Ieri è successa una cosa discretamente bella. Insieme a Ugo Carlone, compare di ribalta, abbiamo presentato a Terni i libri di Gian Paolo Di Loreto e Simone Gobbi Sabini (“Lo stato delle cose”, una raccolta di racconti, e “Piccole città, bastardi posti”, un romanzo) appena pubblicati da Bertoni editore. L’abbiamo fatto perché i loro contenuti rientrano nell’orizzonte di ribalta, che è ampio, e punta ad andare oltre l’aspetto puramente informativo-comunicativo, ma questo è un altro discorso. Gian Paolo ha parlato tra l’altro di storia e discorso, di come la rappresentazione delle cose diverga dal loro stato reale (ad esempio: i reati commessi sono sempre di meno, ma non si fa altro che parlare di e varare pacchetti-sicurezza). Simone è ricorso alla metafora del criceto, e ha detto che chi corre, corre, corre per soddisfare esigenze per lo più indotte, in effetti non si sposta mai dal posto in cui è, nonostante perda un sacco di energie, mentre chi sta fermo si sottrae al falso movimento ed è colui che cammina davvero, esplorando nuovi territori. Ugo ha detto che queste due opere mostrano come la letteratura possa diventare saggistica, cioè riuscire a spiegare quello che ci sta intorno ma in maniera meno ostica, più coinvolgente e più dolce rispetto alla saggistica stessa, quindi più efficace. Io ho cercato di dire che queste due opere, diversissime l’una dall’altra e al di là delle intenzioni dei due autori, si completano a vicenda. Il romanzo di Simone finisce dove cominciano i racconti di Gian Paolo. Il primo è la presa di parola di una generazione, quella che adesso si trova tra i quaranta e i cinquant’anni, che è stata la prima a provare sulla propria pelle che il futuro non sarebbe stato più quello di una volta, che le certezze e le sicurezze dei genitori stavano svanendo sotto quello che sarebbe diventato precariato esistenziale, una condanna apparentemente ineluttabile, che avrebbe colpito poi anche le generazioni seguenti. Una generazione ripiegata rispetto agli obiettivi: Timberland e Moncler laddove chi ci aveva preceduto aveva provato l’assalto al cielo. La plastica che prendeva forma intorno a noi e che abbiamo nostro malgrado – come generazione – contribuito ad agevolare nella sua crescita, è stata l’antesignana della realtà apparentemente patinata e levigata che abbiamo intorno. Ho detto “apparentemente” perché la realtà noi la vediamo con lenti anti-distorcenti, e l’opera di Gian Paolo, che parte da dove quella di Simone arriva, è come se ci togliesse quelle lenti rassicuranti per mostrarci impietosamente tutte le distorsioni che non vediamo.
Ecco, abbiamo detto queste cose non semplici da mandare giù. L’abbiamo fatto con un bicchiere di birra in mano e sfiorando a volte il cazzeggio, ma con una serietà di fondo. Alla fine mi/ci si è avvicinato un ragazzo che ci ha fatto i complimenti per la mole di spunti sollevata, ha detto. “Ci sarebbe da stare qui per ore”, ha aggiunto. Ha tenuto a precisare che aveva anche capito “l’orientamento” (intendeva politico) e ha detto che lui non è affatto di sinistra (una parola che io tendo a non usare più, tanto si è consunta, nonostante sia convintissimo che la teoria della fine della distinzione destra/sinistra sia una panzana che vogliono inculcarci per fregarci una volta di più, ma anche questa è un’altra storia). Poi ha concluso così: “Mi ha molto colpito quando hai detto che voi quaranta-cinquantenni siete stati i primi a essere colpiti dal precariato, io ho 34 anni e pensavo che le prime vittime fossimo state noi. Allora ho pensato che abbiamo gli stessi problemi e dovremmo affrontarli insieme, ed è strano che se ne parli qui, dentro un pub, ma che la politica se ne freghi”. Gli ho risposto che è importante che se ne parli, comunque, “cominciamo da dentro un pub”. Lui ha convenuto, facendomi capire (o io ho voluto intendere così) che per quell’ora e mezzo si è sentito meno solo. Poi ha chiosato: “Sì, dobbiamo parlarne”. Ecco, la considero una cosa importante. Penso che si possa parlare, dire le cose, farsi capire da chi non è del tuo stesso “orientamento” e generazione. È stata una lezione che peraltro conoscevo già. È stata una conferma, diciamo. Dobbiamo parlarci, dire le cose, dismettere armamentari che sono d’ostacolo a un movimento agile per arrivare a farsi capire da un ragazzo più giovane, che non ha il tuo “orientamento” e al quale hanno fatto credere di essere solo, il primo a esserci cascato, e magari pure responsabile egli stesso del suo precariato esistenziale. Riuscire a farlo, anche con uno solo, dà gioia.
Nessun commento:
Posta un commento