giovedì 11 febbraio 2021

L'inerte e la vita

Vale la pena sottolinearla, questa cosa che sta succedendo in Umbria. La regione ha chiesto aiuto al governo nazionale per reperire medici e infermieri senza i quali la sanità si è inceppata e l’ospedale da campo di Perugia, inaugurato diverse settimane fa, è rimasto vuoto; cosa che con i contagi che galoppano e la saturazione delle terapie intensive a livello di guardia, assume i contorni della auto-beffa. La mancata programmazione delle assunzioni da parte dei vertici della sanità regionale è stata già ampiamente sottolineata, e non è qui il caso di reiterare quelle critiche.

Il fatto è che la richiesta d’aiuto per il reperimento di donne e uomini senza i quali le strutture non sono in grado di funzionare riporta in luce il tema del lavoro, cosa questa su cui invece nessuno (o quasi) si è soffermato.

Il lavoro infatti, semplicemente, non esiste. È una cosa solidissima, che fa incazzare, ammalare, morire, campare, dannarsi; eppure non compare né sotto la forma dei corpi che materialmente lo agiscono o ne sono esclusi, né come tema pubblico. Esistono i consumatori, categoria sotto la quale sono schiacciati lavoratrici, lavoratori, disoccupate e disoccupati. Ed esiste l’impresa, continuamente evocata, dispensatrice di ricchezze, progresso e benessere; una entità che nel discorso pubblico non ha macchie, e che soprattutto è risolta in sé, autosufficiente. Una distorsione, questa. Perché da un lato cozza contro le continue richieste di sgravi, incentivi e misure ad hoc da parte dagli imprenditori; ma soprattutto elude completamente il fatto che l’impresa per campare ha bisogno di mani, braccia, teste, corpi.

È l’assunzione dell’entità-impresa come principio ordinatore che per certi versi ha portato all’inaugurazione di quell’ospedale senza curarsi dei corpi e delle intelligenze che sarebbero stati necessari per farlo funzionare, cioè del lavoro. È il relegamento dei lavoratori e delle lavoratrici a meri strumenti della produzione che non li fa entrare nel discorso pubblico, come avviene per un trattore, un altoforno, un cacciavite, un trapano. I lavoratori e le lavoratrici si reperiscono sul mercato e quando non servono si mettono via, come un qualsiasi altro utensile che infatti non occupa spazio alcuno nel discorso pubblico dominato dalla centralità dell’impresa. Tanto che gli stessi ospedali sono diventati “aziende”, una neo-blasfemia accettata da tutti.

Ecco, quella richiesta d’aiuto per avere lavoratori da parte di una presidente attanagliata dalla morsa covid vale la pena di sottolinearla perché è un implicito e del tutto involontario - un accidente, si direbbe – riconoscimento della necessità delle persone in carne e ossa, della loro opera, delle loro competenze, dei loro cervelli senza i quali l’inerzialità dei respiratori, dei letti, dei saturimetri, delle medicine da somministrare rimarrebbe tale: inerte, appunto, inservibile. Servono le persone, la loro vita, a mettere in moto l’inerte. Così come l’entità-impresa rimarrebbe inerte senza la vita dei lavoratori e delle lavoratici.

Contrapporre l’inerte alla vita potrebbe risultare forse utile per tentare di ribaltare quel controsenso inumano che fa della venerazione dell’inerte un tratto di questo tempo che svuota le vite.

Potrebbe sembrare vano tutto questo, oppure ovvio. Si potrebbe però misurarne la portata contando le volte che in un qualsiasi dibattito o in un qualsiasi sito di informazione o su un vetusto giornale di carta s’incontrano la parola impresa e i suoi derivati (imprenditori, azienda, competitività eccetera) e la parola lavoro e i suoi derivati (lavoratrici, lavoratori, precarie e precari, disoccupate e disoccupati eccetera). Provateci, se vi va.

Nessun commento: