Don Leonello è una di quelle persone che mi aprono una vergogna professionale di una certa profondità. Don Leonello è morto l’11 novembre per covid, leggo. Da tempo non era più sotto i riflettori. La curia, la diocesi, o chi per loro - non mi intendo molto di questioni religiose - aveva contribuito a questa fuoriuscita soft dopo che per anni lui, nel quartiere della Pallotta, a Perugia, si era dato da fare ventiquattr’ore al giorno per dare una mano a chi una mano non la dava nessuno.
Aveva una casa, don Leonello, dove ospitava chi arrivava da paesi lontani in cerca di una vita migliore e trovava solo porte in faccia. Non chiedeva nulla osta, documenti o lasciapassare, don Leonello: gli bastava la patente di essere umano per attivarsi. Questa sua ospitalità a un certo punto aveva cominciato a suscitare i pruriti di qualcuno: neo o post fascisti, benpensanti e varia umanità. Così don Leonello cominciò a essere trascinato sulle pagine della stampa locale. Sempre da chi disapprovava la sua mano tesa nei confronti degli ultimi. E lui doveva difendersi ricorrendo ad argomenti ovvi come l’umanità che diventavano però argomento di discussione: c’erano i “contro”, e c’era lui, che era “pro”. Perché la stampa locale non poteva schierarsi tra l’umanità e i pruriti disumani, si doveva rimanere equidistanti, per quello strano senso di “autonomia” che attanaglia i giornalisti quando non giudicano conveniente schierarsi contro una maggioranza disumana: ci voleva sempre un contraddittorio. E così le idee di don Leonello dovevano avere un contraltare. Come se si dovesse aprire un dibattito tra chi soccorre uno che stramazza a terra per strada e chi invece sostiene che chi stramazza a terra debba essere lasciato al suo destino. Facevamo così.
Ci metto la prima persona plurale perché io ai tempi lavoravo in un giornale locale, uno delle centinaia che hanno cessato le pubblicazioni in questi anni. E guai a raccontare don Leonello “liscio”. No. Occorreva metterlo sempre a confronto con la disumanità che gli si opponeva. Perché era “scomodo”, in un mondo in cui pur di stare comodi si rinuncia a se stessi. La mia vergogna è di non avere trovato la forza necessaria di incazzarmi seriamente, in una redazione molto conformista, per rompere quella cortina insopportabile e dire che don Leonello andava raccontato così, “liscio”, senza controbilanciamenti disumani, senza ipocrisie pelose mascherate da “equidistanza”.
Questo vorrebbe essere il mio omaggio postumo, che come tutte le cose postume, non serve a niente, se non a illudersi di aver pulito un po’ dello sporco sulla coscienza. Ciao, don Leonello, schifami pure, ne hai tutti i diritti.
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