martedì 2 febbraio 2021

Non siamo mica gli americani

Mentre metabolizzavo il libro di Giovanni Dozzini (“Qui dovevo stare”, Fandango libri) mi venivano in mente “Birdman”, poi “Non siamo mica gli americani”, e poi ancora “Padania” (“Due ciminiere e un campo di neve fradicia, qui è dove sono nato e qui morirò”). Come si possono mescolare un film di Iñárritu, una canzone del primo Vasco Rossi e una dei più recenti Afterhours? Succede: nelle teste delle persone si mescolano un sacco di cose, spesso molto diverse l’una dall’altra. E pure le vite sono un sacco di cose, e anche all’interno della stessa ci trovi un sacco di cose molto diverse l’una dall’altra. 

“Birdman” è perché l’opera è concepita come quel film: un unico piano sequenza girato dall’angolo visuale del protagonista. “Non siamo mica gli americani” perché, semplicemente, noi non siamo come gli americani, e quando cerchiamo di scimmiottarli spesso facciamo del male a noi stessi, magari senza neanche capirlo. “Padania” perché c’è una circolarità di ambienti nel libro (“Qui è dove sono nato e qui morirò”) che sembrano sempre gli stessi e che invece cambiano, e pure parecchio. Se un libro ti rimanda a tutte queste cose eterogenee, non è perché l’autore ha copiato, ovviamente. Giovanni ha scritto un romanzo di un’originalità irriducibile, per questo accende molte lampadine. E i rimandi musicali potrebbero avere qualcosa a che fare con l’imprinting che io ebbi con lui, un pezzo di vita fa, quando uno dei primi giorni in cui ero appena entrato in una redazione nuova, in mezzo a gente nuova, sentii squillare un telefono a cui il proprietario aveva collegato come suoneria “No surprises” dei Radiohead. A dispetto del titolo, mi voltai con sorpresa a cercare chi fosse quello che, visti i gusti comuni, avrebbe potuto essere un primo gancio in quell’ambiente inedito: era Giovanni.

A pensarci bene, “Non siamo mica gli americani” m’è venuta in mente perché il romanzo si apre in una notte solitaria e si chiude in una piazza affollata di giorno. Sembrerebbe un percorso di apertura. Invece è la descrizione di una corsa involontaria verso il solipsismo. Sembra disegnare la parabola al contrario del sasso che gettato su uno specchio d’acqua genera cerchi concentrici che si allargano sempre più. In “Qui dovevo stare” i cerchi seguono, all’inverso, un itinerario centripeto: si restringono via via sempre più intorno a “Brego” fino a diventare un cappio intorno al collo di un protagonista sempre più solo. Lui, come gli altri nella piazza, sembrerebbe cercare un’unione, una messa in comune che nonostante tutto non si riesce a trovare, essendo il percorso di ognuno verso il monadismo ormai pressoché irreversibile, ed essendo ognuno un satellite solitario che gira attorno all’unico sole che c’è in quella piazza. Soli. Come gli americani davanti all’Ovest sterminato con la pistola a portata di mano per difendersi da sé. Ma noi non siamo gli americani, appunto.

Noi siamo quelli delle sagre, delle feste dell’unità, della spezzatura del maiale, del lavoro in fabbrica gomito a gomito, dell’istituto di previdenza sociale. Siamo quelli dei riti collettivi. E nell’atomismo ci navighiamo male. Malissimo. Ed è proprio quello il male che il romanzo tenta di scandagliare. Da dove nasce, perché nasce, a cosa porta.

Per farlo l’autore ci porta letteralmente dentro la testa di un imbianchino quarantenne senza particolari pregi né difetti. Uno che avrebbe coronato i suoi sogni: un lavoro, una casa, una moglie, una figlia. Solo che “se un sogno si attacca come una colla all’anima, tutto diventa vero, tu invece no”, come canta Manuel Agnelli in “Padania”. I sogni si rimpiccioliscono sempre più, fino a scomparire per coincidere con uno svegliati-lavora-mangia-dormi che li schiaccia in una insopportabilità quotidiana accompagnata dal dissolvimento di un mondo che non c’è più, come la mamma andata via troppo presto che fa capolino dentro la testa del “Brego”, tra il sopracciglio e la tempia accanto all’occhio destro.

Lo sgualcimento dell’esistenza è parallelo a quello della sfera pubblica, del comune: il bar del paese era di Antonio, e ci si andava a giocare a flipper o a carte; ora c’è un cinese chiamato Mario, e al posto del flipper ci stanno le macchinette succhia-soldi che divorano le esistenze di poveri cristi. Nelle case tirate su dai paesani cento anni fa ora si parlano lingue sconosciute e le cucine evaporano di spezie lontane e qui sono tutti rumeni-marocchini-negri e bisogna difendersi da loro, perché si arrampicano su per le tubature e vanno a rubare nelle case: se ne italianizzano i nomi, di questa massa di persone venute a cercar fortuna, come a volerne disinnescare il potenziale sovversivo della diversità, come a volerli integrare; ma quello che prevale è un continuo noi e loro che moltiplica lo smarrimento. Il decadimento è dentro e fuori e i due processi sono collegati alla totale inadeguatezza del Partito (con la P maiuscola) che da queste parti (siamo a Perugia, città rossa per una vita) come pressoché ovunque è diventato pista per carrieristi che “rimangono sempre in piedi” e apparato del tutto disconnesso dalla vita reale. Un Partito, a dire il vero, che non era ‘sto granché manco nei bei tempi andati, quando dal centro i funzionari scendevano quaggiù, al paese, a dettare la linea a quella che veniva considerata una massa di obbedienti, serbatoio di voti o poco più.

Alla fine gli obbedienti hanno cominciato però a disobbedire a quello che non capivano più. L’hanno fatto sotto i colpi di un deterioramento di tutto: delle strade, delle facciate dei palazzi, della corruzione imperante, delle condizioni di vita. È successo quando il Partito è diventato più realista del re e si è chiuso in se stesso come se desiderasse la morte per asfissia. È successo sotto il parallelo schiacciamento dei sogni che hanno ridotto la vita a quell’insopportabile svegliati-lavora-mangia-dormi mentre sotto scorre Masha e Orso, che è utile a tenere buona una figlia davanti alla tv tutta la settimana e da portare al centro commerciale la domenica insieme alla mamma troppo nervosa perché più di qualcosa stride pure dentro lei, e allora conviene farla sfogare con l’acquisto di camicie e pantaloni utili a nascondere i chili ammonticchiati in un’esistenza troppo immobile.

È un romanzo sullo smarrimento, "Qui dovevo stare". Sulla perdita di senso delle vite private e collettive; forse perché il privato e il collettivo hanno preso due strade troppo divergenti, e a noi questa cosa ci guasta, perché non siamo gli americani, abituati ad andare soli con la pistola nel cinturone.

Qualcuno sostiene che per capire la realtà occorre leggere più romanzi che saggi. E del resto quello è un metodo adottato dagli storici. Il romanzo di Giovanni Dozzini è di sicuro uno di quelli da leggere per tentare di comprendere da dove, come e perché è arrivato quello smarrimento diventato la cicatrice distintiva della nostra epoca. È profondissimo e pop al tempo stesso, come le canzoni migliori. E ha alla base una scelta stilistica e narrativa che già da sola varrebbe il prezzo del volume. Perché lo smarrimento lo racconta da dentro. Dalla radice. 

Niente di già visto, niente di già sentito. Tutto molto utile. E bello.

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