sabato 29 febbraio 2020

Quello che siamo


Se c’è un dato positivo emerso dal delirio collettivo che si è scatenato nella settimana abbondante scattata da venerdì 21 febbraio, è che c’è stato un contro-delirio nel giro di pochissimo tempo. Il fattore tempo è cruciale in questa vicenda. È successa una cosa simile a quella che accade quando uno va a dormire sbronzo la sera e si rende conto già al risveglio della mattina successiva delle enormità che ha fatto poche ore prima in preda all’alcol. La presa di coscienza è immediata e per questo, si spera, efficace. Un conto è misurarsi con le madornalità commesse una vita fa, un conto è rendersi conto di averle fatte praticamente qui e ora. Serve a prendere coscienza di quanto si è limitati oggi e di quanto occorra fare oggi, non una vita fa.

Ecco, delirio e contro-delirio dell’ultima settimana aiutano a capire quanto siamo limitati, a rischio, appesi a un filo come civiltà proprio, non come individui. Perché ammettiamolo, a queste latitudini siamo tutti intimamente convinti di avere il pieno controllo di noi stessi e dell’ambiente circostante; di saperla lunga, di essere nettamente meglio di chi ci ha preceduto secoli fa che andava a piedi scalzi e comunicava coi segnali di fumo, mica c’aveva Suv e telefonino come noi, no? Ci sarebbe capitato di fare un bagno d’umiltà, se capissimo quello che ci è successo nel delirio.

Già, ma che è successo? Che ci siamo fatti governare dall’irrazionalità esattamente come quando irrazionalmente da primitivi tremavamo di fronte ai lampi sospettando che arrivassero da un altro mondo. Governo, opposizioni, tv, giornali, sindaci, presidenti di regione. C’è stato un tale campionario di bestialità che se solo sapessimo guardarle bene dovremmo vergognarci e cambiare immediatamente pianeta. Non lo faremo, perché siamo sempre quelli dritti che c’hanno Suv e telefonino che li rendono invincibili. Però è successo. È successo che abbiamo chiuso i bar alle 18 come se il coronavirus uscisse per l’aperitivo e fosse quella l’ora a cui andava bloccato. Abbiamo fatto titoli di giornale come se l’Apocalisse fosse a un passo. Abbiamo cambiato i palinsesti delle tv per far parlare del coronavirus gente che non distingue un'oliva da un coccodrillo. Abbiamo pensato che i cinesi, per il fatto di essere cinesi proprio, contenessero in sé il virus; poi ci siamo ricreduti e un presidente di Regione votato da milioni di noi c’ha spiegato che i cinesi c’hanno il virus perché mangiano i topi vivi. Abbiamo fatto incetta di generi alimentari manco se ci fosse un conflitto nucleare alle porte. Abbiamo chiuso i cinema, i teatri, gli stadi, interi comuni. Abbiamo comprato cose a dieci-venti-trenta volte il loro prezzo normale. Ci siamo auto privati della libertà di muoverci, noi che di solito la libertà di muoversi la neghiamo agli altri.

E tutto questo l’abbiamo fatto per un virus assolutamente non letale se non per una percentuale minima di persone colpite. Il che rende le misure apocalittiche prese assolutamente prive di senso; i titoli e le paginate dei giornali inutili e dannosi; gli innumerevoli stand up degli inviati tediosi e ansiogeni. Ma l’abbiamo fatto. E facendolo abbiamo messo un scena uno spettacolo che è la migliore rappresentazione degli invincibili coglioni che siamo. Sì, perché questo siamo: dei coglioni che si sentono invincibili perché c’hanno il Suv e il telefonino, e che invece al primo colpo, peraltro minacciato, vengono giù come pere mature.

Poi siamo rinsaviti. Mica perché abbiamo capito di essere coglioni, ma perché ci siamo resi conto che la nostra paranoia ci faceva trattare da appestati dal resto del mondo. Proprio come noi consideravamo i cinesi all’inizio della storia. E perché, soprattutto, l’isteria stava danneggiando gli affari. E gli affari sono sacri, per quelli si può anche rinsavire.

Il fatto è che ilproblema non sono gli affari. È che in una settimana, se fossimo in grado di capirlo, abbiamo dimostrato a noi stessi quanto siamo manipolabili, ignoranti, irrazionali, impotenti nonostante ci crediamo esattamente l’opposto. Ci siamo fatti immobilizzare da una diceria che man mano che passava il tempo acquisiva l’aspetto di una inconfutabilità per il solo fatto che erano in tanti e non qualificati a crederci: governo, opposizioni, giornali, salumieri, dirigenti e quant’altro.

Stavolta c’è stato il contro-delirio a farci svegliare, ma c’è da temere che sia solo per gli effetti, perché le cause stanno tutte lì. Continuiamo a credere che ci sia in atto un’invasione nei confronti dell’Italia e votiamo di conseguenza; i più attrezzati argomentano addirittura che ci sia un disegno di sostituzione etnica, quando i migranti sono in rapporto di uno a dieci. Ci allarmiamo per il clima ma continuiamo a prendere l’auto privata anche per andare a sparare cazzate al bar e a tenere il termostato a 25 gradi. Ma siamo invincibili, noi, abbiamo Suv e telefonino, mica siamo nel Medioevo! E invece la settimana scorsa abbiamo fatto più o meno la figura di quelli che davano la caccia alle streghe perché c’era qualche coglione più furbo di loro che indirizzava le loro paranoie verso qualche obiettivo facile. Questo siamo. Questo abbiamo dimostrato. Ma non l'abbiamo capito. E da domani torneremo convinti che con Suv e telefonino si va in paradiso, che c’è chi minaccia le nostre frontiere e che il clima sì, ma col cazzo che faccio qualcosa. Daje.

venerdì 14 febbraio 2020

Di giornali e opinione pubblica




(POST VERY UMBRIA ORIENTED)
In questa regione è rimasto un solo giornale con il suo nome scritto nella testata: il Corriere dell’Umbria. Ce n’era anche un altro, il Giornale dell’Umbria, ma quella è diventata da anni materia per il giudice fallimentare. Il Corriere dell’Umbria peraltro è anche più antico del suo collega mandato al macero, e nei primi due-tre decenni della sua vita è riuscito non senza ragioni ad accreditarsi come “il giornale della regione”. Una capillare rete di collaboratori e tanto spazio dato alle cronache anche dei centri più piccoli, e comunque tante pagine dedicate alla vita di un posto la cui vita non era mai stata raccontata da nessun mezzo di comunicazione l’hanno fatto diventare un punto di riferimento. Tutto questo ha però contribuito alla costruzione di una credenza del tutto irrazionale, cioè che quel giornale fosse di tutti: tu c’avevi la polisportiva che vinceva la medaglia? Mandavi il comunicato e il Corriere pubblicava (nelle pagine sportive credo lo faccia tuttora). Tu ti candidavi a sindaco con le stesse probabilità di farcela che ha Sgarbi di rimanere tranquillo nel corso di un dibattito in tv?, il Corriere ti garantiva il tuo momento di gloria dedicandoti un’intervista. Così al Corriere dell’Umbria la gente si è affezionata. E quando ci si affeziona si comincia ad aspettarsi cose, si alzano le aspettative, che spesso tracimano fino a diventare pretese. Ma soprattutto così si è alimentata la costruzione di un falso storico: il giornale di tutti. Perché il giornale è sempre di qualcuno. Sempre.

E qui arriviamo a oggi. A quando cioè, dopo tutta una serie di cambi di proprietà e di direzioni che ne hanno fino a un certo punto perpetuato l’immagine di giornale pacioccone, di tutti, arriva un proprietario, Angelucci, che sceglie di usarlo, il giornale. Di usarlo in maniera diretta, intendo dire, non soffusa, come avviene in qualsiasi giornale; senza infingimenti. Così Angelucci, che deve le sue ricchezze molto più alle cliniche private che ai giornali che detiene, mette il Corriere al servizio del suo core business, la sanità privata. Con tutto quello che ne consegue: appoggio alle destre (più sensibili al richiamo della sanità privata rispetto ai loro competitori) in sede di campagna elettorale, e, una volta vinta la campagna elettorale, via all’altra di campagna, quella per la sanità privata: la ciccia vera. Cosa c’è di male in tutto questo? Niente. Niente di niente. Tu la tua macchina la fai arrivare dove vuoi tu, non dove vorrebbero gli altri.

Di sbagliato semmai c’è quello che sta avvenendo ormai da mesi, anni, nel campo avverso. Le grida di scandalo sul Corriere che signora mia non è più quello di una volta; le accuse di lesa maestà e via scandalizzandosi. Fino ad arrivare a questi giorni, in cui l’ex candidato sindaco del centrosinistra di Perugia e il Corriere hanno ingaggiato una battaglia come se l’Apocalisse fosse alle porte l’uno, l’ex candidato, rinfacciando la campagna pro sanità privata al Corriere dell’Umbria; l’altro, il Corriere dell’Umbria, attaccandosi a una presunta gaffe dell’ex candidato sul numero di palme nelle Marche. Roba forte, eh. (Ed è questa la scaturigine della cosa che, eroici, siete se non altro riusciti a leggere fino qui).

Il fatto è che stracciandosi le vesti per quello che il Corriere è a differenza di quello che si vorrebbe che fosse, si alimenta in se stessi e si contribuisce ad alimentare in quelli che stanno dalla tua stessa parte che il giornale, quel giornale che era così pacioccone e sembrava di tutti, “debba” essere a tua immagine. Che tu lo possa usare come una bacheca su cui attaccare il tuo volantino, che siccome a te la sanità privata non piace il Corriere non ne debba parlare. Nossignori. Il giornale – qualsiasi giornale - ha delle sue logiche e, soprattutto, ha una proprietà che ne decide la linea più o meno direttamente, più o meno a gamba tesa, più o meno spregiudicatamente. Gli esiti sono gli stessi, anzi, spesso le proprietà apparentemente più liberali sono quelle col pugno più duro nei confronti delle redazioni, se ci sono dei dissenzienti. A questo fraintendimento si prestano anche i giornalisti, che dissimulano per ragion di stato i rospi che si ingoiano nelle redazioni, se si ha un pensiero, e preferiscono sbandierare una libertà che è solo parziale e sempre più ridotta, visto lo scadimento del potere contrattuale della categoria. La questione semmai non è la libertà, ma la trasparenza nei confronti dei lettori (ma questo è un altro file, non opportuno da aprire qui).

Ciò che è in ballo qui non è solo il contribuire a una falsa verità, pur essendo in buona fede. Ci sono un altro paio di conseguenze non da poco in questa crociata contro il Corriere dell’Umbria reo di essere diventato “de destra”. Si dimentica infatti che un giornale (cioè chi lo edita e, se ci riesce, chi ci lavora) è libero; può scrivere quello che vuole, imbracciare le battaglie che crede, rivolgersi a chi desidera. Il pluralismo – e qui arriviamo al cuore del problema – non lo si può cercare in un solo mezzo. Il pluralismo lo garantisce il sistema dei media nel suo complesso, se è sano. E sottolineo se. Ma per farlo diventare sano, occorre che la platea dei fruitori sia avvertita di ciò che maneggia quando si parla di informazione. Pretendere che il Corriere torni pacioccone è come chiedere a un leone di diventare vegano: senza senso. Inoltre, nel caso di specie, sostenere che sia scandaloso che un giornale faccia campagna per la sanità privata equivale a spostare il problema su un piano che non conviene proprio a chi vuole che la sanità resti pubblica, universalistica e di qualità. La battaglia va condotta sul piano delle idee. Come?

Già, come? Cominciando a ragionare sull’errore madornale che si fa quando si vorrebbe a propria immagine un giornale che di immagine ne ha un’altra, quella dell’editore e dei suoi interessi. Cominciando a pensare di finanziare la stampa di qualità o che si ritiene utile all’affermazione dei propri principi. Praticando cioè il pluralismo, non pretendendolo. Il punto non è vietare che il Corriere parli di sanità privata; lo scandalo è semmai che non ci sia in ambito di informazione chi perora la causa della sanità pubblica e universalistica che ha fatto la fortuna di questo paese e di questa regione. Certo, tutto questo è assai più complicato e dispendioso di stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo. Ma gridare non serve a nulla. E per di più in questo caso è pure sbagliato, nel senso che non serve alla causa. Perché mentre si menano scandali inesistenti la stampa e il pluralismo muoiono, questo è lo scandalo vero. E la colpa non è di quelli che fanno i giornali (editori in primis e direttori e giornalisti più o meno allineati o che tengono famiglia e non possono permettersi troppe speculazioni filosofiche). La responsabilità è di quelli che sbagliano diagnosi e prognosi. E dovrebbero cominciare a pensare di costruirselo, il giornale che vogliono, se lo vogliono; pagandola, sostenendola l’informazione che si vuole, come si paga un bel film, un buon libro, l’entrata al museo, un hamburger decente; spingendo affinché il pluralismo del sistema diventi punto dell’agenda pubblica. Questo andrebbe fatto, più che gridare allo scandalo sbagliato.