venerdì 24 ottobre 2014

Eurochocolate, la negazione dell'evidenza

Ci sono parole e pratiche che hanno bisogno di confondersi nell'oceano del nulla che ci viene dispensato quotidianamente per essere accettate socialmente. Ad esempio, vocaboli che perdono prefissi: le controriforme diventano riforme per renderle accettabili come l'esatto contrario di ciò che sono. Definizioni travestite: una fiera viene trasformata in evento per conferirle formalmente quel tocco chic di cui è sprovvista nella sostanza. E termini che, nonostante siano il motore che spinge determinate iniziative, non vengono mai nominati quando quelle iniziative si tratta di descriverle: profitto è uno di questi.

Eurochocolate, la fiera in cui le multinazionali del cioccolato espongono le loro mercanzie nel centro di Perugia, ha molte delle caratteristiche che, nella fitta nebbia di nulla nella quale camminiamo, prendono le mosse da queste tendenze alla mistificazione, le quali messe insieme l'una all'altra contribuiscono alla negazione dell'evidenza. Cioè: una fiera in cui organizzatori e sponsor colonizzano come cavallette un centro storico secolare e puntano a fare profitto vendendo un prodotto, il cioccolato, la cui filiera di produzione ha ben più d'una macchia in termini di utilizzo di persone e territori, diventa il "dolce evento" che porta ricchezza alla città nella quale è ospitato e all'interno del quale c'è una sezione "buona", "equochocolate", il cui solo nome fa nascere sospetti: se una cosa è equa, perché relegarla a una sezione e non costruirci intorno l'evento stesso? Semplice: perché non si può. Perché la produzione del cioccolato delle multinazionali ha dei lati oscuri ben documentati ormai da una bibliografia e da una filmografia piuttosto consistenti. E, soprattutto, la produzione del cioccolato equo c'è: è quella praticata da decenni dai produttori e dalle centrali di importazione del commercio equo e solidale, che si chiama proprio così, non "eurocommercio" all'interno del quale c'è una sezione "equa". Quella gente lì, non a caso, non c'è dentro Eurochocolate.

Ma Eurochocolate e il radioso manager che la organizza non ci stanno. Vogliono appendersi al bavero della giacca la medaglia dell'equità, nonostante ciò sia impossibile, a meno che non si voglia negare l'evidenza. E la negano due volte l'evidenza: quando creano la sezione "equa", che per il solo fatto di esistere nega l'equità del resto dei prodotti in fiera. E quando dicono di portare ricchezza e lustro alla città.

Non si è mai riusciti a fare una stima attendibile della ricchezza che Eurochocolate porta alla città. I visitatori fanno per lo più "mordi e fuggi" e la stragrande maggioranza consumano all'interno delle centinaia di stand che si affastellano nell'acropoli, non negli esercizi commerciali che nell'acropoli ci stanno tutto l'anno. Di sicuro c'è invece il valore aggiunto che una cornice come quella del centro storico di Perugia conferisce a una fiera come Eurochocolate. Non a caso il manager che la organizza ha sempre rifiutato sdegnosamente il trasloco in altri spazi.

E anche l'argomentazione, usata di frequente, secondo cui Eurochocolate offrirebbe a Perugia una visibilità nazionale ha del posticcio: è come se si sostenesse che per essere notata al ballo, Cenerentola ebbe bisogno della matrigna e delle sorellastre. Perugia è la città di Umbria jazz e del Festival del giornalismo, questi si "eventi" che offrono alla città oltre a ricevere.

Ma perché negare l'evidenza? Perché non ammettere che Eurochocolate è una fiera messa in piedi per fare profitto, quando del profitto ormai è (quasi) unanimemente accettato che è "colui che tutto muove"? Forse perché la felicità, la giocosità che devono essere i marchi distintivi della fiera mal si accordano col frusciare delle banconote. Forse perché il profitto a volte stona. Soprattutto se è appannaggio di pochi. Soprattutto se è viziato da zone d'ombra, come quelle della filiera del cioccolato.

Questo paiono averlo capito prima di tutti i cantori del "profitto che tutto muove". I quali sanno per primi che il profitto non può essere la misura del tutto. E lo nascondono sotto abbondanti coltri di nulla. In modo che non si sappia troppo in giro.

venerdì 17 ottobre 2014

Odi et amo

Avrei voluto stare a Terni, stamattina. Ma non ho potuto. Però ho avuto la fortuna di poter essere non troppo lontano e non superare il limite di distanza che mi ha consentito di seguire la diretta della manifestazione da una radio locale.

Conosco piuttosto bene la città nella quale sono nato e cresciuto, anche se non ci vivo da decenni. Ne sono intriso, come chiunque ne è del posto dove ha pianto per la prima volta. Così non mi hanno stupito la valanga di persone in strada, i negozi chiusi dei commercianti solidali con gli operai. A sorprendermi stavolta sono state le voci rotte dall'emozione che ho ascoltato in radio e che ho rivisto poi nei tg dell'ora di pranzo. Le persone che iniziavano a parlare e non ce la facevano a finire e si allontanavano con la mano a coprire la bocca. Come succede ai funerali. Tante. Come è difficile vederne e ascoltarne a manifestazioni del genere.

Erano le voci di chi sa anche se non ha studiato. Di chi le cose non le vive sulla pelle ma ce le ha proprio dentro. Di chi ha avuto i nonni costretti alla fabbrica anche con la febbre quando ancora la “malattia” non era pagata e al lavoro c'andavi pure malandato sennò perdevi “la giornata”. E adesso ha i fratelli con la lettera «che te ne devi anna'» che incombe sulla testa.

Avrei voluto stare a Terni, stamattina. Anche se l'ho detestata quando da adolescente eravamo così pochi in strada la sera che la polizia ci chiedeva regolarmente i documenti e ci faceva incazzare. Anche se la musica non arrivava e per ascoltare i dischi che ti interessavano dovevi aspettare che qualcuno andasse a Roma a prenderli. Anche se non c'erano locali in cui suonare e in cui ascoltare qualcuno che suonasse.

Avrei voluto stare a Terni, stamattina. E oggi la ringrazio. Per le mancanze che mi ha dato da colmare. Per le scarpe buone che mi ha dato per camminare. E per avere le cose dentro, non solo sulla pelle.

sabato 4 ottobre 2014

Dalla crisi si esce con una app

La rivelazione di questi mesi di Governo Renzi è che i conti economici dell’Italia sono dotati di sentimenti: si deprimono ormai anche alla sola vista del premier. Tanto che lui, stizzito, non li prende più in considerazione: Senato, Province, articolo 18, ogni argomento è buono pur di non affrontarli. Della questione si è discusso in gran segreto nell’ultimo Consiglio dei ministri. La riunione è andata per le lunghe, anche perché all’inizio era stato chiesto al ministro dell’Interno di fare il punto. Alfano si è allora imbronciato e non ha proferito parola. Si è andati avanti così per qualche minuto, fino a quando il leader dell’Ncd, scorgendo l’incredulità dipinta sul volto dei colleghi, ha chiesto: «Non sto facendo bene il punto? Volete che mi mostri più offeso?».
A quel punto Renzi ha lasciato la parola; lui è fatto così, la parola non la prende, la lascia uscire fuori di sé, così come gli viene. «Non crediate che il problema non mi stia a cuore», ha detto mettendosi la mano sulla parte sbagliata del petto per poi scusarsi: «Pardon, io sono un Maradona al contrario, lui è tutto-sinistro, io tutto-destro».
«Con il mio staff, all’interno del quale ho chiamato di recente anche il mio macellaio di fiducia, perché come taglia lui non lo fa nessuno – ha proseguito Renzi – siamo stati ultimamente molto impegnati nel fare la fila per comprare l’iPhone 6. Ma è un’operazione fatta a fin di bene. Con i nuovi smartphone andremo alla ricerca della app giusta per imboccare la via della crescita». La diagnosi che il presidente del Consiglio e i suoi fedelissimi (Richie Cunningham, Potsie e Sottiletta) fanno della crisi è infatti questa: la recessione è dovuta al fatto che qualcuno ha chiuso l’economia tra due hashtag, così: #economia#. «Occorre trovare il modo per togliere il cancelletto di destra e l’Italia tornerà a crescere. Ma per fare questo non servono vecchie ricette, dobbiamo guardare al futuro: la soluzione è qui», ha scandito il premier tirando fuori dalla tasca lo smartphone nuovo di zecca e poggiandolo sul tavolo.
È stato a quel punto che è intervenuto il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: «Ma non avevamo detto di chiedere all’Europa di concederci più margini nel patto di stabilità?». «Pier Carlo – ha risposto Renzi – ho parlato con la Merkel e mi ha detto che non è disposta neanche a darci una vocale o una consonante per completare il tuo cognome». «Perché non proviamo aizzandogli contro Giovanardi – è intervenuto il ministro Lupi – quello a suon di cazzate la stordisce e magari alla fine, se non altro per sfinimento, qualcosa riusciamo a spuntare». Ma le esternazioni di Giovanardi sono state di recente inserite nell’elenco di armi non convenzionali, come ha ricordato la ministra della Difesa Pinotti segnalando che «correremmo il rischio di una sanzione da parte dell’Onu».
Alla fine l’accordo è stato trovato su tre punti, illustrati dallo stesso Renzi, che diventeranno oggetto di un decreto sul quale il Governo si dice pronto a chiedere la fiducia, eccoli:
1)    Ridurre la settimana a quattro giorni, dal giovedì alla domenica. «Questo ci consente un risparmio di circa 150 giorni l’anno e inoltre quello è il periodo del weekend, in cui cioè la gente spende di più, l’ideale per rimettere in moto i consumi», si legge nel documento di Palazzo Chigi.
2)    Portare tutti gli italiani ad evitare di pensare prima di parlare; molti sono già sulla buona strada, mentre per i riottosi il Governo è disposto a mettere sul piatto degli incentivi. «Come si capisce, ogni attività risparmierebbe il 50 per cento delle risorse», è scritto nelle note che accompagnano il decreto. «E in più si guadagna del tempo che può essere impiegato al meglio per dire più cose, posso testimoniarvelo di persona», ha detto Renzi.
3)    Dire di essere di sinistra ma fare cose di destra. «Così si raccolgono consensi sia di qua che di là», ha concluso il premier allargando il sorriso e aggiungendo: «Pensa, io ho preso i voti di chi scese in piazza per difendere l’articolo 18 e lo sto abolendo come volevano quelli che hanno votato per anni Berlusconi. Alle prossime elezioni faccio cappotto».