martedì 30 ottobre 2012

Io e te

Un artista ti riporta alla vita. Alla sua radice inesplicabile. Alla tensione infinita, divaricante e mortale che la sottende. Questo ti può capitare di pensare quando esci dalla sala dove hai appena visto "Io e te". Questo ti può capitare di pensare, soprattutto, se hai preferito il cinema alla tv del "Grande commento", nella sera in cui il caos si è materializzato sotto forma di risultati elettorali. Questo ti capita di pensare quando esci e ti appare nitido quello che normalmente è sfocato. E diventi capace di misurare alla perfezione la distanza tra il reale e l'irreale paccottiglia che lo sovrasta e che scambiamo per realtà. Perché c'è (quasi) tutto quello che conta dentro "Io e te": il singhiozzo della vita e lo spettro della morte che l'accompagna; la tentazione del guscio che ci protegge e ci indebolisce al tempo stesso; il vuoto davanti che si riempie di cose che non capiamo e ci calamitano, il mistero della fratellanza e della sorellanza, e della genitorialità. Tutti ingredienti che rendono il film di Bertolucci "assoluto", sciolto dal tempo in cui è stato partorito. E che ne fanno un'opera all'altezza (e forse di più) del gran libro di Niccolò Ammaniti che l'ha originato. Sarà che nel libro, Ammaniti non ha potuto far cantare David Bowie. Poi esci dalla sala. E torni alla realtà.

venerdì 26 ottobre 2012

Lettera al manifesto (spedita da facebook)


Caro manifesto, in una volta sola compio due azioni che non faccio mai: scrivere di cose private, e per di più farlo sulla bacheca facebook altrui. Ma ne vale la pena, credo. Perché penso che nella sostanza la mia sia una vicenda accomunabile a quella di tanti altri, fatti salvi i miliardi di percorsi personali possibili. E forse sentirla ti può far bene in un momento come quello che stai passando.
Ti ho preso in mano la prima volta che erano gli anni ottanta. Ero un adolescente di provincia che voleva fare il giornalista. Lo desideravo perché convinto che far sapere alle persone cose che normalmente vengono taciute fosse un modo per cambiare il mondo in meglio. Sei diventato, stavo per dire il mio giornale. Invece sei stato molto di più. Dai miei genitori privatamente e da te pubblicamente ho imparato (credo fosse un editorale di Luigi Pintor all'indomani di una delle tante sconfitte elettorali) che quando le cose vanno male la prima azione che devi fare è domandarti dove stai sbagliando. Attraverso te ho saputo che il senso dell'utopia è spostare l'orizzonte avanti e tentare di raggiungerlo, e quindi camminare. Attraverso Pintor ho capito che un articolo si può sempre asciugare, e ne guadagna. E ricordo ancora quando la mia prima lettura mattutina era il mattinale di Norma Rangeri. Mi sono innamorato e nutrito degli affreschi sociali delle cronache delle manifestazioni che faceva Pierluigi Sullo, della lucidità di Rossana Rossanda e Ida Dominijanni; ho fatto tesoro degli inviti alla lettura di Benedetto Vecchi e della capacità di analisi di Marco D'Eramo, godo ancora con Jena-Barenghi, giusto per dirti i primi tra i tanti che mi vengono in mente. Sei stato per anni un compagno con cui andavo d'accordo su quasi tutto. Mi hai insegnato la libertà, il valore del dissenso, altro che socialismo reale (pensa: tu che volevi uscire dall'orbita sovietica e ancora ti dici comunista e gli altri che c'erano rimasti dentro e hanno cambiato tre volte nome!). Ma non ho mai conosciuto personalmente i tuoi giornalisti benché li ammirassi incondizionatamente. Troppo grandi per me, pensavo anche quando li ho avuti a portata di mano. E dire che volevo fare il giornalista da te. Nel frattempo giornalista lo sono diventato. Anche grazie alla cassetta degli attrezzi di cui tu inconsapevolmente mi hai fatto dono, che va bene anche per la provincia nella quale sono rimasto. Nel tempo sono venuto trovando diversi punti di disaccordo con te e da parecchio ormai, ovviamente, non sei più l'unico quotidiano che leggo. Ma, questo voglio dirti, anche se non mi appari più come il “genitore” che eri, continuo a trarre da te spunti introvabili altrove. E, mi perdonino i colleghi che li fanno e i lettori che li comprano, non c'è un giornale come te: libero e dunque credibile. Perché sono libere le persone che ti fanno. Perché ti fanno e ne detengono la proprietà contemporaneamente, questo è il punto. Non so come si metteranno le cose per te. Ovviamente spero il meglio. Ho scritto queste righe perché tu sappia quanto vali. E non posso ovviamente dire al collettivo di smetterla di litigare. Anzi: discutete, liberi. Però fate in modo che la vostra esperienza continui. Sapendo che in molti saranno ben contenti di darvi una mano. E non vi perdonerebbero se le vostre divisioni mettessero a repentaglio una voce come non ce ne sono. E, se sparite, non ce ne saranno.
Ciao, buona vita

lunedì 22 ottobre 2012

Come prima, più di prima

Per chi ha avuto l'opportunità di vivere in diretta la prima tangentopoli di vent'anni fa, la tentazione di fare dei parallelismi con la situazione attuale è troppo forte. E in effetti, fatti salvi un mondo completamente diverso (lì si scongelava la guerra fredda, qui la finanza cancella la politica) e un panorama politico differente (lì la Lega e l'astro nascente Berlusconi, qui il Movimento cinque stelle), la sensazione è di vivere un altro momento che in superficie appare rivoluzionario ma che se vai a guardare un po' più a fondo ha tutte le caratteristiche per diventare l'ennesimo flop. Perché? Perché quello che neanche in apparenza è cambiato è la ggente. Vent'anni fa lo scioglimento dei ghiacciai che avevano diviso i due blocchi faceva da prologo alla globalizzazione di cui la finanza al governo planetario è oggi la conseguenza. Vent'anni fa - potrà apparire un falso storico ai più giovani, ma abbiate fiducia: basta che andiate a leggere i giornali del tempo - la Lega e Berlusconi erano dalla parte dei giudici e reclamavano il "piazza pulita", così come il Movimento cinque stelle oggi. L'unica cosa che non è cambiata, neanche in superficie, è la collera popolare della ggente. Dove ci ha portato quella collera che vent'anni fa sembrava essere il propellente per un passaggio storico lo sappiamo: avevamo Forlani ed è arrivato il bunga-bunga, Craxi ha lasciato spazio a Fiorito. Dove ci porterà la collera attuale è a questo punto immaginabile. Perché la veemenza, a tratti plebea, della protesta è inversamente proporzionale alla capacità di andare alle radici delle questioni. Stiamo dentro una crisi che porta le vendite di auto a percentuali negative a doppia cifra, a Taranto si registrano morti per tumore da far accapponare la pelle; la capacità produttiva ipertrofica e dannosa di un sistema settato solo sulla quantità, insomma, non riesce a trovare sbocchi di mercato; in Europa invecchiamo assai più che negli altri continenti e investiamo meno in innovazione. E in questo tsunami noi ci preoccupiamo della tempesta nel bicchiere d'acqua: le indennità dei parlamentari, quanto rubano questi o quelli. Certo che occorre più morigeratezza nella vita pubblica. Certo che occorre far pagare i ladri. Ma non si può esaurire a quello un programma politico. E se ciò accade, e sta accadendo, la dice lunga sulla profondità di respiro di un'indignazione pronta a incarognirsi sul capro espiatorio di turno senza esigere, mettendosi anche in gioco in prima persona, un cambiamento che premi l'innovazione, la fantasia, il nuovo vero e non le scatole ridipinte con il nulla dentro. L'avremo, il capro espiatorio. Poi torneremo, anzi, continueremo a mangiare e respirare veleni, a produrre l'inutile e a farci togliere servizi perché ci diranno che ce lo chiede qualche entità inarrivabile cui non si può dire di no.

lunedì 15 ottobre 2012

Il vecchio Renzi

Una delle battute più applaudite ai suoi comizi 2.0 Matteo Renzi la ottiene così: fa abbassare le luci in platea e manda un video in cui un ingrigito D'Alema ospitato a "Otto e mezzo" sentenzia che se le primarie fossero vinte dal sindaco di Firenze "finirebbe il centrosinistra". Spento il video, riaccese le luci, Renzi riprende la parola e statuisce: "Se vinco le primarie io semmai finisce la carriera parlamentare di D'Alema". Giù applausi. Bene, nella battuta e negli applausi che la seguono ci sono lo spirito dei tempi, il capovolgimento di senso che ha già fatto strame della parola "riformismo", lo smarrimento cosmico di un popolo che vuole il nuovo ma abbraccia il vecchio. Perché in quelle poche parole Renzi rivela che se diventasse leader del centrosinistra, sarebbe lui a decidere chi far entrare in Parlamento. Esattamente come è avvenuto quattro anni fa con una legge elettorale esecrata anche da lui. Esattamente quello che ha fatto D'Alema, quattro anni fa insieme ai maggiorenti del suo partito. Esattamente quello che hanno fatto quattro anni fa i partiti che si stanno squagliando in questa coda ingloriosa di seconda Repubblica. Che D'Alema non rientri per l'ennesima volta in Parlamento è francamente questione secondaria. Ma la natura del "one man show" che Renzi sta portando in tour nei teatri e nelle tv dovrebbe se non preoccupare, far discutere chi, dopo anni di antiberlusconismo, potrebbe trovarsi a votare un Berlusconi ringiovanito senza bisogno di fare lifting. Il fatto che neanche D'Alema - che da settimane ci estenua ingaggiando un duello al giorno con il suo detrattore - abbia fatto notare la cosa all'opinione pubblica, è sintomatico di come la pratica della cooptazione sia consuetudinaria a quei piani alti della politica. Tanto consuetudinaria da non essere notata. Tanto consuetudinaria che il giovane Renzi c'ha già fatto il callo. Consuetudinaria come i capovolgimenti di senso che stanno inebetendo un'opinione pubblica sempre più debole. Che cerca una scatola nuova purchessia, senza curarsi di quello che c'è dentro.