venerdì 8 settembre 2017

Il peggismo

Per converso, a rigor di logica, quelli che utilizzano l'aggettivo "buonista" come insulto, dovrebbero prediligere il cattivismo. E sono gli stessi che esecrano il "politicamente corretto", ed esaltano le riconquistate libertà di pensiero e di parola conculcate in decenni di oscurantismo "correttista", dando sfogo a opinioni ed espressioni di cui fino a qualche lustro fa ci si vergognava e si aveva pudore nell'esprimerle; perché erano socialmente deprecate (da una società buonista, politicamente correttista e, va da sé, a larga egemonia cattocomunista) e perché era quindi sconveniente manifestarle pubblicamente.
Alcuni esempi: i lavoratori rendono meglio se il loro posto non è a tempo indeterminato e se non hanno troppe garanzie, così la mancanza di sicurezza li porta a dare il meglio di sé; le donne è meglio se stanno a casa, ché se le assumi poi si mettono a fare figli e ti tocca pure pagargli la maternità; gli immigrati meglio costringerli a rimanere in Africa, magari pagando mercenari che li rinchiudano in campi di concentramento, piuttosto che accoglierli qui.
I rivalutatissimi e molto in voga cattivismo e politicamente scorretto, mescolati, danno dunque vita al "peggismo", cioè a una rivalutazione del brutto, anzi, all'ostentazione del brutto, dello scomodo, dello scadimento; all'esortazione ad abbandonare qualsiasi ricerca di miglioramenti con la giustificazione che questi sono impossibili da raggiungere, e che anzi anelare ad essi sia l'inizio della fine. Meglio accontentarsi, anzi puntare al peggio, che è garanzia di raggiungimento dell'obiettivo, perché se punti al meglio, è il sottinteso, rischi di perdere anche il poco che hai; non solo: di quel poco, conviene subito rinunciare a una parte per evitare ritorsioni da parte del destino (i peggisti ammantano tutto di fatalismo, non ci sono mai donne, uomini e interessi in gioco, ma forze che sono sovranaturali, e tutto non ha alternativa).
Si tratta di una tendenza che nonostante il livello altissimo di sadomasochismo sociale insito in essa, sta prendendo il sopravvento grazie alla raffinata regia e ai potentissimi mezzi dei pochi che guadagnano dalla sua propalazione, a una nutrita schiera di agit prop, e anche in virtù della apoditticità di cui è sapientemente ammantata ad arte, il che le conferisce un che di drammaticamente ineluttabile. È un capolavoro che porta all'accettazione da parte degli sfigati (una volta si sarebbe detto dei subalterni) della loro condizione come immutabile, naturalmente data; all'accettazione dell'invito a litigarsi le briciole con chi sta come e peggio di te. Una tendenza di cui si possono intravedere alcuni possibili sviluppi.
Meglio Gigi D'Alessio, molto più alla mano, che i Rolling Stones.
Meglio la pasta in bianco, più salutare, che la carbobara.
Più genuina Daniela Santanchè di quanto fosse Nilde Iotti, radical chic ante litteram.
Renzi capisce la società in cui vive meglio di quanto seppe fare Pietro Ingrao.
Fellini tutto sommato non è stato importante quanto Nando Cicero, che ha parlato agli italiani più veri e senza infingimenti intellettualoidi.
Pasolini? Che palle! Vuoi mettere Sgarbi?
Le ferie annoiano, meglio lavorare tutto l'anno.
"Il grande fratello" è più movimentato di Canzonissima.
Calcutta diverte, Nick Cave è deprimente.
Quando c'era lui, tutti filavano dritti (ah no, questa l'hanno sempre detta).

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