlarci con i fascisti: con i fascisti in quanto fascisti non si parla. Si parla con le persone. E si dovrebbe allenare il cervello a decostruire, smascherare, smontare le narrazioni tossiche dalla radice; non a ribadire slogan da contrapporre ad altri slogan. Quelle degli slogan sono scorciatoie inefficaci, tanto per combattere il neofascismo quanto il ben più pericoloso postfascismo, che alligna in luoghi della politica apparentemente insospettabili.

Detto questo, mi piacerebbe che il presidio paralizzasse pacificamente quella parte di città. Sì, che la paralizzasse per un po’ di tempo per la quantità di corpi che sceglieranno di mettersi simbolicamente a difesa dell’antifascismo, che è lo spazio di democrazia che ci siamo dati nel 1945. Mi piacerebbe che i fascisti di Forza Nuova si intimorissero davanti a una risposta che dovrebbe essere massiccia, che si sentissero soli. Che nei loro confronti non venga proferito insulto e che si canti solo “Bella ciao”, che è di tutti, tranne che la loro. Perché sono allergico alle proibizioni, ma non a lottare con i mezzi che ritengo più efficaci. Farli sentire rifiutati, a questi fascisti, potrebbe tornare utile anche per combattere più efficacemente i postfascisti, assai più pericolosi, perché oggi su alcune questioni hanno preso l’egemonia. Denudarne l’impresentabilità servirebbe, potrebbe servire, a denudare l’impresentabilità pure dei postfascisti istituzionali.

Per questo sarebbe bello che a difesa dell’antifascismo, che è lo spazio di democrazia che abbiamo aperto nel 1945, oggi venissero tutti: dai liberali ai comunisti, dai “sinceri democratici” agli anarchici. In queste occasioni non bisogna essere d’accordo su tutto. Basta ritrovarsi su un paio di cose, che non sono solo di sinistra: la violenza come metodo è fascismo; il razzismo (più o meno ammantato di democrazia) è fascismo. Poi si può tornare a discutere su tutto, nello spazio antifascista che ci siamo dati. E si può anche accettare che quattro sfigati (pericolosi, però) aprano la loro sede nel ribrezzo generale per le idee che esprimono.

Temo che resterà vano, l’invito. Perché c’è una parte politica non fascista che giudica le cose che ho appena scritto “estremiste”, perché sotto sotto i fascisti non la spaventano come la spaventano gli antirazzisti. E allora non ci capiamo proprio, e dobbiamo rifare un sacco di strada a ritroso, fino al 1945. Ma spero lo stesso, nonostante questo, che quella parte di Perugia, tra poco, si paralizzi per i corpi che l’affolleranno.

giovedì 22 febbraio 2018

Papà, cos'è il fascismo?

Giorni fa ho aiutato mia figlia, che frequenta la terza media, a studiare la presa del potere da parte di Mussolini e la successiva costruzione del consenso da parte del regime. A un certo punto lei mi ha fatto una domanda che più o meno suonava così: «Sì, ma che è il fascismo?». Che è una domanda immane. Ma io avevo in quel momento l’urgenza di dare una risposta chiara, breve e intellegibile da una persona che comincia a cimentarsi ora con lo studio vero e che vede la storia schiacciata in una prospettiva deformata (provate a ricordarvi cos’era per voi la storia a dodici-tredici anni). C’ho pensato sopra e ho risposto più o meno così: «Il fascismo è l’uso della violenza in politica, è l’annientamento anche fisico di chi non la pensa come te». Ho pronunciato quelle frasi con la paura di essere frainteso e col timore di semplificare troppo le cose e presentare una versione manichea della questione.

A distanza di giorni e con le cose che vanno succedendo invece, mi vado convincendo di avere dato la risposta giusta. Perché si possono fare tutti i dibattiti storiografici che si vogliono, si può dire che Mussolini ha fatto anche cose buone, si può sostenere che durante il fascismo l’Italia è diventata una potenza. Ci si può baloccare col consenso riscosso dal fascismo fino a un attimo prima della caduta di Mussolini. Ma al fondo, il fascismo rimane quello: l’uso sistematico della violenza in politica, il disconoscimento della diversità di opinioni, della semplice possibilità di essere diversi da come ti vuole il regime. L’eliminazione del diverso. L’estorsione del consenso.

Lo scrivo, per quel che vale, qui, oggi, perché opinione pubblica e opinionisti di grido mi sembrano in preda alla sbronza degli “opposti estremismi”. No. Rossi e neri non sono tutti uguali. Non lo sono stati. In Italia meno che mai. E lo scrivo perché se il fascismo è l’uso sistematico della violenza in politica, essere antifascisti significa bandire la violenza dalla politica. Che non è eliminazione del conflitto. Ma è sorreggere le proprie idee con argomentazioni forti, con lo studio, col tentativo di capire cosa succede e la voglia e la capacità di comunicarlo. È presa dell’egemonia, non eliminazione dell’oppositore.

Anche per questo mi lasciano perplesso le richieste di messa fuorilegge delle organizzazioni fasciste. Sì, lo so che lo dice la Costituzione. Ma tu a chi oggi vuol riportare in auge la violenza in politica, a chi gli ha arato il campo per questi scampoli di gloria, devi contrapporre argomenti. La legge, la Costituzione, servono a poco, purtroppo, se non gli dai argomenti. E questo significa parlare, dire la propria, spogliare le argomentazioni dei fascisti e dei fascistoidi, le loro narrazioni tossiche. Significa anche andare in piazza, certo, sommergendoli con la tua semplice presenza, i fascisti. E per questo sarebbe opportuno che i “sinceri democratici” ci scendessero in piazza: pacificamente, silenziosamente, fermamente. Come a Macerata, dove tanti “sinceri democratici” però, si sono girati dall’altra parte, in preda alla sbronza degli opposti estremismi. Che non aiuta affatto a respingere i fascisti.

sabato 3 febbraio 2018

Mettete via quella bandiera

A chi non fa della bandiera un feticcio né della patria un'arma contundente, questa cosa potrà pure apparire sfocata. E infatti quando sentiamo slogan puerili come "l'Italia agli italiani", "prima gli italiani", "padroni in casa nostra", ci passa in testa di tutto: fare del sarcasmo, denunciare il razzismo di chi pronuncia frasi del genere; segnalare la meschina parzialità di parole d'ordine che dividono il qua e il là in maniera sballata, facendo intendere che uomini e donne si distinguano "per natura" e non per condizione, che è il modo più efficace per perpetuare lo stato di chi sta sopra e chi sta sotto.

Tutto giusto, per carità. Alla vista del tipo arrestato per aver tentato una carneficina a Macerata, ammanettato dopo essersi intabarrato nel tricolore, bisognerebbe però avere un sussulto, ed evitare di dare per scontata una questione che, visti i tempi, va scandita per farsi capire bene: il riempirsi la bocca di patriottismo e sventolare la bandiera non significa affatto che voi - fascisti o fascistoidi - amiate il posto in cui vivete più di noi, che pensiamo che le frontiere siano muri che dividono ciò che dovrebbe essere unito. Anzi. Dovreste smettere di vilipenderle quella bandiera e quella parola, "Italia", che se fosse stato per molti di voi sarebbe diventata un satellite della Germania nazista. Dovreste smettere di approfittarvi della nostra pazienza di cooperanti, operatori, intellettuali, insegnanti, contribuenti che ogni giorno cerchiamo nel nostro piccolo di migliorarlo davvero, il nostro paese, col nostro lavoro quotidiano, mentre voi ve ne andate in giro a organizzare ronde, fare raid e sparare cazzate che partono da assunti sbagliati per arrivare a obiettivi sballati. Sventolare il tricolore non vi rende migliori dei somari che siete: ignorate praticamente tutto ciò di cui parlate, però lo fate dicendo di "difendere gli italiani", alcuni dei quali ci credono pure.

Smettete di infangarla, la bandiera tricolore, sventolate la vostra, se riuscite a non vergognarvene. Fatela finita di dire che difendete gli italiani, poiché molti italiani, come noi, vi disprezzano e si sentono offesi dall'essere vostri connazionali.

Non avete diritto di appropriarvi di cose che non sono vostre solo perché noi siamo distratti da questioni più importanti di voi. Mettetela via quella bandiera, non è roba vostra.

mercoledì 31 gennaio 2018

Chiarimenti non richiesti

Di questa cosa non pensavo di scrivere. La davo per acquisita. Parlando invece con diverse persone che stimo, mi sono reso conto che vent'anni di sistema elettorale maggioritario hanno lasciato uno strascico inerziale che fa pensare a molti, niente affatto superficiali, che alle prossime elezioni si vada per eleggere qualcuno che vinca.

Non è così. La legge elettorale con cui andremo a votare se ne avremo voglia, oltre che perversa, è di tipo proporzionale. Perversione e proporzionalità di una legge elettorale non è affatto detto che coincidano. Anzi. In questo caso però sì, si sovrappongono. Succede perché la quota di seggi che viene attribuita col maggioritario e il modo in cui fanno finta di interpretarla i partiti più grossi - oltre allo strascico inerziale di vent'anni e passa di maggioritario - spingono a considerare la legge elettorale maggioritaria tout court.

Ma la legge è proporzionale e - qui sta il punto - checché ci vogliano far credere, nessuna delle cosidette coalizioni in campo avrà la forza di formare un governo da sola. Questo loro lo sanno, tutti. Ma si reggono il gioco a vicenda perché sennò finisce il Truman show. Non c'è insomma da "fermare la destra", nè da "arginare il populismo becero". Al governo non andranno né Salvini né Meloni né Di Maio, e la cosa di gran lunga più probabile sarà un governo Pd-Forza Italia.

Tutto questo per dire che si potrà andare a votare seguendo il cuore, cioè dando il voto anche a quelle forze che non hanno né forza né voglia (per ora) di governare, e che magari rischiano di non portare nessuno in Parlamento. Ci si può risparmiare la fatica di turarsi il naso ora, perché probabilmente dovremo farlo dopo il 4 marzo.

Si può anche scegliere di non votare, ovviamente. A patto di non dire di farlo "per protesta", perché l'astensionismo è materia, se va bene, per qualche analisi del giorno dopo. Poi passa in archivio. E perché ogni voto non dato va ad accrescere la percentuale anche del candidato che ci provoca più raccapriccio.

Detto ciò, il voto non è l'unico modo per partecipare. E si può bellamente decidere pure di infischiarsene, di partecipare.

Solo che vale la pena di considerare che  stavolta si è un po' più liberi rispetto agli ultimi vent'anni di votare chi ci piace di più, non chi ci dispiace di meno (ammesso che l'abbiamo mai fatto). Anche se chi ci piace di più al governo non ci andrà mai, perché il governo, in pratica, l'hanno già fatto.

Anche le leggi perverse hanno il loro lato positivo.

giovedì 18 gennaio 2018

Spiegare una battuta di trenta secondi in 4.049 caratteri

Molti battutisti che postano sui social si lamentano del fatto che sotto alle loro battute capita che qualcuno commenti: “Questa te la potevi risparmiare” o “questa non fa ridere”. E sì, sono commenti grotteschi, insensati; perché la battuta ha una grammatica tutta sua, e controbattere col linguaggio ordinario è come rispondere in finlandese a uno che ti ha chiesto “Scusi, dov’è il bagno?” in coreano. E poi, ti può non piacere una battuta, ma anche se eviti di scriverlo nel commento sotto, è assai probabile che il sole sorgerà anche l’indomani, tranquillo.

Ma c’è di peggio di quello al quale la battuta non ha fatto ridere e non riesce a tenere a bada l’istinto di comunicartelo mediante commento (che poi i commentatori in questione sono quelli che non guardano la battuta, bensì chi viene colpito dalla battuta: se è un loro avversario, allora mettono il “mi piace” anche se la battuta è da quinta elementare; se invece simpatizzano per lui, la battuta non gli piace e commentano). C’è di peggio, dicevo: sono quelli che commentano avendo completamente cannato il senso della battuta. E commentano anche in maniera aggressiva, rimanendo al riparo da figuracce perché la battuta il battutista non te la spiega, ché è una cosa vagamente umiliante. E siccome tu non gli rispondi, loro passano il resto della giornata tronfi, convinti di averti messo all’angolo, magari lo dicono anche alla ragazza, all’amico, al cane mentre lo portano a pisciare.

Un esempio può aiutare a capire. Se uno scrive: “Dietro a ogni uomo c’è una grande donna: pensa quant’è piccola la moglie di Alfano”, può capitare che ti si dia del sessista perché hai offeso una donna, mentre è del tutto evidente che il bersaglio della battuta è Alfano, non la moglie, che viene usata come leva nella battuta, ok?

Con Gene Gnocchi, il maiale e Claretta Petacci questo fenomeno, che in genere rimane nel chiuso di una pagina satirica, ha assunto una dimensione nazionale. E stamattina ci sono anche quelli che si definiscono autorevoli commentatori i quali spiegano con ago e filo perché e per come non si doveva fare quella battuta. Vale la pena scriverci sopra - anche se in qualche modo già l’ha fatto stamattina sulla sua pagina gente che di satira ne sa molto più di me, tipo Luca Bottura - perché il fraintendimento, o meglio la grande difficoltà a capire quello che ci dicono gli altri perché noi pensiamo di sapere quello che gli altri vogliono dirci prima ancora che parlino, è un problema nazionale. E anche perché, faccio notare, nell’equivoco sono caduti anche alcuni di quelli che difendono Gene Gnocchi. Che poi io penso che molti di quelli che commentano equivocando, non hanno visto l’oggetto della querelle, cioè il video in cui Gene Gnocchi pronuncia la battuta incriminata, e quindi parlano a vanvera, altro problema nazionale.

E comunque, tornando a Gene Gnocchi, al maiale, e a Claretta Petacci, in preda all’istinto del commentatore è sfuggito anche ad autorevoli commentatori il niente affatto trascurabile particolare che il bersaglio della battuta di Gnocchi non era Claretta Petacci, bensì Giorgia Meloni. La quale va postando da giorni le foto del maiale che grufola nei rifiuti di Roma e per questo viene messa alla berlina da Gnocchi (primo pezzo di cuore della battuta). Non solo: nostalgica del fascismo nonostante abbia sciacquato i panni in non si sa bene quale fiume per cercare di apparire una sincera democratica (secondo pezzo di cuore della battuta), Meloni ha messo nome al maiale Claretta Petacci, appunto. Insomma, il senso della battuta non è: Claretta Petacci è una maiala; bensì: la nostalgica del fascismo Giorgia Meloni ha un interessamento per il maiale che grufola per Roma degno di miglior causa.

Concludendo: Claretta Petacci è la leva della battuta, il cui bersaglio è la Meloni. Recuperando l’esempio di prima, ricaveremmo la seguente formula:

Moglie di Alfano : maiale a cui è stato dato il nome di Claretta = Alfano : Meloni

Ecco, riguardando il video, forse, ora si capisce meglio.

https://www.youtube.com/watch?v=XOcPdUsO64g

martedì 16 gennaio 2018

Cose piccole, piccolissime

E adesso ti metti a scrivere pure tu di razza, di razzisti, di Fontana, di campagna elettorale? Ma dai, basta: tra battute, litigi da social, editoriali, da ieri pomeriggio, da quando il leghista “moderato” Fontana – che non è mica come quell’“estremista” di Salvini - ha detto che i negri mettono a rischio la sopravvivenza della razza bianca, non si fa che parlare di questo! Che c’hai da aggiungere tu? No, no, niente. Io voglio parlare di cose piccole, piccolissime, ché magari, tutti presi da concetti alti (Darwin, l’antropologia, la zootecnia – pare che l’uso più opportuno della parola “razza” sia associato proprio alla zootecnia) possono sfuggire. Che poi se non avessi letto Zerocalcare sull’Espresso di domenica scorsa, magari non mi sarebbe neanche venuto in mente di scriverle, queste cose. E sia chiaro, la responsabilità di quello che sto per scrivere, ovviamente, è tutta mia: Zerocalcare non c’entra, non c’ho neanche mai parlato.

Dunque: dice Zerocalcare che i nazifascisti non sono tanti. Lui sostiene che va fatta una distinzione netta tra i “militanti di organizzazioni neofasciste” e “la barbarie trasversale diffusa in questo paese” perché sostanzialmente (semplifico molto, eh) barbari si diventa dopo essere stati sottoposti a un racconto giornalistico fatto di criminalizzazione sistematica degli stranieri, mentre i nazifascisti organizzati (sull’uso del termine nazifascismo rimando a Zerocalcare sull’Espresso, ché sennò questa cosa diventa troppo lunga) speculano proprio sul pregiudizio xenofobo, lo nutrono, ne fanno un programma politico basato sulla violenza e sul presunto primato della presunta razza bianca. Dice Zerocalcare, allora, che i nazifascisti, o nazisti tout court, “non sono tanti, ma non occorre essere in tanti per fare molto male nell’esistenza delle singole persone, in piccolo. Bastano pochi tagliaforbici storti” (e pure sull’uso della definizione di “tagliaforbici storti”, rimando a Zerocalcare sull’Espresso).

Fanno male i nazifascisti organizzati? Sì. Parecchio. Anche se sono quattro sfigati. Ammazzano, per esempio (Davide Cesare, Renato Biagetti, Nicola Tommasoli, Samb Modou, Diop Mor, Emmanuel Chidi Nnamdi sono i nomi di vittime fatte dal 2003 a oggi, li elenca il solito Zerocalcare). Picchiano “sistematicamente i bengalesi sulla Prenestina”, dice Zerocalcare che a Roma ci vive e la conosce. E fanno raid più o meno quotidiani che solo a stento vanno in cronaca nazionale. Io sulla responsabilità di chi fa e subisce il racconto giornalistico ci vado un po’ più pesante di Zerocalcare, perché penso che la barbarie la riconosci e la puoi evitare, non è detto che tu gli debba proprio andare in bocca, ma non è questo il punto.

Il punto è che stamattina, come tutte le mattine, ho accompagnato i miei due figli a scuola. Sotto casa mia ci sono due istituti superiori, e tutte le mattine mi tocca aspettare nell’auto ferma in fila che gli autobus davanti alla mia macchina scarichino decine di adolescenti che attraversano la strada per raggiungere le scuole. Non ci faccio mai caso, stamattina invece mi sono saltati agli occhi due ragazzetti neri. Quando l’autobus davanti a me è ripartito, e io sono gli andato dietro, stavo pensando a quanti ragazzini di origine straniera c’erano dentro quell’autobus: i neri li vedi, spiccano, quello che ha i genitori nati in Lituania no.

La prima figlia che scarico è la maggiore. Frequenta la scuola media. Mentre la guardavo entrare, ho pensato a Ledana, una sua compagna di scuola che ha i genitori albanesi. E ad Azzurra, la sua amica del cuore, che ha madre e padre di origine napoletana, che se la Lega era quella di qualche anno fa, magari ti capitava un Fontana che diceva che i napoletani mettono a rischio la razza padana. Mi è venuto in mente Marco, un altro compagno di scuola di mia figlia, che ha il nome italianissimo ma la madre e i tratti del viso colombiani.

Poi ho proseguito per un altro chilometro e ho accompagnato il secondo figlio, che frequenta le elementari; all’ingresso ho incrociato la madre di Edward, suo compagno, che è nata in Perù. Ho caricato lo zaino sulle sue spalle (di mio figlio, non della mamma di Edward) e l’ho guardato mentre entrava in classe, dove raggiungeva Adam, figlio di due polacchi: lei vive qui, il marito è stato costretto ad andare in Austria per lavorare e torna quando può; Maria, che nonostante il nome è figlia di due persone nate in Lettonia; Davide, nato dal matrimonio di un italiano e una algerina (scura di carnagione); Luca (padre italiano e mamma marocchina); Adelina, nata dall’unione di due rumeni;. Nadia, di famiglia rom.

Sono tornato a casa e sulle scale ho incrociato Lisa che andava al lavoro. Si fa chiamare così perché sono vent’anni che vive in Italia e qui ha fatto anche due figli, ma è nata in Ecuador. Mio figlio gioca spesso con i suoi, sono coetanei, e io la riaccompagno a casa quando i piccoli (mio e suoi) escono dalla piscina, ché il marito lavora fino a tardi e lei non ha la macchina. E, per dire, oh, non mi sono mai sentito messo a repentaglio nella mia identità di bianco nonostante lei abbia evidenti tratti dei nativi precolombiani.

Salendo le scale ripensavo a Ledana, Marco, Edward, Adam, Maria, Davide, Luca, Adelina, Nadia. Mi sono ritornate in mente le facce dei due adolescenti neri che avevano attraversato la strada davanti a me dieci minuti prima. E ho pensato a Larisa, cinquantenne moldava che fa la pulitrice ed è riuscita a portare qua i figli per fare il ricongiungimento dopo anni di sacrifici. Ora loro due lavorano in provincia di Milano, e lei è riuscita a vederli per le feste solo perché è andata su lei (vive a Perugia) poiché i due, che lavorano in uno di quei posti che vendono mobili la cui “forza è il prezzo”, avevano libero solo il giorno di Natale, essendo costretti dai turni a lavorare sia la vigilia che il giorno di Santo Stefano, che io poi vorrei vederlo uno che va a scegliere i mobili o se li fa montare in casa il giorno della vigilia o quello di Santo Stefano.

Alle ultime due rampe, ho pensato che la democrazia, se la interpreti in senso riduttivo, è a misura della maggioranza e se ne infischia delle minoranze (questa non è roba mia, ci sono stati scritti sopra diversi libri, anche se magari Fontana e quelli come lui non lo sanno). E gli spiriti animali dei tantissimi Fontana da cui siamo contaminati, inseguendo l’addome della maggioranza, fanno male. Non picchiano, non uccidono. Ma fanno male a Ledana, Marco, Edward, Adam, Maria, Davide, Luca, Adelina, Nadia. Che sono bellissimi, come tutti i bambini, ma ieri hanno avuto occasione per sentirsi diversi in maniera brutale perché qualcuno ha detto che loro mettono a rischio la razza bianca (credo che per Fontana anche moldavi, lettoni e rumeni siano da classificare come negri contaminanti). Fanno male, i Fontana, ai due adolescenti neri che magari oggi avranno a che fare con qualche compagno di classe un po’ più coglione degli altri che si sentirà autorizzato a bullizzarli. Fanno male alle tante coppie padane e bianchissime che adottano figli nati in altri continenti.

Pensavo a tutte queste cose, mentre infilavo la chiave nella toppa. Zerocalcare, Fontana, Larisa, i bambini, gli adolescenti. E ho pensato che la democrazia non può tollerare che ci sia qualcuno che la usa per fare male ad altri. Pochi o tanti non importa, perché sono comunque sufficienti a “fare molto male all’esistenza delle singole persone”, come dice Zerocalcare. Ora ci saranno lo storico e il politologo di turno che storceranno la bocca, avvertiranno un’irresistibile puzza sotto il naso e saranno pronti a categorizzare, osservare le grandi tendenze, invitare a non generalizzare, a non “farsi prendere dalla passione”. Sottovalutando la carne e il sangue delle persone, ascrivendo tutto alla campagna elettorale, minimizzando “perché non è da queste cose che si giudica un movimento politico”, e considerando le parole dei Fontana alla stessa stregua delle promesse farlocche da campagna elettorale. No. Perché la democrazia o è per le persone o non è. E i Fontana, come i nazifascisti, vanno isolati, messi in una riserva, indicati come il male perché fanno male. Ché sennò non ci si capisce più, non si capisce più a che serve, la democrazia, se non riesce a difendere chi non deve subire il male gratuito, che sia inferto per programma politico o per ignoranza.

giovedì 11 gennaio 2018

Un pippone per addetti ai lavori. Anzi, no

Io me li leggo questi articoli pieni zeppi di nomi in cui si dice che Tizio verrà forse candidato nella tal lista perché Caio, che è il suo padrino politico a Roma, sta perorando con forza la sua causa. E che però c’è Sempronio che lo minaccia perché Guidubaldo da Amelia, che ha fatto il sottosegretario e ha stretto un sacco di rapporti, lo tiene in grande considerazione (a Sempronio) e potrebbe riuscire a imporlo al partito (che poi, il partito, dove stanno i partiti?, ce ne sono?). Io me li leggo, dicevo, questi articoli, e devo averne scritto anch’io qualcuno, in passato, di mala voglia.

Però, una volta finito, mi sento come se avessi letto dell’ultimo flirt di Valeria Marini, o di quanto fa dimagrire l’ananas preso alle otto di mattina ma solo se condito con succo di mirtillo biologico proveniente dalla Valcamonica. Come se avessi fumato una sigaretta, che per fortuna ho smesso. Che ti dà una sigaretta? Niente. Ma proprio niente. Eppure tu te la fumi convinto che ti faccia calmare, che ti faccia andare al bagno, che ti rilassi, che ti aiuti a concentrarti, che ti faccia addormentare meglio. Tutte cazzate. Però tu non lo vuoi ammettere perché c’hai il vizio, solo che il vizio lo devi giustificare. E allora, giù cazzate.

Non dicono niente, questi articoli. Soprattutto considerando che alla fine di questo mese sapremo quali saranno i candidati ufficiali, quelli veri, che potremo andare a votare, se lo vorremo. Ma nel frattempo leggiamo ‘ste cose che non dicono niente, però soddisfano la voglia recondita di ognuno di noi di guardare dal buco della serratura. Sì, perché sapere che Gedeone Acchiappavoti (forse) ha telefonato a Giovane Vecchio e che insieme si sono messi d’accordo contro Anselmo Parrucconi, ci fa sentire più importanti, come se fossimo messi al corrente di un segreto, anche se il segreto è farlocco, anche se ciò non aggiunge niente alla nostra capacità critica di discernimento del candidato da votare.

Vengono inseriti sotto la categoria politica, questi articoli, quando andrebbero classificati come gossip, che almeno uno lo saprebbe quello che va a leggere. Invece no, ci si dà un tono, una scusa: “politica” (vedi alla voce “la sigaretta mi fa digerire”), anche se non c’è scritto niente che sia politica, cioè costruzione di cose che interessano alla comunità. Però, appunto, li leggiamo, anche se non ci lasciano nulla. E chi li scrive spesso si sente importante perché lui è il propalatore del segreto, che tra venti giorni non sarà più segreto.

Uno dei suggerimenti che Peter Laufer, docente all’Università dell’Oregon e fautore delle slow news, dà nel suo libro che s’intitola proprio “Slow news”, è questo: “Le non notizie presentate da notizie sono ancora più importanti da ignorare”. Ecco, questi pastoni sono non-notizie, presentati però come rivelazioni imprescindibili. E tenuto conto che tra venti giorni avremo sotto gli occhi gli elenchi dei candidati veri, quanto senso ha dedicare tempo alla lettura di questi articoli? Non sarebbe meglio leggersi, che ne so, “La Luna e i falò”, di Pavese?, uno qualsiasi dei libri di John Fante? Non sarebbe meglio andare a vedere “Corpo e anima” al cinema? Roba che la sera quando stai per addormentarti ci ripensi, e la mattina quando prendi il primo caffè ci ripensi ancora, che è segno che è roba che ti è entrata dentro. Invece, diciamoci la verità, ma chi ci pensa ad Anselmo Parrucconi, a Giovane Vecchio, a Gedeone Acchiappavoti, a Guidubaldo d’Amelia? E però leggiamo, gli diamo importanza, guardiamo dal buco della serratura convinti di entrare nella ristretta cerchia degli iniziati che sanno i segreti. E però ci lamentiamo dei giornali e dei giornalisti. Ma dei lettori mai. Che certi articoli, se non venissero letti, alla fine si smetterebbe pure di scriverli.


martedì 9 gennaio 2018

Scivolare con lentezza

Se cadi, cadi. Senti la botta, è difficile che non te ne accorga. Ma se scivoli è diverso. Puoi superare in scioltezza la cosa. O addirittura non rendertene conto; succede quando lo scivolamento è lento e continuo da diventare un moto percepito come naturale.
È successo quindi che, scivolando scivolando, le scuole sono diventate supermercati che offrono le loro mercanzie negli "open day" per attrarre più studenti-clienti possibile. I posti dove si viene ricoverati quando si sta male o si deve partorire sono stati trasformati in "aziende ospedaliere". E i supermercati sono diventati posti in cui si partorisce.
Si può essere d'accordo, intendiamoci. Si può perorare anche con qualche successo la causa della mercantilizzazione dell'umano e della umanizzazione del mercantile. A patto che lo si faccia tra esseri che si rendono conto di quello che succede e aderiscono convinti al "nuovo". Invece qui si scivola - si fa scivolare - con lentezza inesorabile. E così chi scivola non percepisce il movimento né la direzione verso cui sta andando. E ritiene il "nuovo" naturale.

mercoledì 6 dicembre 2017

Le meraviglie del fascismo

La cosa meravigliosa, una vera "giravolta spaziale" si sarebbe detto con linguaggio da cartoni animati anni ottanta, è che il problema del fascismo che ha rialzato la testa, viene negato dagli stessi fascisti o fascistoidi. Cioè: questi negano la loro stessa esistenza in vita. Ciò rende i neofascisti una roba a parte proprio. I movimenti antisistema rivendicano orgogliosamente la loro natura. Loro no. Il frontman di Casapound, per dire, ha detto dalla Annunziata che loro il saluto fascista lo fanno solo alle cerimonie dei loro caduti. Che è un atteggiamento curioso assai, che potrebbe portare tra l'altro alla conclusione che il fascismo e le sue liturgie hanno molto a che vedere con la morte e poco con la vita. 

Poi ci sono i destri "presentabili", istituzionali. I quali negano che in Italia ci sia un problema di fascismo insorgente. Poiché la loro attività nel mainstream è la prosecuzione del fascismo con altri mezzi, e siccome il fascismo questo paese l'ha assaggiato e ribaltato, loro negano che ci sia un problema di fascismo, cosa che nella loro strategia, dovrebbe consentire di continuare a inoculare germi di fascismo dentro le istituzioni democratiche. Questa è una larga schiera, che si alimenta di partiti e partitini istituzionali: i fratelli d'Italia che tornano a fregiarsi della fiamma tricolore che ardeva dalla bara del duce, per dire - toh, ancora la morte; i leghisti antistraniero; diversi giornali e qualche opinionista che ha riverniciato di liberismo la vecchia carrozzeria fascista. 


Infine, i fascisti inconsapevoli: hanno idee fasciste (dio-patria-famiglia-credere-obbedire-combattere riattualizzati all'oggi, per semplificare), ma non lo sanno nemmeno.


I primi sono folclore, e rischiano perfino di inficiare il lavoro dei secondi e dei terzi, che sono, loro sì, un vero problema. 


Se i nazi di Como e i forzanovisti di Roma e i casapoundisti di diverse città d'Italia moltiplicano i loro raid, è perché i fascisti o fascistoidi mainstream hanno fatto un ottimo lavoro: con progetti di legge, raccolte di firme, campagne ed editoriali assai democratici, ma volti inesorabilmente a restringerli, gli spazi di democrazia; a fare della democrazia una cosa per i soli italiani, i soli maschi, i soli cattolici. 


Nazi, casapoundisti, forzanovisti che rialzano la testa non sono che lo specchio impietoso di un pezzo d'Italia consciamente o inconsciamente fascistoide. E, questo è il punto, oggi egemone: nei bar, nei posti di lavoro, nei consigli comunali, in parlamento. Questo è il problema. Serio


PS: poi ci sono quelli de sinistra che usano l'antifascismo come arma da campagna elettorale salvo poi subire l'egemonia fascistoide quando si tratta di fare leggi. E questo sì, è un altro problema. Serio.

martedì 14 novembre 2017

La balla degli stranieri

Una inesattezza, una calunnia, una bugia, rimangono tali. Anche se ad amplificarle contribuiscono decine, centinaia, migliaia di voci. Una delle panzane che si sta facendo avanti dopo l'eliminazione della nazionale italiana dai prossimi Mondiali, è che ciò sia stato dovuto a causa della «eccessiva presenza di stranieri». Si tratta di una frasetta buttata là che fa sempre effetto. Perché gioca, amplificandola a sua volta, sulla sindrome da accerchiamento della quale soffrono milioni di italiani che privati del diritto al lavoro, con le vite precarizzate e un futuro senza pensione, vengono indirizzati a scaricare le loro frustrazioni su chi possibilmente sta peggio di loro. È l'idea dei cosidetti sovranisti, che hanno preso l'egemonia fino a dettare le politiche scellerate del ministero dell'Interno, al cui vertice siede una persona definita di centrosinistra. Gli stessi sovranisti che sono così virilmente convinti della forza della loro identità, dal vederla messa a repentaglio da meno del 10 per cento della popolazione residente (tanti sono gli stranieri in Italia). Cioè: un decimo della popolazione, peraltro molto eterogenea per etnia, religione, e altro, metterebbe a repentaglio l'italica stirpe. Vabbè.

Comunque, per farla corta, la storiella dei troppi stranieri andrebbe bene se l'Italia avesse perso contro una nazione autarchica, con le frontiere murate. Invece, se gli stranieri residenti in Italia sono l'8,3 per cento del totale della popolazione, in Svezia, la nazione che non ci ha fatto andare al Mondiale, ce ne sono pochi di meno, il 7,9 per cento. E se in Italia giocano il 56 per cento di calciatori stranieri in serie A, in Svezia gli stranieri nella Allsvenskan (la serie A svedese) sono il 33 per cento, non proprio pochissimi. Ancora: la storiella funzionerebbe se gli svedesi avessero messo in imostra fuoriclasse autoctoni da paura. Invece un Bernardeschi qualsiasi dei nostri vale tre dei loro.

Insomma, la storiella dei troppi stranieri, che viene surrettiziamente messa sul piatto quando si parla di scuole, di case popolari, e ora pure di calcio, è una balla enorme. La balla di chi non sa spiegarsi le cose. O forse di chi non vuole spiegarsele, perché capirle equivarrebbe a prendersi la responsabilità di agire contro chi sta sopra e non contro chi sta sotto (e prendersela contro chi sta sopra è più difficile e rischioso, si sa). O forse è la balla messa in giro affinché le cose continuino così. O magari è una miscela di tutto questo, e anche di più. Sta di fatto che è una balla. Enorme. Che si tratti di scuole, di case popolari e pure di calcio.

venerdì 3 novembre 2017

Cose piccole che fanno capire quelle grandi

Nella regione in cui abito, le Asl hanno inviato alle famiglie in cui vivono minori un documento che certifica se si è in regola con le vaccinazioni obbligatorie. La misura è stata predisposta all’indomani dell’approvazione del decreto sui vaccini, che prevede sanzioni per i genitori che non sottopongono i figli alla somministrazione. Si tratta di un foglio A4, che presumo sia la stampa di un documento digitalizzato. L’assessore regionale alla sanità ha prima annunciato l’avvio e poi comunicato la conclusione delle operazioni di invio con toni al limite del trionfalistico, come se fosse stata fatta una cosa davvero innovativa. Probabilmente ne è convinto. E forse ci sono state regioni che hanno lasciato i genitori a se stessi, sballottandoli da un ufficio all’altro in cerca del foglio che certificasse la regolarità delle vaccinazioni dei propri figli da consegnare poi alla scuola. E se così fosse, l’Umbria sarebbe davvero all’avanguardia.

Ma questa vicenda è una metafora dell’ottusità della burocrazia e di chi la sovraintende. In questo l’assessore umbro c’entra poco, perché è uno degli ultimi anelli della catena. Però questa storia spiega come basterebbe poco per evitare di aggravare i cittadini con pesi inutili. E come a volte le cose prendono una direzione sballata. Così sballata da giustificare i trionfalismi quando ci sarebbe da sbattere sconsolati la testa contro il muro per l’arretratezza in cui affondiamo.

Le amministrazioni pubbliche sono spesso protagoniste di convegni estenuanti su “industria 4.0”, “internet delle cose”, “autostrade informatiche”, innovazioni che rimangono sempre più spesso sulla carta e futurismi vari. Ora va anche di moda dichiarare di puntare a far diventare i territori “business friendly” (che poi non si capisce: primo, perché si usa l’inglese per dire una cosa che si può benissimo illustrare in italiano; secondo, perché non si pensi prima a far diventare i territori amici delle persone che li abitano, invece che del business, ma questo è un altro paio di maniche). Insomma, il bla bla regna sovrano. Però, nell’epoca in cui si può progettare un qualsiasi oggetto al computer a Roma, spedire il relativo file mediante lo stesso computer per far stampare l’oggetto da una stampante 3D, che so?, a Seattle, noi stiamo qui ad annunciare trionfanti l’invio di 120 mila fogli A4 a famiglie che a loro volta li dovranno consegnare a scuola.

C’è più di qualcosa che non va. Ed è che nonostante i convegni sulle “autostrade informatiche” e via blaterando, le strutture pubbliche non dialogano fra di loro e comunicano con l’esterno in analogico, come se fossimo ancora negli anni settanta del novecento. Le Asl, invece di inviare decine di migliaia di lettere, avrebbero potuto individuare loro i casi di irregolarità e segnalarli direttamente alle scuole. O meglio, visto che quella dei vaccini è una questione prettamente sanitaria, sbrigare loro, le Asl, la faccenda, convocando le famiglie inadempienti, segnalandole a chi di dovere e, se del caso, avviando l’iter di somministrazione delle sanzioni. Perché coinvolgere le scuole, che avrebbero potuto essere chiamate in causa solo alla fine, quando cioè si fosse acclarato che ci sono minori non in regola con le vaccinazioni per poterle frequentare? Queste comunicazioni avrebbero potuto viaggiare tranquillamente per posta elettronica, e comunque, anche se fossero state spedite in analogico, sarebbero state molte di meno delle 120 mila inviate, la stragrande maggioranza a famiglie in regola con l’obbligo di vaccinazione; si calcola che in Umbria gli irregolari del vaccino siano il 5 per cento del totale, cioè seimila. Avremmo avuto quindi seimila messaggi di posta elettronica invece di 120 mila fogli di carta stampati da documenti digitalizzati, imbustati e spediti al costo di 85 centesimi l’uno. Infine: perché coinvolgere i genitori dei 114 mila alunni in regola? Perché costringerli a recarsi fisicamente nelle scuole frequentate dai loro figli per consegnare un foglio di carta che certifica il loro stare in regola? Perché, per di più, contribuire a 114 mila spostamenti di fatto inutili, molti dei quali in auto, contribuendo così a saturare ulteriormente il traffico delle città? Perché?

Perché la burocrazia è ottusa. E perché le cose prendono una piega così sballata, ma così sballata, che si usano toni trionfalistici quando si dovrebbe sbattere la testa contro il muro alla constatazione di tanta arretratezza. E dire che qui non si trattava di fare cose grandi, riforme o rivoluzioni, ma piccole, come far funzionare meglio le cose.

PS: da quanto mi hanno detto nella scuola frequentata da uno dei miei figli, nel momento in cui la segreteria individua casi di irregolari, deve comunicarlo alla Asl (che è quella che ha inviato le comunicazioni). Un capolavoro.

venerdì 6 ottobre 2017

Una sconcezza

La Nestlé, quella che si è comprata anni fa la fabbrica che produce i Baci Perugina, ha deciso che in quella fabbrica ci sono 340 dipendenti di troppo. Domani a Perugia ci sarà una manifestazione per dire che questa è una sconcezza. Io, per quello che vale, sarò lì in mezzo. Non ci sarebbe stato bisogno di scriverla, questa cosa. Perché quando una multinazionale con fatturato a diversi 0 se la prende con chi lavora è fin troppo semplice scegliere da che parte stare. Dovrebbe esserlo per la maggior parte delle persone, che a quanto mi risulta è costretta a lavorare per campare. L'ho scritto perché in troppi hanno perso qualsiasi bussola, e nel disorientamento confondono gli interessi di quelli come loro (di chi lavora per campare) con quelli di chi è così potente da drogare informazione e opinione pubblica. Domani mattina, chi può, resti sobrio, dica no agli intossicatori di opinione pubblica, e vada in piazza. Chi è lontano e non può, ricordi che più o meno è facile scegliersi la parte. A patto di rimanere sobri.

lunedì 18 settembre 2017

Devoti alla vittoria


Ciao, ragazzo che hai devoluto un po’ del tuo tempo per andare in giro ad attaccare questi manifesti. Ho fatto questa foto, te lo confesso, con l’intenzione di prenderti per il culo. Volevo dirti che se sei «devoto alla vittoria», come ti dichiari, allora ti stai sbagliando di brutto, a meno che tu intenda la vittoria come un ente sovranaturale, una sorta di dio la cui esistenza non è dimostrabile e che si percepisce solo con la fede. Se invece intendi la vittoria quella che si tocca con mano, quella quando esulti perché la tua squadra prende tre punti, quella quando riesci a debellare una malattia che ti stava minando la salute; beh, permettimi, stai proprio andando contromano. Perché il fascismo che ti attrae, in fatto di vittorie non è proprio ‘sto modello da seguire. Anche a voler considerare "vittorie" la presa del potere in Italia e la costituzione di un impero coloniale in Africa orientale, al netto delle violenze e dei massacri con cui tutto ciò è stato ottenuto, le sconfitte che sono seguite a quelle brevi stagioni sono state così definitive che ne abbiamo pagato per lungo tempo le conseguenze tutti, non solo i tuoi nonni e zii che marciavano col fez. Questo, ti volevo dire.

Poi ho pensato che tu ti consideri un rivoluzionario, se non sbaglio. E allora la cosa ha cominciato a quadrarmi ancora meno. Ma come, vuoi fare la rivoluzione e ti definisci «devoto alla vittoria»? Ma allora hai già vinto, la tua rivoluzione si è già compiuta! Sei già dentro un sistema in cui tutto è congegnato per vincere, e dove perdere è la peggiore delle iatture che possa capitare. Tutto qui, ragazzo, è pensato per fare gol, a prescindere; niente, o quasi, si fa perché lo si ritenga davvero necessario, giusto, opportuno. Tutte le azioni che non hanno almeno sulla carta una possibilità di riuscire sono considerate da sfigati. Tutto è volto a conquistare punti qui e ora, anche con un gol di mano, anche con un fallaccio all’avversario mentre l’arbitro non guarda. Sei nel regno in cui conta il quanto, non il come. Pensa, stai nel regno dei «devoti alla vittoria» e non te ne sei neanche accorto!

Ho pensato anche che la rivoluzione che tu, forse, vorresti è quella che impone il comando di uno e l’obbedienza dei restanti. Quella in cui il popolo che costituisce la nazione ha diritti superiori a chi da quel popolo e quella nazione è escluso. Ma hai anche questo, ragazzo! Di cosa ti lamenti? Fai uno sforzo per capire. Hai presente quando senti dire che «si attende la risposta dei mercati»? Ecco, significa che i governanti (che non contano niente, o quasi, nonostante quanto si possa credere a sentire giornali e tv) aspettano di vedere se i tassi di interesse sul debito pubblico (cioè sui soldi che lo stato prende in prestito dai mercati) si alzano o si abbassano dopo l’annuncio di una determinata legge o manovra finanziaria. Se “i mercati” giudicano la legge ok, acquistano i titoli di quello stato e fanno scendere i tassi di interesse; se per i mercati la legge non è ok, vendono i titoli di quello stato, e quello stato è costretto ad alzare il tasso di interesse, impoverendosi, per rendere più appetibili quei titoli e incassare soldi dai “mercati”. Ma “mercati”, nonostante sia un sostantivo plurale che lascia intendere "tanti" significa "pochi", "pochissimi" investitori, con tanti di quei soldi che tu non immagini, tanti di quei soldi da far oscillare, con un acquisto o una vendita, i tassi di interesse sui titoli di stato. È così che sono nati il jobs act, la cancellazione dell’articolo 18, la svendita inesorabile del patrimonio pubblico, la privatizzazione dell’acqua e chissà fra quanto magari anche dell’aria. Piacevano ai mercati. Eccolo realizzato in terra il regno in cui pochissimi eletti decidono e la stragrande maggioranza delle persone obbediscono. Come? Non ti basta? Tu vuoi proprio che uno e solo uno comandi? Ma guarda che la logica a cui rispondono i “mercati” è una e una soltanto: che i soldi si moltiplichino e creino altri soldi, a prescindere da qualsiasi vincolo. Ce l’hai, ragazzo, un comandante. Uno solo.

E anche popolo e nazione sono salvaguardati, ragazzo. Perché siccome la logica del mercato crea diversi squilibri e problemi per la moltitudine costretta ad obbedire, al popolo viene detto che non ce n’è per tutti, che occorre fare sacrifici. E allora il popolo, o meglio, la sua caricatura, punta a volersi assottigliare, getta quelle che considera zavorre a mare. Punta a fare in modo cioè che, essendo immutabili le dimensioni della torta, siano in meno quelli che se la devono dividere. Allora chi non fa parte del popolo e della nazione, non viene fatto votare, non gli si offre neanche il minimo per campare, viene escluso; si alzano muri per non farlo entrare. Così si offre una valvola di sfogo ai frustrati che stanno dentro, li si fa sentire più forti degli sfigati che rimangono fuori, e li si convince all’obbedienza, i frustrati.

Ci sei, quindi, ragazzo. Se sei devoto alla vittoria, se vuoi l’idea al comando e il popolo obbediente, ci sei dentro. La tua rivoluzione l’hanno già fatta per te.

Dovresti volere la rivoluzione se fossi non devoto alla vittoria ma al dubbio; se il come raggiungere un obiettivo fosse per te più importante del quanto riesci a conquistare; se considerassi gli uomini e le donne uguali a prescindere da dove nascono; se rifiutassi la logica dell’idea al comando e se rifiutassi sia il comando che l’obbedienza per abbracciare un concetto che è perdente, da sfigati: cooperare tra uguali. Per questo dovresti volere la rivoluzione.

Se sei devoto alla vittoria, no, ragazzo. Stai bene qui.

giovedì 14 settembre 2017

Colpa vostra

Stavolta è stata Noemi, giovanissima stroncata da un giovanissimo. E allora vi esercitate su quant'è difficile l'adolescenza, quanto pericolosa è la droga, quanto rincoglionisce la televisione (e però ne avete una per stanza). Ma ieri sarà stata, che ne so?, Laura, commessa quarantenne; l'altroieri Roberta, disoccupata di venticinque anni; l'altro giorno Monica, cinquantenne bancaria divorziata; e poi ci saranno state Tiziana, Simona, Kathleen, Shamira, Michela e tutte le violentate che non si sanno, non si conoscono perché non sporgono denuncia. Ma voi vi esercitate a dare spiegazioni, concentrandovi di volta in volta sul particolare che vi assolve, sottraendovi con agile maestria alla carezza del dubbio che possa essere anche colpa vostra, che non avete capito che c'è un problema tutto maschile (e in parte femminile, quando le donne assecondano) nella violenza tra generi.
Colpa vostra, che se una sceglie di vivere da sola è perché chissà quanto si diverte a letto e chissà con quanti;
colpa vostra, che se una cambia partner due volte in un anno vi sentite autorizzati a provarci anche pesantemente perché date per scontato che ve la dia;
colpa vostra, che se una la vedete due giorni di fila con due uomini diversi allora ha scopato con entrambi anche se magari uno era il fratello e l'altro un amico gay;
colpa vostra, che se una la vedete per due volte di fila con la stessa donna allora sono due lesbiche;
colpa vostra, perché non accettate che una possa fare il cazzo che le pare con chi vuole senza essere costretta a doversi giustificare;
colpa vostra, perché esistono LE rovinafamiglie, mai I rovinafamiglie;
colpa vostra, che educate le figlie ad accudire e i figli a essere accuditi;
colpa vostra, genitori che se a scuola propongono per i vostri figli un percorso di educazione di genere insorgete “perché a scuola si va per imparare le materie che stanno nel programma e non queste cazzate!” (e poi hai visto mai che con una cosa del genere vostro figlio vi diventa frocio?);
colpa vostra, professori che ve ne fottete di tutto quello che sta al di fuori del programma;
colpa vostra, direttori di giornale che arruolate la redattrice che giudicate più avvenente per un servizio importante, invitandola a sfoderare tutto il suo fascino per carpire la notizia al politico che sapete essere sensibile a certe cose;
colpa vostra, dirigenti d'azienda che invitate con una scusa qualsiasi la giovane neoassunta nel vostro ufficio per palparle il culo;
colpa vostra, femminelle che sfoderate la coscia e l'ammiccamento migliore col vostro capo per accattivarvelo;
colpa vostra, che augurate alla Boldrini di essere “stuprata da quattro negri” e quando succede che quattro neri violentano qualcuno allora vi indignate e date la colpa alla Boldrini “che li ha fatti entrare”;
colpa vostra, che le donne esistono solo se sono le vostre;
colpa vostra, che sono tutte puttane e proprio ieri sera avete pagato una disgraziata per scopare;
colpa vostra, che è sempre colpa degli altri, dei politici che eleggete, dei programmi televisivi che guardate;
colpa vostra, che vi sottraete alla carezza del dubbio e quando uno vi prende a schiaffi, come adesso, vi scandalizzate e gli puntate il dito contro: “Esagerato!”.

venerdì 8 settembre 2017

Il peggismo

Per converso, a rigor di logica, quelli che utilizzano l'aggettivo "buonista" come insulto, dovrebbero prediligere il cattivismo. E sono gli stessi che esecrano il "politicamente corretto", ed esaltano le riconquistate libertà di pensiero e di parola conculcate in decenni di oscurantismo "correttista", dando sfogo a opinioni ed espressioni di cui fino a qualche lustro fa ci si vergognava e si aveva pudore nell'esprimerle; perché erano socialmente deprecate (da una società buonista, politicamente correttista e, va da sé, a larga egemonia cattocomunista) e perché era quindi sconveniente manifestarle pubblicamente.
Alcuni esempi: i lavoratori rendono meglio se il loro posto non è a tempo indeterminato e se non hanno troppe garanzie, così la mancanza di sicurezza li porta a dare il meglio di sé; le donne è meglio se stanno a casa, ché se le assumi poi si mettono a fare figli e ti tocca pure pagargli la maternità; gli immigrati meglio costringerli a rimanere in Africa, magari pagando mercenari che li rinchiudano in campi di concentramento, piuttosto che accoglierli qui.
I rivalutatissimi e molto in voga cattivismo e politicamente scorretto, mescolati, danno dunque vita al "peggismo", cioè a una rivalutazione del brutto, anzi, all'ostentazione del brutto, dello scomodo, dello scadimento; all'esortazione ad abbandonare qualsiasi ricerca di miglioramenti con la giustificazione che questi sono impossibili da raggiungere, e che anzi anelare ad essi sia l'inizio della fine. Meglio accontentarsi, anzi puntare al peggio, che è garanzia di raggiungimento dell'obiettivo, perché se punti al meglio, è il sottinteso, rischi di perdere anche il poco che hai; non solo: di quel poco, conviene subito rinunciare a una parte per evitare ritorsioni da parte del destino (i peggisti ammantano tutto di fatalismo, non ci sono mai donne, uomini e interessi in gioco, ma forze che sono sovranaturali, e tutto non ha alternativa).
Si tratta di una tendenza che nonostante il livello altissimo di sadomasochismo sociale insito in essa, sta prendendo il sopravvento grazie alla raffinata regia e ai potentissimi mezzi dei pochi che guadagnano dalla sua propalazione, a una nutrita schiera di agit prop, e anche in virtù della apoditticità di cui è sapientemente ammantata ad arte, il che le conferisce un che di drammaticamente ineluttabile. È un capolavoro che porta all'accettazione da parte degli sfigati (una volta si sarebbe detto dei subalterni) della loro condizione come immutabile, naturalmente data; all'accettazione dell'invito a litigarsi le briciole con chi sta come e peggio di te. Una tendenza di cui si possono intravedere alcuni possibili sviluppi.
Meglio Gigi D'Alessio, molto più alla mano, che i Rolling Stones.
Meglio la pasta in bianco, più salutare, che la carbobara.
Più genuina Daniela Santanchè di quanto fosse Nilde Iotti, radical chic ante litteram.
Renzi capisce la società in cui vive meglio di quanto seppe fare Pietro Ingrao.
Fellini tutto sommato non è stato importante quanto Nando Cicero, che ha parlato agli italiani più veri e senza infingimenti intellettualoidi.
Pasolini? Che palle! Vuoi mettere Sgarbi?
Le ferie annoiano, meglio lavorare tutto l'anno.
"Il grande fratello" è più movimentato di Canzonissima.
Calcutta diverte, Nick Cave è deprimente.
Quando c'era lui, tutti filavano dritti (ah no, questa l'hanno sempre detta).

giovedì 10 agosto 2017

La risposta

Allora, giorni fa con un amico condividevamo questa cosa, ché siamo abbastanza grandi per ricordarla. Quando da piccoli ci spiegarono e fecero studiare cosa furono il nazismo, l'olocausto e il fascismo, noi, impressionati e in un'epoca in cui tutto l'orrore che ci raccontavano era più vicino cronologicamente ma assai più lontano come scenario realizzabile, ci chiedevamo spaesati come fosse stato possibile tutto quello sotto gli occhi, e spesso con il consenso a vari gradi e livelli, di milioni di persone.
Oggi purtroppo abbiamo la risposta in tempo reale con il rovesciamento dei significati delle parole, delle responsabilità, dello stesso senso dell'umano: chi cerca speranza giocandosi la vita e affrontando le peggiori vessazioni va lasciato alla sua sorte perché minaccerebbe la nostra (che poi è quella di sfigati sacrificati al precariato esistenziale) che stiamo sulla sponda fortunata del mare; chi salva vite è un "estremista umanitario", un sovversivo da perseguire perché in combutta coi delinquenti. Chi pensa, scrive e dice queste cose, oggi è un buonista, ieri era un disfattista, perché ogni epoca ha i suoi epiteti anche se la sostanza non cambia. Sembra quasi che Orwell abbia scritto 1984 guardandoci, leggendo gli editoriali che ci tocca leggere a noi, le dichiarazioni nauseabonde che ci vengono ammannite quotidianamente e a cui ci siamo assuefatti.
Cos'erano gli ebrei, gli oppositori politici ai nazifascisti, i gay e gli zingari, se non umani di serie B, pericolo di cui liberarsi come oggi lo sono i migranti?, cos'erano i partigiani se non banditen, come i valorosi che oggi salvano vite in mare e vengono sequestrati nei porti?, e cos'era chi rischiava la vita salvando vite, se non una minaccia da perseguire, risarcita solo poi con medaglie postume e intitolazioni di piazze e vie?
Il nazismo, il fascismo, l'olocausto non sono stati eventi improvvisi. Sono stati esito di processi covati per anni; di incapacità, di irresponsabilità delittuose di classi dirigenti e di un popolo trasformato in plebe aggressiva verso i deboli; di un progressivo scivolamento verso il basso che ha travolto di giorno in giorno, di atto in atto, di dichiarazione in dichiarazione, il senso della convivenza civile.
Oggi purtroppo, scivolando noi, abbiamo la risposta che da bambini e ragazzini non sapevamo darci. Ce l'abbiamo sotto gli occhi. E sarebbe il caso di tentare di mettere un freno alla slavina affinché tra qualche decennio, chi verrà, non si trovi ad abitare in via delle vittime della migrazione, o in via Medici senza frontiere, o magari in via dei buonisti.

sabato 10 giugno 2017

Perugia 1416, come una palma al polo nord


Questa rimarrebbe una storia di provincia, viste le quisquilie di cui si tratta, se non rappresentasse il sintomo più generale di una mancanza di prospettiva e profondità che ha assalito le amministrazioni a tutti i livelli, dal più basso al più alto.
Questa è la storia di un’amministrazione che governa un comune di 166 mila abitanti, la quale decide di investire una discreta somma di denaro su un evento che avrebbe lo scopo “di rafforzare l’identità della città di Perugia facendo leva sulla memoria del proprio passato per promuovere anche il proprio futuro” - come si legge nella delibera di giunta che ha assegnato lo scorso anno 100 mila euro a “Perugia 1416 – Passaggio tra Medioevo e Rinascimento”, un’associazione di cui lo stesso comune è tra i fondatori - per celebrare la città con appuntamenti di questo calibro (le citazioni sono testuali): “Scene di vita medievale”, “Spettacolo di spade infuocate”, “Santa Messa per i rionali con benedizione dello stendardo”, “Giochi di una volta”, cene rionali e “mostra-mercato degli antichi mestieri”.
Non ci sarebbe niente di male, se la questione investisse uno di quei paeselli che s’inventano anche la sagra dell’uomo ragno pur di racimolare qualche soldo e vedere qualche anima che venga da fuori a popolarli. E non ci sarebbe niente di male neanche se la cosa avvenisse a Perugia, ma fosse promossa solo da uno di quei gruppi col pallino delle rievocazioni.
Invece, per capire di cosa stiamo parlando, va divulgato a chi non lo sapesse che in questi giorni chi si trova a passare per la home del sito istituzionale del comune di Perugia, si trova in faccia la foto che vedete; ancora, tanto per capire, occorre sapere che oltre ai centomila euro devoluti all’associazione per l’organizzazione dell’evento, il Comune si è fatto carico quest’anno, finora, di altri 30 mila euro di spesa, impiegati per la stampa del materiale pubblicitario, per la pubblicità che compare praticamente su tutti i muri della città, per il noleggio dei bagni chimici e per l’assegnazione della regia artistica (15 mila euro, solo quest’ultima).
Non ci sarebbe niente di male neanche se l’evento, al di là del suo dubbio spessore, investisse davvero la città recuperandone un pezzo di storia sentito dai perugini. Invece, tanto per dire, nel sito di “Perugia 1416”, si trova anche il link “Scopri il tuo rione”; ora, anche qui, per capire di cosa stiamo parlando, se provate a dire a un senese: “Scopri il tuo rione”, ben che vada vi ritrovereste davanti a una sequela di insulti: “Ciccio, tu vieni a dire a me di scoprire il mio rione?!”. Invece ai perugini occorre dirlo, “scopri il tuo rione”, perché il rione non è un’entità territoriale sentita; perché Perugia 1416 non esiste nella coscienza dei residenti; e perché questo è un evento che ricorda un po’ il tentativo di trapiantare una palma al polo nord: si estinguerà da sé, non attecchirà mai, neanche a investirci soldi, come se ne stanno investendo. Perugia 1416 non diventerà mai il Palio di Siena perché il palio scorre nel sangue dei senesi; e perché manifestazioni del genere non nascono un giorno del XXI secolo perché a qualche esponente istituzionale viene la fregola della riscoperta storica; certe cose si respirano per strada, salgono su dai sampietrini, coinvolgono masse, profumano di storia vissuta e sentita.
Per tutti questi motivi Perugia 1416 assomiglia più a una sagra paesana che al Palio di Siena.
Ma siccome non si può dubitare della buona fede dell’amministrazione che tanto ci investe, occorre dire all’amministrazione, qualora le interessi,che c’è una Perugia ampia, trasversale e si può anche dire, osando, maggioritaria, che di roba come questa non sa che farsene. E che anzi giudica questa iniziativa come una metafora della deriva, dell’azzeramento di una visione di medio-lungo periodo. Che tono si dà Perugia, una città con due università, una città in cui tutti gli anni si celebra uno dei festival jazz più importanti del mondo; una città in cui ha preso piede un festival del giornalismo letteralmente internazionale; una città che fa da cornice a un festival della letteratura in lingua spagnola di respiro anch’esso planetario? Che direzione vuol far prendere a questa città un’amministrazione che investe per scimmiottare il Palio di Siena e si ritrova tra le mani una sagra paesana? Che sviluppo ha in testa una giunta che profonde tanto impegno per una cosa che non attecchirà mai e sta seduta al vertice di una delle più importanti città d’Italia?

venerdì 28 aprile 2017

Entrambi

Ci sono almeno due modi per fare gli avvoltoi sui migranti, speculari e odiosi entrambi: uno è quello di chi gli fa pagare fior di quattrini per caricarli su gommoni mortiferi approfittando della loro disperazione; l'altro è quello di chi da quest'altra parte parte del mare, coi piedi al caldo e la giacca sulla camicia senza cravatta (ché ora non va più di moda), gioca sulla pancia di orde di votanti sbandati e arresi al gioco del "prenditela con chi è più debole di te", additando i disperati che vengono qua come il male assoluto per lucrarne alle elezioni. Spesso i secondi ricorrono anche, per dileggiare approcci umani e di buon senso alla questione dell'immigrazione, a parole e locuzioni di recente conio come "buonismo" o "radical chic", approfittando del fatto che chi si contrappone a loro è troppo educato per ricorrere a neologismi come "merdismo" o "radical ignorant".

mercoledì 26 aprile 2017

Pornografici

Non ne so abbastanza di come andassero le cose secoli fa. Quindi questo è un post più dubbioso che mai. Però credo che Dante, per dire, sia arrivato fino a noi non tanto perché scrisse roba che funzionava, ma perché le cose che ha composto spaccavano. Vale più o meno la stessa per Tocqueville, Omero (ammesso che sia esistito), Marx, Bakunin, Smith, Zola, e aggiungeteci i classici che più vi piacciono. Vale anche per i Beatles e i Doors, i Pink Floyd e i Rolling Stones; vale, credo, anche per Sartre, Camus e Orwell (anche qui, aggiungeteci chi vi pare). Vale cioè anche per un primo periodo in cui sono cominciati ad affiorare e intersecarsi nel settore della cultura, inteso nel senso più ampio possibile, termini come mercato e pubblico. Cioè: forse sbaglio, ma mi pare che fino a un certo punto ogni epoca abbia trasmesso ai posteri il meglio della sua produzione.
Il punto è: cosa resterà di noi? Il timore è che l'accoppiata mercato-pubblico stia producendo mostri, già da un po'. Voglio dire che il rischio, che è più di un rischio, è che rimanga quello che oggi è acclamato dal pubblico. Gli storici mi diranno, forse, che è sempre stato così. Che anche se le categorie mercato e pubblico (e marketing spintonon esistevano, in qualche modo quella che è stata trasmessa nel futuro è stata sempre la produzione più commerciale di un determinato periodo. Io conservo i miei dubbi. E noto che la nostra epoca, accanto a quelle di Roth e Garcia Marquez, rischia di essere ricordata per produzioni assai meno profonde. Noto come soprattutto, il combinato disposto mercato-pubblico-marketing, rischia di imporre non solo a noi, ma anche a chi verrà dopo di noi, chi oggi funziona e vende. Così, si rischia che il futuro sia più di Mika che di Nick Cave, o più di Moccia che dei Wu Ming; più di Fedez che di Edda, o Paolo Benvegnù, o Cristina Donà, o Gianni Maroccolo. Più dei Backstreet Boys che dei Sigur Ros. Sarebbe l'ennesina stortura procurata dal mercato. Forse una delle peggiori, perché destinata a protrarsi nel tempo. E a dipingerci come non eravamo. A meno di non voler considerare migliore la roba che funziona meglio. Perché allora in quel caso, la pornografia non la batte nessuno.