giovedì 19 dicembre 2013

Le nuove parole del 2013

Il 2013 è stato segnato da cambiamenti linguistici che hanno introdotto nuovi vocaboli o hanno modificato l'uso che si faceva di altri. Ecco le principali novità. 

Perseguitato politico: miliardario ultrasettantenne dedito a una vita dissoluta e uso circondarsi di persone molto più giovani di lui in cerca di facile successo (vedi alla voce: Raffaele Fitto).

Mario Monti: termine utilizzato fino al novembre 2011 dai più ottimisti anche come sinonimo di speranza (in alcuni casi anche nella sua variante eccitata: salvatore), è venuto assumendo nel giro di qualche mese significati che sono scivolati via via in grigiore, squallore (gergale: "cheduepalle"). Dopo il 24 febbraio 2013, data che coincide con le elezioni politiche, ha assunto per la maggioranza degli italiani il significato che solo pochi prima gli attribuivano: fallimento.

Ribelle: aggettivo di cui si è autoappropriato un giovane sindaco divenuto per acclamazione segretario del maggior partito italiano e che da allora ha assunto significati esattamente contrari rispetto a quelli che aveva avuto dalla sua nascita: conformista, furbo, conservatore.

Sinistra: parola usata con diversi significati, non di rado in maniera impropria. Utilizzata spesso come sinonimo di introvabile, inafferrabile. Viene anche inserita in frasi diventate ormai di uso comune per indicare pratiche e comportamenti sociali: "Quelli litigano tra loro come se fossero di sinistra", "Non riescono mai a mettersi d'accordo, ma che sono di sinistra?".

Larghe intese: accordo di governo che serve a pochissimi ma che ha l'ambizione di rappresentare tutti. Utilizzato da alcuni nella variante "Adda passa' a nuttata".

Riforme: termine che indica provvedimenti legislativi volti a peggiorare la condizione della stragrande maggioranza della popolazione con la giustificazione che se non venissero adottati le cose peggiorerebbero (vedi alle voci: riforma delle pensioni, riforma del trasporto pubblico, riforma del mercato del lavoro). Utilizzato nel linguaggio informale anche con altri significati: "Sto così male che sembra che mi sia caduta addosso una riforma".

Nuovo Centrodestra: ossimoro, paradosso, tipo: "splendido disastro", "meravigliosa catastrofe".

lunedì 9 dicembre 2013

Renzi e lo "sbrigativismo"

Coloro ai quali a sinistra non va giù la vittoria di Renzi e la platea di quelli che invece lo guardano con simpatia sono accomunati almeno da una caratteristica: trascurano (o hanno trascurato fino a ieri) un particolare non propriamente secondario. I primi si rifiutano di riconoscerlo. I secondi se ne entusiasmano, ma anche loro non ne colgono la portata. Il particolare è questo: Renzi rappresenta davvero l'Italia. Un paese logorato, malfidato, dove l'orizzonte si chiude sull'uscio di casa. Sfinito fino a diventare pigro e per questo pronto a saltare da Berlusconi a Grillo al sindaco di Firenze senza pensarci troppo sopra, nonostante la pubblicistica mainstrem li dipinga come alternativi tra loro (anche se si assomigliano in maniera clamorosa e non a caso nelle teste degli elettori sono in larga parte intercambiabili, e questo la dice lunga anche sulla pubblicistica mainstream). Un paese col fiato corto e quindi impreparato a percorsi lunghi e impegnativi come quelli che sarebbe necessario intraprendere in un momento come questo. Un paese che per capirlo meglio occorrerebbe coniare un neologismo e studiarlo: lo sbrigativismo. Che è una piaga sociale, non solo relegabile alla “politica politicante”.

Lo sbrigativismo è il rifiuto della complessità, e quindi della vita. Lo sbrigativismo è un'illusione ottica: appare risolutivo ed efficiente e invece costringe anche nel breve periodo a dispendiose cure per riparare i guasti procurati. Lo sbrigativismo è la negazione dell'innovazione, che per definizione necessita di laboratori e procede per aggiustamenti ed errori. Lo sbrigativista predilige la brevità e l'univocità del messaggio. Anche per questo la forma di comunicazione che continua a essere premiata è quella “uno a tanti”: è la preferita dai leader sbrigativisti, ovviamente. Ed è accettata dalla platea sfinita che li ammira. In questo senso andrebbe una volta per tutte ridimensionata la retorica sui social media: i social sono orizzontali quando ad utilizzarli sono i pari, tra loro. Nel momento in cui entra in scena un attore dominante la forma torna a essere quella canonica, cioè televisiva: il blog di Grillo, autentico organo di partito, è l'emblema di questa verticalità mascherata da agorà. Da questo discende almeno una conseguenza di una certa rilevanza ai fini del discorso che si intende fare qui: la forma di gestione della cosa pubblica che trionfa ai tempi dello sbrigativismo imperante è la delega. Ma si badi: la delega a uno e uno solo. Perché uno, da solo, decide prima e deresponsabilizza tutti gli altri (compreso chi ha attribuito la delega). Ciò significa tagliare fuori tutti coloro e tutto ciò che, problematizzando, rallenta i processi. Perché in tempi di sbrigativismo non occorre tanto fare bene quanto fare in fretta, mostrare i risultati.

Certo, non tutto è così. Non tutti in Italia sono ammiratori dello sbrigativismo. Ma la grande maggioranza lo è (e per capire come si sia arrivati a questa grande maggioranza si necessitano intere biblioteche). E, questo è l'altro punto, in tempi di dittatura della maggioranza per le minoranze i margini di manovra si riducono al minimo. D'altro canto, quella sbrigativista non potrebbe essere altro che una maggioranza “dittatoriale”. Non c'è tempo per affrontare questioni di sistema, né di star lì a spaccare il capello in quattro. Ci si deve muovere. Anche se, siccome lo sbrigativismo è il paradiso degli ossimori, dà solo l'illusione di muoversi, facendo rimanere perfettamente immobili. E qui veniamo a Renzi.

Essendo lo sbrigativismo innanzitutto rifiuto della complessità, Renzi ne rappresenta bene l'essenza parlando a un tutto indistinto: la gente. Difficilmente, se non per brevi spot, nei discorsi del neo segretario del Pd compaiono le categorie: i precari, le donne vittime di pregiudizi ottocenteschi, i giovani in gamba appesi al parere di baroni universitari, quelle e quelli con ottime idee ma zero soldi che banche medievali non finanzieranno mai, i migranti che faticano il triplo degli autoctoni. Nella narrazione renziana scompaiono i lavoratori. L'attore principale, indiscusso, se si parla di produzione, è l'imprenditore. Come se chi porta alla produzione il suo lavoro, il suo talento, fosse una sorta di escrescenza, di errore della storia. Lo si nota poco perché questo è uno dei grandi assi portanti dello sbrigativismo, metabolizzato ormai da decenni dalla maggioranza sbrigativista: nell'impresa i lavoratori non esistono, esiste solo l'imprenditore.

Nel discorso di Renzi, come in ogni sceneggiatura ben costruita, ci sono invece l'eroe (la gente, appunto) e l'antieroe, che oggi ha assunto le fattezze della categoria contro la quale è più facile prendersela, quelle nomenclature di politici che in quanto a impresentabilità temono la concorrenza di pochi, in effetti. Si sbandiera il cambiamento (cioè, sempre per rimanere in tema di sceneggiatura, l'obiettivo cui tende l'eroe e che viene negato dall'antieroe), perché la platea è sfinita dallo spettacolo andato avanti finora e quello reclama, il cambiamento. Ma in quel discorso manca del tutto l'aggressione ai nodi cruciali, sciogliendo i quali si potrebbe sperare di cambiare le cose. Il cambiamento è tanto di frequente evocato, quanto sbiaditi sono i contorni che dovrebbe avere (anche perché questo è funzionale al parlare alla gente, a un "tutto indistinto", evitando di assumersi l'impegno della scelta). Si potrebbe farla lunga, ma per capire la differenza di orizzonti è sufficiente citare Bill de Blasio, diventato sindaco di New York sbandierando la sua famiglia “diversa” e dicendo chiaro e tondo che avrebbe aumentato le tasse a chi i soldi ce li ha per finanziare scuole e ospedali fruibili da tutti. Cioè facendo le scelte di campo che il sindaco di Firenze invece si guarda bene dal fare, mascherandosi dietro slogan in grado di accontentare tutti e puntando sulla performance attoriale, per rendere al meglio la sceneggiatura attenta che gli è stata costruita intorno.

Detto ciò, cosa rimane da fare alle minoranze schiacciate dalla dittatura della maggioranza sbrigativista? Rimanere parte attiva. Lavorare ovunque, ove se ne abbia l'agibilità, per affermare principi alternativi (altra parola scomparsa). Per riportare al centro la complessità dei sistemi, che non significa non prendere decisioni, ma prenderle meglio; per rimettere al centro lo studio delle questioni, che non significa inefficienza e perdita di tempo ma il suo contrario. Dimostrare, esistendo, che la sostanza è più importante della performance attoriale. E che non esiste un tutto indistinto, la gente. Ma esistono i tanti, diversi, a volte confliggenti.

venerdì 6 dicembre 2013

Pd, una poltrona per tre

Le primarie di domenica sanciranno il cambio al vertice di quello che, per cause del tutto indipendenti dalla sua volontà, è il maggior partito italiano: il Pd. La geografia politica dell'intero Paese potrebbe cambiare a seconda di quale dei tre sfidanti diventerà segretario. Il condizionale è d'obbligo perché non è scontato che il Pd arrivi a lunedì mattina. I più attenti osservatori non escludono che il partito, in preda a stress emozionale, possa nel frattempo passare allo stato gassoso e dissolversi nell'atmosfera come una Santanchè qualsiasi esposta alle alte temperature o che, qualora rimanga allo stato solido, possa essere addentato da qualcuno dei suoi elettori rimasto disoccupato. Ma vediamo il ritratto dei tre sfidanti per capire dove potrebbe andare l'Italia, sempre che riesca ad alzarsi in piedi.

Giuseppe Civati. Il deputato lombardo è appeso alla variabile meteo: «Sì, mi sono candidato. Ma se domenica farà bel tempo andrò in Valtellina a farmi una sciata e francamente non so se col traffico del rientro riuscirò a raggiungere Milano in tempo utile per votare». Civati è comunque dei tre aspiranti alla segreteria quello con le idee più chiare: «Voglio un partito più vicino a Sel e ai Cinque stelle». Di qui il programma, nel quale è stato fatto uno sforzo di sintesi di alcune delle priorità care a Vendola e a Grillo. Eccone uno stralcio: «Abbiamo l'obbligo morale di estirpare dai gangli vitali della nostra comunità la mitopoiesi secondo la quale un partito - ma anche una partenza, un arrivo, o che so io, un semplice "ciao" - possa diventare la metamorfosi di carta straccia da vendere al miglior offerente. Vaffanculo, siete morti. La nostra ontologia tendente alla liberazione dalla schiavitù del giorno feriale non può prescindere dal lavoro vivo, grondante lapilli madidi di estasiato, sincronico sudore. Ladri, pezzi di merda, fuori gli scontrini, vi facciamo un culo così, internet».

Gianni Cuperlo. Non ha ancora terminato il ciclo di sedute cui Massimo D'Alema lo sta sottoponendo da settimane per renderlo più convincente. In particolare, si rifiuta di digrignare i denti nonostante il suo mentore, per fargli capire come si fa, l'abbia costretto a convivere per una settimana in una stanza di sei metri quadrati con tre pitbull che non mangiavano da giorni. «Non vi preoccupate, lo faccio per il suo bene, così si diventa leader», aveva detto D'Alema ai famigliari in lacrime che salutavano Cuperlo prima che si sottoponesse alla prova. Ma quando il suo pupillo è uscito, l'ex presidente del Consiglio l'ha schernito così: «Cazzo Gianni, ma cosa devo fare per te? Altro che pitbull, così sei pronto a malapena per fare Dudù». Secondo fonti accreditate Cuperlo, di nascosto, avrebbe presentato una memoria ai garanti del partito per chiedere, in occasione dell'appuntamento di domenica, cinque punti percentuali di vantaggio rispetto ai suoi avversari in maniera da bilanciare così i continui endorsement di D'Alema a suo favore. Nel suo programma si legge, tra le altre cose: «Avanti a sinistra, sperando che 'sto cazzo di navigatore non continui a mandarci fuori strada».

Matteo Renzi. È impegnatissimo nel tour elettorale scandito dalle linee guida del suo guru, lo statunitense Hard Discount. Discount si è formato nella "Libera università Draconio" - intitolata a un feudatario vissuto nell'XI secolo noto per la sua magnanimità: in occasione del pranzo di Natale riuniva i suoi contadini sotto le finestre della sala da pranzo da cui lanciava loro gli avanzi dei commensali. Ritiene, come si legge nella sua opera più famosa, «A mangiar troppo si diventa grassi», che «la disoccupazione è una fortuna perché così si ha più tempo libero». Di qui discende la sua idea che i lavoratori siano degli sfigati che sfogano la loro frustrazione rivendicando diritti ai danni dei ricchi, i quali devono invece essere messi nelle migliori condizioni di accumulare liberamente per poi spendere e muovere così l'economia. Sono però argomenti che Renzi, per non annoiare il pubblico, non utilizza mai nei suoi comizi. Anzi, da vero innovatore quale è il sindaco di Firenze non è dotato affatto di programma. Ne compila uno di volta in volta, ma con l'inchiostro simpatico, in modo che dopo pochi minuti il foglio torna bianco. «È l'unico modo per tenersi davvero al passo con tempi che cambiano sempre più velocemente», ha spiegato di recente. L'unico strappo alla regola è lo slogan che l'ha accompagnato nel tour, quello stampato anche sulle t-shirt dei suoi sostenitori: «Dove vi porto non lo so nemmeno io, ma ci divertiremo un casino».