Giorni fa è capitata una cosa che succede ciclicamente con persone con le quali c’è profonda stima reciproca e con le quali condivido parecchio, anche a livello di gusti musicali (la precisazione la capirete a breve). Com’è, come non è, si è andati a parlare di Madonna (la cantante) e si sono immediatamente ricreate le opposte fazioni di sempre. Da un lato chi, come me, sostiene che si sia trattato e si tratti di un fenomeno sovrapponibile al suo aspetto mercantile, con poco o niente da dire dal punto di vista strettamente artistico; dall’altro chi ribadisce invece che no, un fenomeno così esteso a livello planetario, così durevole nel tempo e così in grado di muovere masse di giovani non può essere derubricato a robetta. Al culmine della discussione, che diventa sempre assai accalorata, è scattata l’accusa fatidica, rivolta dai pro-Madonna agli anti madonnari: “Siete dei RADICAL-CHIC”.
Ecco, a me ‘sta cosa del radical chic mi fa schizzare per aria che nemmeno il sale messo per sbaglio dentro al caffè. Perché sì, ce l’ho il gusto di andarmi a cercare cose strane. Ma è perché penso che l’arte va cercata. E l’arte è la nemica giurata della banalità. Devi fare uno sforzo per arrivarci, non ti si manifesta così, immediata. E quando ci arrivi però, con un pezzo, con un quadro, con un fotogramma o con una foto godi e arrivi così in alto che neanche con il meglio di seicento canzoni di Madonna messo uno sopra l’altro ci arriveresti. È così. E poi è una questione di vibrazioni. A me Madonna non è che non piace perché voglio fare quello che ascolta solo roba ricercata, è che proprio non mi smuove niente. Ma niente proprio.
Mi piace “In fila per tre” di Edoardo Bennato, che dà gusto anche ai bambini di otto anni, e mi piacciono i Primus, che sono un po’ più ostici, per dire. Non cambio canale radio se capita un pezzo di Tiziano Ferro e c’ho più o meno la discografia completa di Nick Cave, e i due non oscillano proprio sulle stesse frequenze. Impazzisco per Edda ma non mi dispiace Harry Styles. Se la gran parte di quello che passa nelle radio commerciali non mi piace non è per partito preso. È che non mi piace proprio, non mi arriva.
Poi è successa una cosa alla fine della quale mi sono detto: sì, con lui sei stato radical chic, e forse, chissà?, anche con altri (no, su Madonna non mi ricredo). Sono andato a un concerto di Caparezza, artista nei confronti del cui successo ho sempre un po’ arricciato il naso per quel vezzo che uno come me ha (l’ammetto) di guardare storto chi fa successo facile. Il ragionamento è un po’ questo: hai fatto successo quasi subito, piaci ai ragazzini, per cui devi dimostrarmelo di essere bravo. Solo che se non ti metti lì ad ascoltare i suoi pezzi o ad andare a uno dei suoi concerti, quello come fa a dimostrarti qualcosa? E ho scoperto che Caparezza e quelli che stanno con lui sul palco e fuori sono bravi ma bravi. E che lui ha fatto successo, ma non grazie alla banalità. Caparezza ti esalta la libertà non parlando di Martin Luther King o di Mandela, ma di Van Gogh, che in vita sua ha dipinto 900 quadri riuscendo a venderne uno soltanto senza però mai abdicare alla propria arte, cioè a se stesso. Caparezza ti esalta il ‘68 (sì, il ‘68!) sfidando, aggirandola, la trappola della retorica. Caparezza ti ribadisce ogni 3x2 quanto sei prigioniero per spingerti a cercare la liberazione. Caparezza canta “Io vengo dalla luna” dopo essersi augurato che venga un tempo in cui non ci sarà più necessità di cantarla. E fa tutto questo, Caparezza, a beneficio di un pubblico che non è quello degli iniziati, lo fa per orecchie che sono abituate ad altro e potrebbero cadere preda di chi gli canta “Prima gli italiani”. È un controcanto pop sacrosanto, vitale, Caparezza, che toccherebbe fargli un monumento. E non è per niente banale. Cerca, ricerca e spinge alla ricerca con levità. Mia figlia, tredici anni, all’uscita dal concerto, per dire, mi ha chiesto: “Com’è ‘sta cosa del ‘68?”.
Viva Caparezza. Dice: adesso l’hai capito? Beh, ognuno hai suoi momenti di radicalismo chic.
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