lunedì 8 febbraio 2016

Gianni Maroccolo e noi

Ero tra i fortunati in platea al Teatro Studio di Scandicci, l'altra sera, per la prima di “Nulla è andato perso”, lo spettacolo in musica che celebra i trent'anni di attività di Gianni Maroccolo. Spettacolo in musica, sì, ché concerto - per quanto uno di concerti bellissimi ne possa aver visti a decine – è riduttivo. Ma non è della qualità dello show che mi preme parlare qui. Una performance che mescola trent'anni di musica, suggestioni, colori, atmosfere partoriti con persone diverse, alcune delle quali entrate nel palco-non palco del teatro (non c'era alcuna differenza di altezza tra musicisti e platea, non per egualitarismo inopportuno tra artisti e pubblico, ma quasi un invito a respirare insieme, o almeno a me piace pensarla così); una performance così, dicevo, che mette insieme tutta questa roba diversa come se fosse un disco uscito ieri, non ha bisogno dell'ennesima recensione che ne esalti la magia. E poi non sarei credibile. Maroccolo è clamorosamente presente in tutta la musica italiana di cui sono tuttora estasiato fruitore. Quella musica che - dipende da come la vivi, ma quando incappi in certi fenomeni a una certa età può capitare - non è esagerato dire che ti cambia la vita. Nel senso che, insieme a mille altre cose che entrano nel tuo frullatore esistenziale, ti porta a guardare le cose da un punto di vista spesso ostinatamente alternativo, a volere altro da quello che ti si propone davanti, a essere insopportabilmente snob, a volte, perché tu non ascolti, non guardi, non leggi quello che tutti hanno a portata di mano. A prendere strade troppo poco battute, a volte; ma proprio per questo a scovare perle, se sei fortunato. Ecco, insomma, uno che ha suonato nei primi tre dischi dei Litfiba, che poi ha dato vita ai Csi, che ha prodotto il primo cd dei Marlene Kuntz, che ha concepito una gemma come Acau, è del tutto plausibile che incarni qualcosa che va anche oltre la musica. E l'altra sera ho capito, o meglio, credo di aver messo meglio a fuoco perché. Che poi è semplice.

È che Maroccolo è un artista vero. Ce ne sono tanti. Ma seguendo il suo percorso, che si è manifestato in tutta la sua intensità l'altra sera - per le cose suonate, per come le ha suonate, per le persone con cui ha scelto di suonarle, per le cose dette con un filo di voce e con un curioso misto di ritrosia e voglia di manifestarsi - a me questa cosa che ho sempre pensato, è apparsa ancora più nitida e con una sua peculiarità. Ora però occorre chiarirsi sulla locuzione “artista vero”. Ce ne sono tanti, accennavo, di artisti veri. Molti di successo, altri condannati all'oscurità. Maroccolo sta nel mezzo. Non per un malinteso senso di medietà, sia chiaro. Ma perché lui è riuscito ad essere un musicista di un qualche successo senza mai concedere nulla agli affari che girano intorno all'arte. Si percepisce, si respira, ascoltandolo, che Maroccolo crede in tutto quello che fa e che ha fatto. Che non c'è nulla che faccia perché pensa possa piacere ad altri: il primo a cui devono piacere le sue cose è egli stesso. Potrà sembrare una banalità, ma di compromessi al ribasso per allargare il proprio pubblico è innervata la storia di qualsiasi arte. Maroccolo lo sa solo lui, ma credo davvero non ne abbia mai fatti, o se non altro non ne ha fatti di esiziali. L'artistone di successo (non faccio nomi per non urtare sensibilità, non degli artistoni che ovviamente non mi leggono, ma dei loro fan) ha la sua immagine, ha i suoi cliché che consapevolmente o meno riconferma. E fa successo. E tiene alto il mito. Fa successo, ed è un successo basato sulla qualità, per carità, ma che occhieggia anche al compromesso. All'opposto sta l'artista così coriacemente artista, così lontano dal percepire comune e dall'accordo col mainstream, che è magari costretto a fare altro per guadagnarsi da vivere, poiché non riesce a instaurare canali di comunicazione con un pubblico abbastanza ampio da poter vivere della sua arte. Maroccolo appartiene a quella schiera di grandissimi baciati dalla grazia di poter vivere della propria arte pur non avendola mai (mai) svenduta.

Ed è - qui sta il punto - questo stato di grazia ad avergli dato l'importanza che ha per il rock italiano tutto e per la platea piccola o numerosa che lo segue. È avendo fatto emergere da una tale profondità le sue produzioni, è avendole protette dalla corruzione ed essendo stato bene attento a preservarne l'intimità; è avendo scelto ogni volta la sua arte, che Maroccolo ha potuto dare le cose dell'importanza che ha dato. Viceversa sarebbe stato un bassista/musicista come tanti. Magari con un conto in banca più cospicuo, e anche più conosciuto, ma senza alcuna traccia lasciata dietro di sé. Buono per tre minuti di radio. No. È questo dar vita ai sentimenti che ha reso Maroccolo l'artista che è. Uno di spicco, pur essendo rimasto sempre dietro, sulle migliaia di palchi calcati a ruminare note e a consumare la vernice del suo basso (sempre quello, da decenni). Perché quando ascolti le cose che fa, se hai la fortuna di stare in sintonia con lui, sai che quelle cose sono frutto dell'arte, non del compromesso. Quindi autentiche, piene. Ed è per questa autenticità profondissima che si è potuto permettere di dare al suo spettacolo quel titolo: “Nulla è andato perso”. Dalla cantina di via dei Bardi, a Firenze, dove fondeva gli amplificatori insieme a quelli che avrebbero dato vita alla band più importante della new wave italiana fino al viaggio col compianto Claudio Rocchi. Nulla è andato perso per uno che ha sempre curato i canali che s'instauravano con le persone con cui si è messo a suonare. “Perché la musica se non la condividi non ha senso”, dice lui, ma la devi condividere con le persone giuste. Questo Maroccolo l'ha sempre saputo. E ci regala un esempio di fedeltà a se stessi tanto più pregnante in un mondo dove la regola è l'auto-amputazione, il compromesso al ribasso che ricaccia indietro e non consente di guardare lontano, ma al massimo di sopravvivere (e neanche tanto bene). Maroccolo insomma, questa è la sua grandezza che va ben al di là della musica, restituisce non solo la dignità, ma l'importanza ai sogni. Senza il nutrimento dei quali le cose che facciamo sono destinate a perire in fretta, a rimanere in superficie, a non lasciare segni perché prive di anima. Magari più facili e più adatte a piacere di più. Ma deprivate.

giovedì 28 gennaio 2016

La memoria ci fa buoni

C'è da sfidare accuse di vilipendio e di una qualche possibile lesa maestà, ma c'è del fondamento a sostenere che dietro la Giornata della Memoria si nasconde un bluff nel quale peraltro cadiamo volentieri. Tranquilli. Niente accuse di complotti giudaici, niente piatti usurati di bilance su cui mettere i morti di una parte e quelli dell'altra dell'infinito conflitto israelo-palestinese. E ancora, tranquilli: è stata sacrosanta l'istituzione della Giornata della Memoria e resta sacrosanta la sua celebrazione, ma ciò non toglie che sia un bluff; dirlo significa voler bene alla Giornata della Memoria, volerne serbare il cuore, non il contrario.

La Giornata della Memoria, la consacrazione di un giorno al ricordo dell'Olocausto, come tutti i riti, serve. Intanto a comunicare a bambini e ragazzi che c'è stato l'Olocausto. Serve a vederli uscire da scuola - se hanno avuto la fortuna di incappare in insegnanti decenti - con la faccia contratta e sentirli dirti: "Abbiamo parlato dei campi di concentramento". Serve a far muovere loro i primi passi nel confronto con gli abissi di cui l'umano è capace nella speranza che nella loro vita sceglieranno di colmarli con atti concreti, quegli abissi. Serve, può servire, a noi adulti a farci vergognare almeno un po' dell'utilizzo come epiteti di rabbino, zingaro, frocio, mentre per un giorno ricordiamo che furono le tre categorie principali che affollarono i campi di concentramento.

Poi però, comincia il bluff della memoria. Perché l'Olocausto, come tutte le pulizie etniche, aggiunge al fatto di essere un crimine quello di essere stato calcolato e seriale e, nel caso specifico, messo in atto da uno Stato. Non un omicidio, non l'uccisione di un nemico, non l'isolato gesto di un folle. Ma più di tutto questo messo insieme, portato avanti nel tempo con intelligenza e grande dispiego di risorse. E ciò, nella sua immanità, lo rende ineguagliabile e schiaccia tutti gli altri crimini, tutte le altre tragedie in posizione secondaria, li fa un po' meno gravi.

Ed è proprio nel rendere tutti gli altri abissi provocati dalla nostra umanità claudicante meno profondi che l'Olocausto, o meglio, la sua memoria, ci fornisce un alibi formidabile: noi non saremo mai capaci di renderci complici di una cosa del genere, noi non faremo mai una cosa del genere. Una cosa del genere è praticamente irripetibile e quindi noi ne siamo al riparo. È così che noi, ricordando l'Olocausto diventiamo più buoni.

Non solo. Qualsiasi dramma e/o tragedia, essendo non così grave come l'Olocausto, diventa non meritevole di attenzioni urgenti. Così abbiamo l'alibi non solo per non far nulla di fronte alla strage di persone che si giocano la vita pur di tentare di venire a migliorarla qua da noi; ma anche per discettare amabilmente mentre affogano o vengono torturate e violentate sull'altra sponda del Mediterraneo su come "regolare i loro flussi", manco si trattasse della pressione dell'acqua, perché "non si può mettere a repentaglio la nostra vita quotidiana". E quando qualche inguaribile utopista fa notare che il nostro è un atteggiamento disumano, ci solleviamo dinanzi alle argomentazioni dell'intellettuale realista di turno che ci toglie d'impaccio suggerendo che la storia, ahinoi, è costellata di sangue e tragedie e che gli Stati sono nati per difendere gli interessi dei propri cittadini eccetera... E anzi, le facciamo nostre quelle argomentazioni, nei dibattiti da social network o da salotto borghese in sedicesimi. E, ancora una volta, ci sentiamo buoni, sollevati da responsabilità che non ci riguardano, convinti di stare nel giusto. Però, permettete: un conto è parlare delle tragedie passate o di quelle attuali di cui non sappiamo; un conto è parlare di ciò che ci accade sotto gli occhi in termini di vita, tra una imprescindibile dichiarazione di Renzi e un anatema di Grillo.

Ora, per smascherare il bluff della Giornata della Memoria ci sarebbe da non trasformarla in esercizio di esorcismo, ma in presa in carico di responsabilità. Non serve a progredire specchiarsi nel male assoluto per dirsi: io sono meglio. Occorre piuttosto dirsi e dirci: che cazzo sta succedendo e perché? Perché la vita umana è diventata importante quanto lo spread, anzi meno? Perché le risorse pubbliche possono salvare banche e non vite umane? Perché? Ci condanneremmo a cercare risposte e forse ci sentiremmo meno buoni, meno rassicurati e così miglioreremmo. O forse no. Continueremmo a fare sermoni su quanto erano cattivi i nazisti e quanto oggi siamo progrediti noi.