martedì 19 maggio 2020

Franceschino



L’ho imparato col tempo quanto era importante Francesco Valli. Fino a un certo punto per me è stato solo un adulto un po’ più grande dei miei che quando lo incrociavo per le scale mi apostrofava con un «ah regazzi!’», seguito da «che fai?» o «do’ vai?». Crescendo, ho scoperto che lo conoscevano praticamente tutti, a Terni, e che per tutti era Franceschino, non come c’era scritto sul citofono, Francesco. Era un attore in vernacolo, Franceschino, lo dico per quelli si imbattessero in ‘sto post e che con Terni non hanno dimestichezza. Quella vicinanza a una celebrità cittadina che abitava uno o due piani sopra l’appartamento dove ho vissuto coi miei fino all’adolescenza a un certo punto mi rese orgoglioso. «Ah – dicevo a me stesso – voi l’applaudite a teatro, ma io c’ho una familiarità che voi ve la sognate, con Franceschino». E mi sentivo importante.

Poi, niente. Teatro dialettale e adolescenza non andavano d’accordo a Terni, o almeno non nel mio caso. Figurati, tu compravi Rockerilla e ascoltavi, che ne so?, i That Petrol Emotion, leggevi Joyce e Virginia Woolf, e questi recitavano “A li cunti facemo li pianti”. Tsè. Era una rottura generazionale, in parte; un bisogno d’affermarsi. Ma era anche tracotanza gratuita – capita che ci sia, nell’adolescenza - ignoranza recuperata in parte solo poi. Perché col tempo, allontanandomi fisicamente da Terni e vivendo altrove, ho capito che quella città era, ed è ancora, ma in altre forme, popolo più che altre. È una città in cui la borghesia è pressoché inesistente, e laddove si manifesta è ancora più caricaturale della borghesia di città in cui la borghesia è ben più importante. Perché insignificante, più insignificante che in altre città. Terni è popolo perché lì ci sono stati praticamente solo la grande industria di stato e i lavoratori (operai, piccoli commercianti, artigiani). E dopo, quando è cominciata la sarabanda delle privatizzazioni, la borghesia che comprava i gioielli di famiglia era lontanissima, tanto geograficamente quanto dallo spirito della città. E quei pochi autoctoni che giocavano a fare i borghesi erano ridicoli, chiusi in un mondo piccolo. A Terni il mondo era il popolo; i quartieri erano popolo, i ragazzini che sciamavano per le strade erano popolo mescolato, le utilitarie erano popolo, i negozianti erano popolo, lo stadio era popolo. Poi le cose sono un po’ cambiate, ma non è qui il caso di scomodare Pasolini.

Quanto era importante Franceschino l’ho imparato dopo, dicevo. E ci ripensavo stamattina, quando ho letto della sua scomparsa. Ho imparato che Franceschino era lo spirito del popolo di Terni che io imparavo solo d’intelletto leggendo i libri di Alessandro Portelli. Lo era al di fuori di qualsiasi collocazione politica perché non si tratta qui di collocazione politica (non so neanche per chi votasse). Lo era perché cantava il popolo. E quindi cantava Terni, Franceschino, esattamente come lo faceva Portelli in tutt’altro modo e con altri mezzi e magari con altri fini; ma lo faceva. E nel cantarla, da interprete fedele, non poteva cantarne la borghesia inesistente o caricaturale. Poteva cantarne solo il popolo. Questo è stato, Franceschino Valli. Pop nel senso più profondo e fecondo del termine. E Terni lo dovrebbe ricordare proprio per quel suo essere spontaneamente popolo; per quell’essere così intriso di Terni dall’averla rappresentata, al di là di qualsiasi concettualizzazione astrusa, nella sua essenza di popolo. Così, forse, quella città imbastardita dall’esplosione del precariato esistenziale potrebbe anche aiutarsi a riconciliarsi con se stessa.

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