È una fotografia impietosa del sistema imprenditoriale umbro quella contenuta nel Documento di economia e finanza regionale 2021-2023 (Defr, lo strumento di programmazione del prossimo triennio) che la Giunta regionale ha approvato il 9 dicembre 2020. Nel capitolo dedicato al quadro macroeconomico dell’Umbria si legge che essa «si è presentata alla sfida con la pandemia Covid-19 in una situazione complessa, per alcune debolezze e problemi anche strutturali che la espongono – più di altre realtà territoriali – alle crisi di carattere congiunturale».
Poi c’è l’elenco: «Scarsità di investimenti privati in ricerca e sviluppo, debole collegamento tra sistema della ricerca e sistema produttivo, basso livello di digitalizzazione delle imprese, assetti produttivi in settori a minore intensità di ricerca e sviluppo, insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire e impiegare i laureati e sottoutilizzazione degli istruiti, decremento demografico e invecchiamento della popolazione, bassa produttività, insufficiente dotazione infrastrutturale nel sistema della mobilità e dei trasporti, basso livello di patrimonializzazione delle imprese, bassa domanda di figure qualificate, livelli di remunerazione del lavoro dipendente mediamente più bassi del dato nazionale».Si tratta di un quaderno delle doglianze composto di undici voci; per nove di esse le responsabilità sono riconducibili al mondo delle imprese e a chi le governa; su un’altra, quella del decremento demografico, c’è lo zampino degli stessi soggetti. E dire che poco più di un anno prima la presidente della Regione, Donatella Tesei, aveva scritto nel suo programma elettorale che «l’industria umbra è una industria di eccellenza, in ogni settore», e proponeva di fare del suo esecutivo «un governo regionale che rappresenti fortemente gli interessi dell’industria umbra in Italia ed in Europa». Giudizio opposto la ex sindaca di Montefalco esprimeva nei confronti della «macchina amministrativa regionale, che con circa 1.500 dipendenti è la prima azienda umbra, ma è l’ultima per l’efficienza e la rapidità dei procedimenti amministrativi e quindi per le risposte ai cittadini».
Rilevare la discordanza tra quanto scritto nel programma della presidente e quello che si legge nel primo documento di programmazione in cui si è cimentata la sua giunta non è un artificio polemico. Serve a mettere a fuoco quanto e come la centralità dell’impresa privata e del mercato e la contemporanea messa all’indice della «macchina amministrativa regionale», cioè del pubblico, siano elementi aprioristici, fondativi dell’attuale maggioranza, ancorché niente affatto esclusivi. Quel furore ideologico ha sfondato i confini destra-sinistra e attecchito da tempo in ampi settori dell’attuale opposizione che fu maggioranza e, quel che è più importante, in ampissimi settori dell’opinione pubblica, assumendo le fattezze del pensiero unico in un manicheismo grossolano e senza appelli: privato bene/pubblico male.
Si tratta di furore ideologico perché le convinzioni parallele della bontà del privato e della meschinità del pubblico sono destituite di fondamento nella realtà. Tanto che quando si tratta di mettere nero su bianco il principale documento di programmazione economica, anche una presidente che nel suo programma elettorale tesseva incondizionatamente le lodi dell’«industria umbra» è costretta ad ammettere ed elencare le tante criticità di quella realtà.
Ma come stanno davvero le cose? È più attendibile la candidata presidente che dà alle stampe il suo programma elettorale o la presidente eletta che scrive il Documento economico per il prossimo triennio? Qualche dato aiuta a capire. In Italia nel 2018 si è speso l’equivalente dell’1,4 per cento del Pil in ricerca e sviluppo; circa un terzo di quella spesa, cioè lo 0,9 per cento del Pil, è stata finanziata dalle imprese private. Questa quota è già di per sé «nettamente al di sotto della media dell’Ue», dove i privati investono l’equivalente dell’1,4 per cento del Pil in ricerca e sviluppo, come rileva il Servizio studi della Camera. In Umbria la già bassa propensione all’investimento in ricerca e sviluppo delle imprese private si assottiglia allo 0,4 per cento del Pil regionale (dati relativi al 2017), cioè della metà [tabella 1]. In questa regione la spesa complessiva in ricerca si è attestata nel 2018 a 231 milioni, cioè l’1 per cento del Pil, ed è stata trainata al 45 per cento dalle Università pubbliche e al 47 per cento dalle imprese. In Italia quelle percentuali si ribaltano: il 63 per cento della spesa in ricerca lo investono le imprese; dalle università arriva solo il 23 per cento. Ancora, per capire l’entità del fenomeno: in Umbria nel 2018 sono stati censiti 3,2 addetti alla ricerca e sviluppo ogni 1000 abitanti, la media italiana è 5; il Friuli Venezia Giulia, regione poco più grande della nostra (l’esempio tornerà più avanti), ne conta 6,3; l’Emilia Romagna 8,9, la Toscana 5,7, le Marche 4,3 il Lazio 7,7 [tabella 2]. Siamo, e di gran lunga, l’ultima regione del centro Italia in questa graduatoria. E se si va a vedere dove vengono impiegati i ricercatori, le imprese private sono l’ennesima nota stonata: per ricercatori nelle Università l’Umbria è sesta in Italia; per quelli nelle imprese è decima.
La tendenza a non innovare del sistema produttivo regionale si riflette nella composizione della forza lavoro. In Umbria nel 2017 lavoravano nelle imprese private 6.267 dipendenti laureati su 153.768 dipendenti complessivi (il 4 per cento). In Italia la media dei dipendenti laureati è del 4,4 per cento. Nella nostra regione il 64,7 per cento degli occupati nelle imprese ha la qualifica di operaio; il 5,5 quella di apprendista. Le percentuali a livello nazionale scendono rispettivamente al 54,6 e al 3,4 per cento. Quello umbro è un sistema produttivo che si colloca su segmenti bassi: innova poco, ha bisogno di manodopera tendenzialmente poco specializzata e di conseguenza tende a non assorbire laureati o ad assumerli per utilizzarli con mansioni al di sotto del loro titolo di studio. La conseguenza di questo è che negli ultimi anni si sta investendo sempre di meno in istruzione, e ciò getta una luce sinistra sulla composizione futura della popolazione regionale. Questa montagna di criticità del mondo dell’imprenditoria regionale produce conseguenze immaginabili. Vale la pena qui sottolinearne due. Fatta 100 la capacità di generare ricchezza della forza lavoro impiegata nel sistema produttivo italiano, in Umbria quel numero si abbassa a 88. Eccolo, il gap di produttività regionale che provoca a sua volta l’abbassamento delle medie dei salari corrisposte in Umbria. E se si misura la capacità di guardare avanti con un altro parametro, quello della produzione di brevetti, la musica non cambia. Nel 2020 in Italia sono stati rilasciati 57.691 brevetti: 61 in Umbria, lo 0,11 per cento; 1.592 in Friuli, il 2,7 per cento. In Umbria c’è un solo istituto autorizzato dal governo nazionale ad accogliere ricercatori stranieri, l’Università degli studi di Perugia; in Friuli se ne contano più di dieci.
Di fronte a un quadro del genere però, il Defr propone soluzioni del tutto sovrapponibili a quelle contenute nel documento di programmazione attualmente in vigore e varato tre anni fa: digitalizzazione, innovazione, aumento della produttività si ripetono come un ritornello, o meglio, una litanìa. Il tutto declinato sempre sotto forma di aiuti e agevolazioni economiche per le imprese. Le quali, in Umbria, hanno incassato almeno 416 milioni dai fondi strutturali Ue nel periodo 2014-2020, e praticamente a ciclo continuo usufruiscono di aiuti che come si è visto sortiscono scarsissimi effetti positivi. Solo per citare gli ultimi: tre milioni per l’ennesima misura di sostegno per il passaggio al digitale, in piena pandemia, e 3,6 per (ancora) ricerca e innovazione.
Se i risultati sono quelli abbozzati sopra, converrebbe forse cambiare strada, guardare quello che succede altrove. Anche se non nel nord Europa, dove gli investimenti in ricerca e sviluppo gravitano intorno al 3 per cento del Pil, almeno nelle regioni meglio attrezzate in Italia. Nel già ampiamente citato Friuli Venezia Giulia c’è il Sistema scientifico dell’Innovazione che mette in rete una serie di soggetti pubblici e privati con lo scopo di tessere relazioni e disseminare i risultati della ricerca in modo che irrorino il sistema nel suo complesso. In Piemonte ci sono sette poli di innovazione (biotecnologie, chimica verde, energia pulita, tecnologie dell’informazione e altro) che hanno lo scopo di individuare i bisogni di innovazione, orientare e supportare le imprese, e rendere i risultati delle ricerche patrimonio comune. In Toscana ci sono due centri di competenza, uno per il 5G e le competenze innovative, l’altro per la cybersicurezza. In Campania i centri di competenza sono otto: beni culturali, informazione e comunicazione, rischio alimentare, farmacia, biotecnologia, trasporti e altro. Cambiano i nomi, ma in ognuna di queste regioni si sono individuate le rispettive vocazioni e si è dato vita a strumenti che mettano in relazione imprese e centri di ricerca e restituiscano l’innovazione al territorio. Cosa hanno in comune il sistema del Friuli, i poli di innovazione del Piemonte e i centri di competenza di Campania e Toscana? Sono iniziative pubbliche, cioè, sostanzialmente quello che manca in Umbria, dove si delega a un sistema delle imprese pressoché asfittico un salto che quelle stesse imprese sono incapaci di realizzare. Su quelle realtà vengono fatti piovere soldi che non ottengono risultati perché è il sistema in sé a essere gracile. Solo un intervento pubblico informato, competente, efficace e cosciente delle buone pratiche sparse qua e là per l’Europa consentirebbe al sistema umbro il salto in avanti di cui ha bisogno. Con buona pace dei furori ideologici conseguenti all’ubriacatura manichea privato-bello/pubblico-brutto.
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