giovedì 11 gennaio 2018
Un pippone per addetti ai lavori. Anzi, no
Però, una volta finito, mi sento come se avessi letto dell’ultimo flirt di Valeria Marini, o di quanto fa dimagrire l’ananas preso alle otto di mattina ma solo se condito con succo di mirtillo biologico proveniente dalla Valcamonica. Come se avessi fumato una sigaretta, che per fortuna ho smesso. Che ti dà una sigaretta? Niente. Ma proprio niente. Eppure tu te la fumi convinto che ti faccia calmare, che ti faccia andare al bagno, che ti rilassi, che ti aiuti a concentrarti, che ti faccia addormentare meglio. Tutte cazzate. Però tu non lo vuoi ammettere perché c’hai il vizio, solo che il vizio lo devi giustificare. E allora, giù cazzate.
Non dicono niente, questi articoli. Soprattutto considerando che alla fine di questo mese sapremo quali saranno i candidati ufficiali, quelli veri, che potremo andare a votare, se lo vorremo. Ma nel frattempo leggiamo ‘ste cose che non dicono niente, però soddisfano la voglia recondita di ognuno di noi di guardare dal buco della serratura. Sì, perché sapere che Gedeone Acchiappavoti (forse) ha telefonato a Giovane Vecchio e che insieme si sono messi d’accordo contro Anselmo Parrucconi, ci fa sentire più importanti, come se fossimo messi al corrente di un segreto, anche se il segreto è farlocco, anche se ciò non aggiunge niente alla nostra capacità critica di discernimento del candidato da votare.
Vengono inseriti sotto la categoria politica, questi articoli, quando andrebbero classificati come gossip, che almeno uno lo saprebbe quello che va a leggere. Invece no, ci si dà un tono, una scusa: “politica” (vedi alla voce “la sigaretta mi fa digerire”), anche se non c’è scritto niente che sia politica, cioè costruzione di cose che interessano alla comunità. Però, appunto, li leggiamo, anche se non ci lasciano nulla. E chi li scrive spesso si sente importante perché lui è il propalatore del segreto, che tra venti giorni non sarà più segreto.
Uno dei suggerimenti che Peter Laufer, docente all’Università dell’Oregon e fautore delle slow news, dà nel suo libro che s’intitola proprio “Slow news”, è questo: “Le non notizie presentate da notizie sono ancora più importanti da ignorare”. Ecco, questi pastoni sono non-notizie, presentati però come rivelazioni imprescindibili. E tenuto conto che tra venti giorni avremo sotto gli occhi gli elenchi dei candidati veri, quanto senso ha dedicare tempo alla lettura di questi articoli? Non sarebbe meglio leggersi, che ne so, “La Luna e i falò”, di Pavese?, uno qualsiasi dei libri di John Fante? Non sarebbe meglio andare a vedere “Corpo e anima” al cinema? Roba che la sera quando stai per addormentarti ci ripensi, e la mattina quando prendi il primo caffè ci ripensi ancora, che è segno che è roba che ti è entrata dentro. Invece, diciamoci la verità, ma chi ci pensa ad Anselmo Parrucconi, a Giovane Vecchio, a Gedeone Acchiappavoti, a Guidubaldo d’Amelia? E però leggiamo, gli diamo importanza, guardiamo dal buco della serratura convinti di entrare nella ristretta cerchia degli iniziati che sanno i segreti. E però ci lamentiamo dei giornali e dei giornalisti. Ma dei lettori mai. Che certi articoli, se non venissero letti, alla fine si smetterebbe pure di scriverli.
venerdì 2 aprile 2010
Farsi capire
martedì 2 giugno 2009
Gino e la sinistra
lunedì 9 marzo 2009
I segni del Tremonti
mercoledì 23 aprile 2008
No future
Il punto dal quale è probabilmente più opportuno partire è l'appiattimento progressivo della dimensione del futuro e le conseguenze devastanti che tutto ciò ha avuto per chi politicamente si propone un orizzonte di modifica dello stato di cose presenti. I componenti della gioiosa "macchina da guerra" che nel 1994 cozzò contro l'allora Polo delle libertà si dettero il nome di "Progressisti". Ancora, la campagna elettorale di Veltroni è stata tutta proiettata nel futuro: "cambiate pagina", "mettiamoci alle spalle questi ultimi 14 anni". Sono stati questi i motivi dominanti. Bertinotti addirittura, esortava a votare Sinistra arcobaleno per fare un "investimento per il futuro". Ma è proprio storicamente che la sinistra si è presentata come il futuro, come il miglioramento delle condizioni presenti. E il futuro è stato visto per generazioni, almeno per tutto il Novecento, come un tempo che sarebbe stato migliore del presente e sul quale conveniva investire, appunto. Ora non è più così. Questa cosa di Massimo Gramellini scritta sulla Stampa e linkata da questo blog l'ultimo giorno dell'anno scorso aiuta molto a capire cosa il futuro è diventato per noi occidentali: non più un orizzonte aperto ma una sorta di imbuto in cui si intruppano le paure e i contorcimenti di una civiltà che bada di gran lunga più alla difesa dell'acquisito che alla realizzazione di altro. Ciò accade in parte per la raggiunta saturazione di beni materiali spesso inutili e dannosi (inutensili, come li chiama uno dei protagonisti di "Guerra agli umani"). Ma anche e soprattutto per la scomparsa dall'immaginario collettivo di un qualsiasi anelito a un’esperienza diversa da quella del produci-consuma-crepa (perdonate la semplificazione, ma almeno ci si capisce). Fenomeni questi, in cui si è innestato quel frullatore chiamato globalizzazione di cui le pasciute società occidentali beneficiano materialmente per molti versi, ma che repellono quando vengono messi a repentaglio confini (geografici e non solo) che si vorrebbero immutabili. Mancanza di futuro e paure, rendono il presente e ciò che lo caratterizza come l'età dell'oro da difendere con le unghie e con i denti e contro chiunque. Si allentano i vincoli di solidarietà: non è affatto verosimile che
Se il futuro è una dimensione che più che attrarre incute timore e se la difesa è la sola politica che conta, il presente diventa l’unica dimensione di vita. Avendo smarrito la prospettiva lunga, le decisioni devono essere prese qui e ora, senza discussioni percepite come inutili e dannose. Non ci sono i problemi, risolubili con strategie di ampio respiro, esistono solo le emergenze da stroncare, costi quel che costi, con un’efficienza che viene misurata solo con la categoria del tempo e quasi mai della profondità. Perciò occorre semplificare e ridurre possibilmente ai minimi termini qualità e quantità del dibattito. Anche in questo scenario siamo in un mare ostico per chi è nato storicamente per dare voce alle moltitudini ed è quasi ontologicamente contrario alla voce unica del decisore, divenuta invece una sorta di feticcio delle democrazie.
A tutto ciò, si aggiunge quel trionfo della moltitudine di cui si è parlato qui e che è quindi pleonastico ribadire.
Questi sono parte dei problemi che potrebbero spiegare il tracollo di una parte politica. Che fare per adeguare strumenti al fine di coronare la strategia di chi dovrebbe avere come stelle polari l’allargamento della partecipazione consapevole, l’inclusione, l’orizzontalità piuttosto che la verticalità? E’ questa la domanda a cui al momento non si scorge nessuno in grado di dare risposte convincenti. Di certo, l’ultima cosa da fare è quella predicata da qualche opinionista di grido: quella di seguire, assecondandola, una maggioranza che muore di paura se s’imbatte in un campo rom ma si volta dall’altra parte – tanto per fare due esempi a caso - se gli si racconta che i metodi di coltivazione convenzionali stanno pericolosamente impoverendo il patrimonio genetico della Terra o che comperare acqua, per di più imbottigliata in vuoti rigorosamente a perdere, è un atto autolesionista. E però, non assecondarla, la maggioranza, non vuol dire non considerarla o, peggio, snobbarla. Anche se farci i conti, per di più nel mare che si ha attorno, è di una fatica tremenda.
La Stampa, Wu ming foundation, Bollati Boringhieri