sabato 9 gennaio 2021

L’abisso della stampa umbra, occupazione dimezzata in dieci anni

Da più di un decennio è in atto una crisi industriale strisciante e silenziosa che sta producendo in Umbria effetti tanto dannosi quanto poco avvertiti. Nel 2009, sul nascere di quella che sarebbe stata la grande ondata della stampa on line, il Comitato regionale per le comunicazioni dell’Umbria (Corecom) si prese la briga di censire i mezzi di comunicazione presenti in regione in una ricerca dal titolo allora evocativo:“Umbria.it”. Da quelle pagine emerge che all’epoca c’erano quattro quotidiani che si dedicavano alla cronaca locale; vi lavoravano complessivamente cento giornalisti e giornaliste con regolare contratto. Dieci anni dopo, nel 2019, una di quelle quattro testate non esisteva più, le altre avevano via via ridotto (e continuano a farlo) la forza lavoro, cosicché il numero di persone impiegate si è drasticamente ridotto arrivando a 49 unità. Una contrazione di metà della forza lavoro che è sintomo di una crisi che va molto oltre i numeri, sia per quantità che per qualità.

Prima di andare oltre però, è necessario un chiarimento: perché parliamo solo di carta stampata? Perché quello è il settore in cui è più agevole un monitoraggio attendibile. Per capirne il motivo, conviene affidarsi a una citazione tratta da un’altra pubblicazione del Corecom Umbria, risalente al 2013: Il sistema dei media locali in Umbria”. «Difficile stimare quanti (...) svolgano effettivamente la professione di giornalisti e ne ricevano un compenso – vi si legge -. La situazione è resa ancora più complicata a causa di una generale dequalificazione della categoria del giornalista: spesso i praticanti pubblicisti sono coinvolti in una corsa al ribasso dei prezzari, vengono sottopagati o non pagati affatto (...). A questi si aggiunga l’esercito silenzioso di coloro che, mandati in prepensionamento, continuano a svolgere la professione percependo compensi inferiori, spesso non dichiarati».

Quello del giornalismo è insomma già di suo un settore in cui ci sono un livello di precariato con compensi minimi e un tasso di irregolarità altissimi. Perché, allora, prendiamo come punto di riferimento i soli giornali cartacei? Perché la carta stampata è l’ambito nel quale, nonostante questi fenomeni siano presenti, c’è (c’è stata?) una contrattualizzazione sufficientemente estesa e omogenea che consente un confronto su anni diversi per capire l’andamento del settore nel suo complesso. Una parte della metà dei giornalisti (molte le donne) che ha perso il lavoro negli ultimi dieci anni sta svolgendo lavori come addetti stampa, collaboratori e corrispondenti o è entrata in una delle decine di siti web che sono spuntati come funghi dopo la pioggia in questi anni. Il punto che occorre sottolineare qui è che quella massa di persone costretta a riconvertirsi, invariabilmente, non ha ottenuto una forma contrattuale analoga a quella di cui usufruiva nei rispettivi giornali di provenienza e ha dovuto accettare condizioni peggiori sia economiche che contrattuali.

Non si sta assistendo insomma a un rimescolamento delle carte dovuto all’innovazione tecnologica; siamo lontanissimi dall’esempio classico che piace tanto ai fautori del mercato a tutti i costi per cui, tra diciannovesimo e ventesimo secolo, la declinante industria di carrozze per cavalli veniva sostituita dalle aziende in ascesa che producevano auto. Dal 2009 al 2019 le vendite dei quotidiani locali in questa regione sono crollate del 60 per cento: dalle 29 mila giornaliere del 2009 a poco più di 11 mila; un fenomeno analogo a quello registrato per i quotidiani nazionali. Ciò ha innescato una spirale al ribasso. Il circolo vizioso è questo: meno vendite – meno occupazione – meno investimenti - meno qualità – ulteriore contrazione delle vendite; in una ripetizione continua che a ogni giro ricomincia da un gradino più basso. All’inizio si è ritenuto che la quota di mercato pubblicitario che veniva persa dalla carta stampata fosse destinata a riversarsi automaticamente nel web; da qui il proliferare di siti. Non è stato così. Oggi, secondo i dati forniti da Iab Italia, l’osservatorio sulla pubblicità digitale, il 78 per cento degli investimenti in pubblicità online fatti in Italia entra nelle casse di Google e Facebook. Si sta assistendo cioè a un processo di concentrazione in cui i grandi diventano sempre più grandi ingoiando i piccoli. Con il paradosso di assistere a una estrazione di reddito che dalla regione migra verso giganti che in Italia non pagano neanche le tasse.

Ciò ha determinato e sta determinando le conseguenze che si vivono in questa regione che già scontava sue difficoltà peculiari. Conseguenze che, si badi, non hanno effetti solo sugli addetti ai lavori ma coinvolgono più in generale la società regionale nel suo complesso sotto diversi aspetti. La crisi del giornalismo locale in questa regione è una crisi sociale. Cancellare posti di lavoro o intere testate, oppure ridimensionarle pesantemente, è come abbattere una foresta: non si crea solo un vuoto, si produce più inquinamento perché gli alberi (leggi: le varie testate) non assorbiranno più anidride carbonica (leggi: l’intossicazione dei comunicati stampa e delle fake news); specie animali verranno meno (leggi: giornalismo d’inchiesta e approfondimento); il clima ne risentirà (leggi: la qualità del dibattito pubblico) e un intero ecosistema ne uscirà squilibrato. Così è per la stampa locale, che è parte della costituzione materiale di un paese e di una comunità. Vediamo di illustrarne alcuni dei motivi e delle implicazioni.

Intanto, si è giocata una partita in cui l’imprenditoria regionale, che come abbiamo avuto modo di rilevare, già non brilla di per sé, ha confermato la sua mancanza di capacità innovativa e di fronteggiare difficoltà. I due giornali a vocazione prettamente regionale, Corriere dell’Umbria e Giornale dell’Umbria, all’inizio della crisi erano sotto il controllo delle due maggiori aziende di produzione del cemento della regione, rispettivamente: Barbetti e Colacem (controllata dalla famiglia Colaiacovo). I Barbetti (28 milioni di fatturato nel 2018) hanno ceduto il Corriere dell’Umbria ad Angelucci, editore di Libero, nonché titolare di un impero nel settore della sanità privata. Da allora il quotidiano è passato di crisi in crisi attraverso vari ridimensionamenti della forza lavoro che l’hanno portato da 36 a 28 giornalisti e al ricorso massiccio ai contratti di solidarietà e alla cassa integrazione. Il Giornale dell’Umbria, fino all’agosto del 2015 in mano alla potente famiglia Colaiacovo - ottavo gruppo industriale dell’Umbria nel 2018 con 232 milioni di fatturato - è stato ceduto a una compagine societaria che nell’arco di cinque mesi l’ha portato alla fine delle pubblicazioni con il licenziamento in tronco di 27 persone. Da segnalare, a proposito dei Colaiacovo, che la famiglia detiene anche la proprietà di Tele Radio Gubbio, passata attraverso una ristrutturazione drastica che l’ha portata da sette a due dipendenti.

Ma cosa succede quando una redazione si impoverisce di risorse, come sta avvenendo a quelle umbre da più di un decennio? È un processo piuttosto semplice quanto spietato. Si ha meno tempo per fare inchiesta, si deve rinunciare a fare reportage in cui si raccontano le persone, i loro problemi e le loro aspirazioni perché la gente non si ha più tempo di incontrarla, chiusi nelle redazioni e costretti a mandare avanti la macchina. Si è strozzati al punto di non poter più verificare le notizie e di essere costretti ad affidarsi ai comunicati stampa di aziende, personaggi politici e amministratori che ovviamente portano acqua al loro mulino. In questo modo i media diventano bacheche per comunicazioni di soggetti più o meno potenti che si autocostruiscono la propria immagine pubblica al riparo da qualsiasi critica; perché per criticare occorre il tempo di vagliare, e quel tempo si assottiglia al diminuire degli occupati e all’aumentare della ricattabilità dei superstiti nelle redazioni. L’informazione si trasforma in comunicazione, con un effetto copia e incolla che assume punte grottesche, e di cui i giornalisti sono vittime tanto quanto i lettori che vi si rivolgono. Qui ne trovate un esempio: un colosso multinazionale con interessi pesantissimi nei servizi pubblici della regione emette un comunicato stampa in cui si balugina un finanziamento milionario frutto di una complicata operazione finanziaria. La stragrande maggioranza delle testate è costretta a pubblicare il comunicato così com’è senza avere minimamente il tempo di vagliare le informazioni in esso contenute.

È evidente che un processo del genere abbassa la qualità del servizio prodotto e porta siti e giornali ad avvicinarsi pericolosamente, nel sentire comune, ai livelli di produttori di notizie privi di professionalità e scrupoli. Il risultato è la forza di condizionamento sull’opinione pubblica dei social con, in testa, di facebook. O meglio, come lo definisce il Rapporto sul consumo di informazione dell’Agcom, degli «strumenti governati da algoritmi». L’algoritmo propone al consumatore-lettore contenuti in base alla probabilità, calcolata dallo stesso algoritmo, che al consumatore-lettore piacciano facendo riferimento allo “storico” delle preferenze del consumatore-lettore stesso. Ne consegue una dipendenza dall’algoritmo di cui la maggior parte delle persone non sono coscienti, e ne consegue soprattutto una mancanza di vaglio delle fonti e una sostanziale cecità della scelta perché l’algoritmo è calcolo che non conosce le sfumature dell’umano: Bauman lì vale quanto Cetto Laqualunque. Ciò, ovviamente, penalizza in misura maggiore le fasce più vulnerabili: quelle con titolo di studio più basso, con minor reddito eccetera. Il tutto, condito dalla “gratuità” dell’informazione via social, che è un altro formidabile specchio per le allodole.

Ecco come dalla dequalificazione della professione giornalistica, secondo l’appropriata definizione del Corecom, si arriva a un inaridimento complessivo della società, della circolazione dei saperi al suo interno, e alla riduzione di capacità di scelta consapevole delle persone. Ed ecco perché l’inabissamento dei posti di lavoro, la precarizzazione del settore e la voragine sociale che si è aperta nel settore della stampa dovrebbero essere preoccupazione della comunità regionale nel suo complesso, danneggiata a sua volta da scelte editoriali miopi e da volontà di potere che vedono nel ridimensionamento della stampa indipendente una possibilità di estensione dei propri margini di manovra.

Giornalisti e giornaliste hanno subìto questo processo senza comunicare adeguatamente all’opinione pubblica i rischi che si annidano dentro questo processo che sta intossicando il dibattito pubblico da più di un decennio e di cui si vedono i frutti malati. È una questione di rapporti di forza, di trascuratezz, di mancate prese di coscienza. Troppo forti gli editori, quegli editori presenti in Umbria, rispetto a una categoria poco numerosa e altrettanto poco compatta perché sottoposta al ricatto: accetta le condizioni o quella è la porta. Solo che la porta si è spalancata per tutti, anche per quelli che hanno accettato le condizioni. E ora si è aperta su un abisso che rischia di inghiottire, oltre a coloro che lavorano nell’informazione, l’intera comunità regionale, il suo sapere collettivo, il suo saper discutere con discernimento, il suo decidere consapevolmente. In una parola: la democrazia.

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