venerdì 3 novembre 2017

Cose piccole che fanno capire quelle grandi

Nella regione in cui abito, le Asl hanno inviato alle famiglie in cui vivono minori un documento che certifica se si è in regola con le vaccinazioni obbligatorie. La misura è stata predisposta all’indomani dell’approvazione del decreto sui vaccini, che prevede sanzioni per i genitori che non sottopongono i figli alla somministrazione. Si tratta di un foglio A4, che presumo sia la stampa di un documento digitalizzato. L’assessore regionale alla sanità ha prima annunciato l’avvio e poi comunicato la conclusione delle operazioni di invio con toni al limite del trionfalistico, come se fosse stata fatta una cosa davvero innovativa. Probabilmente ne è convinto. E forse ci sono state regioni che hanno lasciato i genitori a se stessi, sballottandoli da un ufficio all’altro in cerca del foglio che certificasse la regolarità delle vaccinazioni dei propri figli da consegnare poi alla scuola. E se così fosse, l’Umbria sarebbe davvero all’avanguardia.

Ma questa vicenda è una metafora dell’ottusità della burocrazia e di chi la sovraintende. In questo l’assessore umbro c’entra poco, perché è uno degli ultimi anelli della catena. Però questa storia spiega come basterebbe poco per evitare di aggravare i cittadini con pesi inutili. E come a volte le cose prendono una direzione sballata. Così sballata da giustificare i trionfalismi quando ci sarebbe da sbattere sconsolati la testa contro il muro per l’arretratezza in cui affondiamo.

Le amministrazioni pubbliche sono spesso protagoniste di convegni estenuanti su “industria 4.0”, “internet delle cose”, “autostrade informatiche”, innovazioni che rimangono sempre più spesso sulla carta e futurismi vari. Ora va anche di moda dichiarare di puntare a far diventare i territori “business friendly” (che poi non si capisce: primo, perché si usa l’inglese per dire una cosa che si può benissimo illustrare in italiano; secondo, perché non si pensi prima a far diventare i territori amici delle persone che li abitano, invece che del business, ma questo è un altro paio di maniche). Insomma, il bla bla regna sovrano. Però, nell’epoca in cui si può progettare un qualsiasi oggetto al computer a Roma, spedire il relativo file mediante lo stesso computer per far stampare l’oggetto da una stampante 3D, che so?, a Seattle, noi stiamo qui ad annunciare trionfanti l’invio di 120 mila fogli A4 a famiglie che a loro volta li dovranno consegnare a scuola.

C’è più di qualcosa che non va. Ed è che nonostante i convegni sulle “autostrade informatiche” e via blaterando, le strutture pubbliche non dialogano fra di loro e comunicano con l’esterno in analogico, come se fossimo ancora negli anni settanta del novecento. Le Asl, invece di inviare decine di migliaia di lettere, avrebbero potuto individuare loro i casi di irregolarità e segnalarli direttamente alle scuole. O meglio, visto che quella dei vaccini è una questione prettamente sanitaria, sbrigare loro, le Asl, la faccenda, convocando le famiglie inadempienti, segnalandole a chi di dovere e, se del caso, avviando l’iter di somministrazione delle sanzioni. Perché coinvolgere le scuole, che avrebbero potuto essere chiamate in causa solo alla fine, quando cioè si fosse acclarato che ci sono minori non in regola con le vaccinazioni per poterle frequentare? Queste comunicazioni avrebbero potuto viaggiare tranquillamente per posta elettronica, e comunque, anche se fossero state spedite in analogico, sarebbero state molte di meno delle 120 mila inviate, la stragrande maggioranza a famiglie in regola con l’obbligo di vaccinazione; si calcola che in Umbria gli irregolari del vaccino siano il 5 per cento del totale, cioè seimila. Avremmo avuto quindi seimila messaggi di posta elettronica invece di 120 mila fogli di carta stampati da documenti digitalizzati, imbustati e spediti al costo di 85 centesimi l’uno. Infine: perché coinvolgere i genitori dei 114 mila alunni in regola? Perché costringerli a recarsi fisicamente nelle scuole frequentate dai loro figli per consegnare un foglio di carta che certifica il loro stare in regola? Perché, per di più, contribuire a 114 mila spostamenti di fatto inutili, molti dei quali in auto, contribuendo così a saturare ulteriormente il traffico delle città? Perché?

Perché la burocrazia è ottusa. E perché le cose prendono una piega così sballata, ma così sballata, che si usano toni trionfalistici quando si dovrebbe sbattere la testa contro il muro alla constatazione di tanta arretratezza. E dire che qui non si trattava di fare cose grandi, riforme o rivoluzioni, ma piccole, come far funzionare meglio le cose.

PS: da quanto mi hanno detto nella scuola frequentata da uno dei miei figli, nel momento in cui la segreteria individua casi di irregolari, deve comunicarlo alla Asl (che è quella che ha inviato le comunicazioni). Un capolavoro.

venerdì 6 ottobre 2017

Una sconcezza

La Nestlé, quella che si è comprata anni fa la fabbrica che produce i Baci Perugina, ha deciso che in quella fabbrica ci sono 340 dipendenti di troppo. Domani a Perugia ci sarà una manifestazione per dire che questa è una sconcezza. Io, per quello che vale, sarò lì in mezzo. Non ci sarebbe stato bisogno di scriverla, questa cosa. Perché quando una multinazionale con fatturato a diversi 0 se la prende con chi lavora è fin troppo semplice scegliere da che parte stare. Dovrebbe esserlo per la maggior parte delle persone, che a quanto mi risulta è costretta a lavorare per campare. L'ho scritto perché in troppi hanno perso qualsiasi bussola, e nel disorientamento confondono gli interessi di quelli come loro (di chi lavora per campare) con quelli di chi è così potente da drogare informazione e opinione pubblica. Domani mattina, chi può, resti sobrio, dica no agli intossicatori di opinione pubblica, e vada in piazza. Chi è lontano e non può, ricordi che più o meno è facile scegliersi la parte. A patto di rimanere sobri.

lunedì 18 settembre 2017

Devoti alla vittoria


Ciao, ragazzo che hai devoluto un po’ del tuo tempo per andare in giro ad attaccare questi manifesti. Ho fatto questa foto, te lo confesso, con l’intenzione di prenderti per il culo. Volevo dirti che se sei «devoto alla vittoria», come ti dichiari, allora ti stai sbagliando di brutto, a meno che tu intenda la vittoria come un ente sovranaturale, una sorta di dio la cui esistenza non è dimostrabile e che si percepisce solo con la fede. Se invece intendi la vittoria quella che si tocca con mano, quella quando esulti perché la tua squadra prende tre punti, quella quando riesci a debellare una malattia che ti stava minando la salute; beh, permettimi, stai proprio andando contromano. Perché il fascismo che ti attrae, in fatto di vittorie non è proprio ‘sto modello da seguire. Anche a voler considerare "vittorie" la presa del potere in Italia e la costituzione di un impero coloniale in Africa orientale, al netto delle violenze e dei massacri con cui tutto ciò è stato ottenuto, le sconfitte che sono seguite a quelle brevi stagioni sono state così definitive che ne abbiamo pagato per lungo tempo le conseguenze tutti, non solo i tuoi nonni e zii che marciavano col fez. Questo, ti volevo dire.

Poi ho pensato che tu ti consideri un rivoluzionario, se non sbaglio. E allora la cosa ha cominciato a quadrarmi ancora meno. Ma come, vuoi fare la rivoluzione e ti definisci «devoto alla vittoria»? Ma allora hai già vinto, la tua rivoluzione si è già compiuta! Sei già dentro un sistema in cui tutto è congegnato per vincere, e dove perdere è la peggiore delle iatture che possa capitare. Tutto qui, ragazzo, è pensato per fare gol, a prescindere; niente, o quasi, si fa perché lo si ritenga davvero necessario, giusto, opportuno. Tutte le azioni che non hanno almeno sulla carta una possibilità di riuscire sono considerate da sfigati. Tutto è volto a conquistare punti qui e ora, anche con un gol di mano, anche con un fallaccio all’avversario mentre l’arbitro non guarda. Sei nel regno in cui conta il quanto, non il come. Pensa, stai nel regno dei «devoti alla vittoria» e non te ne sei neanche accorto!

Ho pensato anche che la rivoluzione che tu, forse, vorresti è quella che impone il comando di uno e l’obbedienza dei restanti. Quella in cui il popolo che costituisce la nazione ha diritti superiori a chi da quel popolo e quella nazione è escluso. Ma hai anche questo, ragazzo! Di cosa ti lamenti? Fai uno sforzo per capire. Hai presente quando senti dire che «si attende la risposta dei mercati»? Ecco, significa che i governanti (che non contano niente, o quasi, nonostante quanto si possa credere a sentire giornali e tv) aspettano di vedere se i tassi di interesse sul debito pubblico (cioè sui soldi che lo stato prende in prestito dai mercati) si alzano o si abbassano dopo l’annuncio di una determinata legge o manovra finanziaria. Se “i mercati” giudicano la legge ok, acquistano i titoli di quello stato e fanno scendere i tassi di interesse; se per i mercati la legge non è ok, vendono i titoli di quello stato, e quello stato è costretto ad alzare il tasso di interesse, impoverendosi, per rendere più appetibili quei titoli e incassare soldi dai “mercati”. Ma “mercati”, nonostante sia un sostantivo plurale che lascia intendere "tanti" significa "pochi", "pochissimi" investitori, con tanti di quei soldi che tu non immagini, tanti di quei soldi da far oscillare, con un acquisto o una vendita, i tassi di interesse sui titoli di stato. È così che sono nati il jobs act, la cancellazione dell’articolo 18, la svendita inesorabile del patrimonio pubblico, la privatizzazione dell’acqua e chissà fra quanto magari anche dell’aria. Piacevano ai mercati. Eccolo realizzato in terra il regno in cui pochissimi eletti decidono e la stragrande maggioranza delle persone obbediscono. Come? Non ti basta? Tu vuoi proprio che uno e solo uno comandi? Ma guarda che la logica a cui rispondono i “mercati” è una e una soltanto: che i soldi si moltiplichino e creino altri soldi, a prescindere da qualsiasi vincolo. Ce l’hai, ragazzo, un comandante. Uno solo.

E anche popolo e nazione sono salvaguardati, ragazzo. Perché siccome la logica del mercato crea diversi squilibri e problemi per la moltitudine costretta ad obbedire, al popolo viene detto che non ce n’è per tutti, che occorre fare sacrifici. E allora il popolo, o meglio, la sua caricatura, punta a volersi assottigliare, getta quelle che considera zavorre a mare. Punta a fare in modo cioè che, essendo immutabili le dimensioni della torta, siano in meno quelli che se la devono dividere. Allora chi non fa parte del popolo e della nazione, non viene fatto votare, non gli si offre neanche il minimo per campare, viene escluso; si alzano muri per non farlo entrare. Così si offre una valvola di sfogo ai frustrati che stanno dentro, li si fa sentire più forti degli sfigati che rimangono fuori, e li si convince all’obbedienza, i frustrati.

Ci sei, quindi, ragazzo. Se sei devoto alla vittoria, se vuoi l’idea al comando e il popolo obbediente, ci sei dentro. La tua rivoluzione l’hanno già fatta per te.

Dovresti volere la rivoluzione se fossi non devoto alla vittoria ma al dubbio; se il come raggiungere un obiettivo fosse per te più importante del quanto riesci a conquistare; se considerassi gli uomini e le donne uguali a prescindere da dove nascono; se rifiutassi la logica dell’idea al comando e se rifiutassi sia il comando che l’obbedienza per abbracciare un concetto che è perdente, da sfigati: cooperare tra uguali. Per questo dovresti volere la rivoluzione.

Se sei devoto alla vittoria, no, ragazzo. Stai bene qui.

giovedì 14 settembre 2017

Colpa vostra

Stavolta è stata Noemi, giovanissima stroncata da un giovanissimo. E allora vi esercitate su quant'è difficile l'adolescenza, quanto pericolosa è la droga, quanto rincoglionisce la televisione (e però ne avete una per stanza). Ma ieri sarà stata, che ne so?, Laura, commessa quarantenne; l'altroieri Roberta, disoccupata di venticinque anni; l'altro giorno Monica, cinquantenne bancaria divorziata; e poi ci saranno state Tiziana, Simona, Kathleen, Shamira, Michela e tutte le violentate che non si sanno, non si conoscono perché non sporgono denuncia. Ma voi vi esercitate a dare spiegazioni, concentrandovi di volta in volta sul particolare che vi assolve, sottraendovi con agile maestria alla carezza del dubbio che possa essere anche colpa vostra, che non avete capito che c'è un problema tutto maschile (e in parte femminile, quando le donne assecondano) nella violenza tra generi.
Colpa vostra, che se una sceglie di vivere da sola è perché chissà quanto si diverte a letto e chissà con quanti;
colpa vostra, che se una cambia partner due volte in un anno vi sentite autorizzati a provarci anche pesantemente perché date per scontato che ve la dia;
colpa vostra, che se una la vedete due giorni di fila con due uomini diversi allora ha scopato con entrambi anche se magari uno era il fratello e l'altro un amico gay;
colpa vostra, che se una la vedete per due volte di fila con la stessa donna allora sono due lesbiche;
colpa vostra, perché non accettate che una possa fare il cazzo che le pare con chi vuole senza essere costretta a doversi giustificare;
colpa vostra, perché esistono LE rovinafamiglie, mai I rovinafamiglie;
colpa vostra, che educate le figlie ad accudire e i figli a essere accuditi;
colpa vostra, genitori che se a scuola propongono per i vostri figli un percorso di educazione di genere insorgete “perché a scuola si va per imparare le materie che stanno nel programma e non queste cazzate!” (e poi hai visto mai che con una cosa del genere vostro figlio vi diventa frocio?);
colpa vostra, professori che ve ne fottete di tutto quello che sta al di fuori del programma;
colpa vostra, direttori di giornale che arruolate la redattrice che giudicate più avvenente per un servizio importante, invitandola a sfoderare tutto il suo fascino per carpire la notizia al politico che sapete essere sensibile a certe cose;
colpa vostra, dirigenti d'azienda che invitate con una scusa qualsiasi la giovane neoassunta nel vostro ufficio per palparle il culo;
colpa vostra, femminelle che sfoderate la coscia e l'ammiccamento migliore col vostro capo per accattivarvelo;
colpa vostra, che augurate alla Boldrini di essere “stuprata da quattro negri” e quando succede che quattro neri violentano qualcuno allora vi indignate e date la colpa alla Boldrini “che li ha fatti entrare”;
colpa vostra, che le donne esistono solo se sono le vostre;
colpa vostra, che sono tutte puttane e proprio ieri sera avete pagato una disgraziata per scopare;
colpa vostra, che è sempre colpa degli altri, dei politici che eleggete, dei programmi televisivi che guardate;
colpa vostra, che vi sottraete alla carezza del dubbio e quando uno vi prende a schiaffi, come adesso, vi scandalizzate e gli puntate il dito contro: “Esagerato!”.

venerdì 8 settembre 2017

Il peggismo

Per converso, a rigor di logica, quelli che utilizzano l'aggettivo "buonista" come insulto, dovrebbero prediligere il cattivismo. E sono gli stessi che esecrano il "politicamente corretto", ed esaltano le riconquistate libertà di pensiero e di parola conculcate in decenni di oscurantismo "correttista", dando sfogo a opinioni ed espressioni di cui fino a qualche lustro fa ci si vergognava e si aveva pudore nell'esprimerle; perché erano socialmente deprecate (da una società buonista, politicamente correttista e, va da sé, a larga egemonia cattocomunista) e perché era quindi sconveniente manifestarle pubblicamente.
Alcuni esempi: i lavoratori rendono meglio se il loro posto non è a tempo indeterminato e se non hanno troppe garanzie, così la mancanza di sicurezza li porta a dare il meglio di sé; le donne è meglio se stanno a casa, ché se le assumi poi si mettono a fare figli e ti tocca pure pagargli la maternità; gli immigrati meglio costringerli a rimanere in Africa, magari pagando mercenari che li rinchiudano in campi di concentramento, piuttosto che accoglierli qui.
I rivalutatissimi e molto in voga cattivismo e politicamente scorretto, mescolati, danno dunque vita al "peggismo", cioè a una rivalutazione del brutto, anzi, all'ostentazione del brutto, dello scomodo, dello scadimento; all'esortazione ad abbandonare qualsiasi ricerca di miglioramenti con la giustificazione che questi sono impossibili da raggiungere, e che anzi anelare ad essi sia l'inizio della fine. Meglio accontentarsi, anzi puntare al peggio, che è garanzia di raggiungimento dell'obiettivo, perché se punti al meglio, è il sottinteso, rischi di perdere anche il poco che hai; non solo: di quel poco, conviene subito rinunciare a una parte per evitare ritorsioni da parte del destino (i peggisti ammantano tutto di fatalismo, non ci sono mai donne, uomini e interessi in gioco, ma forze che sono sovranaturali, e tutto non ha alternativa).
Si tratta di una tendenza che nonostante il livello altissimo di sadomasochismo sociale insito in essa, sta prendendo il sopravvento grazie alla raffinata regia e ai potentissimi mezzi dei pochi che guadagnano dalla sua propalazione, a una nutrita schiera di agit prop, e anche in virtù della apoditticità di cui è sapientemente ammantata ad arte, il che le conferisce un che di drammaticamente ineluttabile. È un capolavoro che porta all'accettazione da parte degli sfigati (una volta si sarebbe detto dei subalterni) della loro condizione come immutabile, naturalmente data; all'accettazione dell'invito a litigarsi le briciole con chi sta come e peggio di te. Una tendenza di cui si possono intravedere alcuni possibili sviluppi.
Meglio Gigi D'Alessio, molto più alla mano, che i Rolling Stones.
Meglio la pasta in bianco, più salutare, che la carbobara.
Più genuina Daniela Santanchè di quanto fosse Nilde Iotti, radical chic ante litteram.
Renzi capisce la società in cui vive meglio di quanto seppe fare Pietro Ingrao.
Fellini tutto sommato non è stato importante quanto Nando Cicero, che ha parlato agli italiani più veri e senza infingimenti intellettualoidi.
Pasolini? Che palle! Vuoi mettere Sgarbi?
Le ferie annoiano, meglio lavorare tutto l'anno.
"Il grande fratello" è più movimentato di Canzonissima.
Calcutta diverte, Nick Cave è deprimente.
Quando c'era lui, tutti filavano dritti (ah no, questa l'hanno sempre detta).

giovedì 10 agosto 2017

La risposta

Allora, giorni fa con un amico condividevamo questa cosa, ché siamo abbastanza grandi per ricordarla. Quando da piccoli ci spiegarono e fecero studiare cosa furono il nazismo, l'olocausto e il fascismo, noi, impressionati e in un'epoca in cui tutto l'orrore che ci raccontavano era più vicino cronologicamente ma assai più lontano come scenario realizzabile, ci chiedevamo spaesati come fosse stato possibile tutto quello sotto gli occhi, e spesso con il consenso a vari gradi e livelli, di milioni di persone.
Oggi purtroppo abbiamo la risposta in tempo reale con il rovesciamento dei significati delle parole, delle responsabilità, dello stesso senso dell'umano: chi cerca speranza giocandosi la vita e affrontando le peggiori vessazioni va lasciato alla sua sorte perché minaccerebbe la nostra (che poi è quella di sfigati sacrificati al precariato esistenziale) che stiamo sulla sponda fortunata del mare; chi salva vite è un "estremista umanitario", un sovversivo da perseguire perché in combutta coi delinquenti. Chi pensa, scrive e dice queste cose, oggi è un buonista, ieri era un disfattista, perché ogni epoca ha i suoi epiteti anche se la sostanza non cambia. Sembra quasi che Orwell abbia scritto 1984 guardandoci, leggendo gli editoriali che ci tocca leggere a noi, le dichiarazioni nauseabonde che ci vengono ammannite quotidianamente e a cui ci siamo assuefatti.
Cos'erano gli ebrei, gli oppositori politici ai nazifascisti, i gay e gli zingari, se non umani di serie B, pericolo di cui liberarsi come oggi lo sono i migranti?, cos'erano i partigiani se non banditen, come i valorosi che oggi salvano vite in mare e vengono sequestrati nei porti?, e cos'era chi rischiava la vita salvando vite, se non una minaccia da perseguire, risarcita solo poi con medaglie postume e intitolazioni di piazze e vie?
Il nazismo, il fascismo, l'olocausto non sono stati eventi improvvisi. Sono stati esito di processi covati per anni; di incapacità, di irresponsabilità delittuose di classi dirigenti e di un popolo trasformato in plebe aggressiva verso i deboli; di un progressivo scivolamento verso il basso che ha travolto di giorno in giorno, di atto in atto, di dichiarazione in dichiarazione, il senso della convivenza civile.
Oggi purtroppo, scivolando noi, abbiamo la risposta che da bambini e ragazzini non sapevamo darci. Ce l'abbiamo sotto gli occhi. E sarebbe il caso di tentare di mettere un freno alla slavina affinché tra qualche decennio, chi verrà, non si trovi ad abitare in via delle vittime della migrazione, o in via Medici senza frontiere, o magari in via dei buonisti.

sabato 10 giugno 2017

Perugia 1416, come una palma al polo nord


Questa rimarrebbe una storia di provincia, viste le quisquilie di cui si tratta, se non rappresentasse il sintomo più generale di una mancanza di prospettiva e profondità che ha assalito le amministrazioni a tutti i livelli, dal più basso al più alto.
Questa è la storia di un’amministrazione che governa un comune di 166 mila abitanti, la quale decide di investire una discreta somma di denaro su un evento che avrebbe lo scopo “di rafforzare l’identità della città di Perugia facendo leva sulla memoria del proprio passato per promuovere anche il proprio futuro” - come si legge nella delibera di giunta che ha assegnato lo scorso anno 100 mila euro a “Perugia 1416 – Passaggio tra Medioevo e Rinascimento”, un’associazione di cui lo stesso comune è tra i fondatori - per celebrare la città con appuntamenti di questo calibro (le citazioni sono testuali): “Scene di vita medievale”, “Spettacolo di spade infuocate”, “Santa Messa per i rionali con benedizione dello stendardo”, “Giochi di una volta”, cene rionali e “mostra-mercato degli antichi mestieri”.
Non ci sarebbe niente di male, se la questione investisse uno di quei paeselli che s’inventano anche la sagra dell’uomo ragno pur di racimolare qualche soldo e vedere qualche anima che venga da fuori a popolarli. E non ci sarebbe niente di male neanche se la cosa avvenisse a Perugia, ma fosse promossa solo da uno di quei gruppi col pallino delle rievocazioni.
Invece, per capire di cosa stiamo parlando, va divulgato a chi non lo sapesse che in questi giorni chi si trova a passare per la home del sito istituzionale del comune di Perugia, si trova in faccia la foto che vedete; ancora, tanto per capire, occorre sapere che oltre ai centomila euro devoluti all’associazione per l’organizzazione dell’evento, il Comune si è fatto carico quest’anno, finora, di altri 30 mila euro di spesa, impiegati per la stampa del materiale pubblicitario, per la pubblicità che compare praticamente su tutti i muri della città, per il noleggio dei bagni chimici e per l’assegnazione della regia artistica (15 mila euro, solo quest’ultima).
Non ci sarebbe niente di male neanche se l’evento, al di là del suo dubbio spessore, investisse davvero la città recuperandone un pezzo di storia sentito dai perugini. Invece, tanto per dire, nel sito di “Perugia 1416”, si trova anche il link “Scopri il tuo rione”; ora, anche qui, per capire di cosa stiamo parlando, se provate a dire a un senese: “Scopri il tuo rione”, ben che vada vi ritrovereste davanti a una sequela di insulti: “Ciccio, tu vieni a dire a me di scoprire il mio rione?!”. Invece ai perugini occorre dirlo, “scopri il tuo rione”, perché il rione non è un’entità territoriale sentita; perché Perugia 1416 non esiste nella coscienza dei residenti; e perché questo è un evento che ricorda un po’ il tentativo di trapiantare una palma al polo nord: si estinguerà da sé, non attecchirà mai, neanche a investirci soldi, come se ne stanno investendo. Perugia 1416 non diventerà mai il Palio di Siena perché il palio scorre nel sangue dei senesi; e perché manifestazioni del genere non nascono un giorno del XXI secolo perché a qualche esponente istituzionale viene la fregola della riscoperta storica; certe cose si respirano per strada, salgono su dai sampietrini, coinvolgono masse, profumano di storia vissuta e sentita.
Per tutti questi motivi Perugia 1416 assomiglia più a una sagra paesana che al Palio di Siena.
Ma siccome non si può dubitare della buona fede dell’amministrazione che tanto ci investe, occorre dire all’amministrazione, qualora le interessi,che c’è una Perugia ampia, trasversale e si può anche dire, osando, maggioritaria, che di roba come questa non sa che farsene. E che anzi giudica questa iniziativa come una metafora della deriva, dell’azzeramento di una visione di medio-lungo periodo. Che tono si dà Perugia, una città con due università, una città in cui tutti gli anni si celebra uno dei festival jazz più importanti del mondo; una città in cui ha preso piede un festival del giornalismo letteralmente internazionale; una città che fa da cornice a un festival della letteratura in lingua spagnola di respiro anch’esso planetario? Che direzione vuol far prendere a questa città un’amministrazione che investe per scimmiottare il Palio di Siena e si ritrova tra le mani una sagra paesana? Che sviluppo ha in testa una giunta che profonde tanto impegno per una cosa che non attecchirà mai e sta seduta al vertice di una delle più importanti città d’Italia?

venerdì 28 aprile 2017

Entrambi

Ci sono almeno due modi per fare gli avvoltoi sui migranti, speculari e odiosi entrambi: uno è quello di chi gli fa pagare fior di quattrini per caricarli su gommoni mortiferi approfittando della loro disperazione; l'altro è quello di chi da quest'altra parte parte del mare, coi piedi al caldo e la giacca sulla camicia senza cravatta (ché ora non va più di moda), gioca sulla pancia di orde di votanti sbandati e arresi al gioco del "prenditela con chi è più debole di te", additando i disperati che vengono qua come il male assoluto per lucrarne alle elezioni. Spesso i secondi ricorrono anche, per dileggiare approcci umani e di buon senso alla questione dell'immigrazione, a parole e locuzioni di recente conio come "buonismo" o "radical chic", approfittando del fatto che chi si contrappone a loro è troppo educato per ricorrere a neologismi come "merdismo" o "radical ignorant".