Quanto sia preoccupante lo stato dell’Umbria e quanto occorra una inversione di rotta rispetto a ricette scadenti e parole d’ordine vuote e consunte, ce lo dice anche l’Onu. Le Nazioni Unite hanno approvato cinque anni fa un’agenda per lo sviluppo sostenibile che contiene una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2030. La definizione base dello sviluppo sostenibile, ridotta all’essenziale, è questa: lasciare il pianeta in condizioni tali da non compromettere il soddisfacimento dei bisogni alle generazioni future. Dietro questo impegno, che a prima vista potrebbe sembrare avere a che fare solo con questioni relative all’inquinamento e al corretto uso delle risorse naturali, c’è una visione di sistema. Non c’è sviluppo sostenibile, cioè, senza un innalzamento complessivo delle condizioni di vita e delle consapevolezze diffuse. Concetto che in primo luogo rimanda all’uscita dallo stato di bisogno, e quindi alla liberazione da fame e povertà; ma poi sale pian piano di livello per abbracciare questioni altrettanto vitali come l’istruzione, l’eliminazione delle disparità di genere, la salvaguardia dell’ambiente e la ricerca di modi per rendere le nostre vite e i nostri consumi sempre meno impattanti. Visione di sistema significa che ognuno di questi aspetti influenza gli altri, e tutti insieme vanno nella direzione della costruzione di futuro: sostenibile, se le azioni si riveleranno corrette, in-sostenibile se continueranno a essere impattanti; sostenibile se si va verso garanzie per un sempre maggior numero di persone; in-sostenibile se ricchezze e saperi si accumulano a beneficio solo di alcuni. Tutto questo è stato concretizzato dall’Onu nell’individuazione di 17 obiettivi da raggiungere entro il 2030, appunto.
Cosa c’entra la piccola Umbria? Bene: l’Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) è l’organismo che oltre a lavorare nel nostro paese per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’agenda dell’Onu, ne monitora lo stato di avanzamento. Nel declinare questo suo lavoro, l’Alleanza ha messo a punto un prezioso database nel quale vengono collezionati una serie di indicatori che servono a interpretare la direzione intrapresa dalle varie regioni. Non staremo qui a passare in rassegna la posizione in classifica dell’Umbria nelle varie aree tematiche. Per chi fosse interessato, la documentazione si può consultare al sito www.asvis.it. Quello che qui interessa rilevare è che a guardare i vari indicatori connessi l’uno all’altro appare l’immagine di una regione pericolosamente seduta su se stessa, incapace di immaginare futuro. Avviluppata in riti e liturgie d’altri tempi mentre le sfide là fuori chiedono competenze, culture, immaginazioni e autentiche innovazioni da impastare insieme per uscire dal loop ottundente di passatismo.
Da più di un decennio l’Umbria è immobilizzata in una crisi che è stata raccontata principalmente sotto la forma delle enormi percentuali di Pil perse e degli estenuanti dibattiti su come riacquistare ricchezza. Dibattiti tutti interni a un ceto politico e imprenditoriale che è eufemistico definire autoreferenziali e disconnessi dalla realtà regionale e globale. Nello stesso periodo in cui si è disquisito di Pil e di incentivi di vario tipo per i soliti noti, non è stato fatto nulla, ad esempio, per mitigare seriamente le condizioni di vita dell’oltre dieci per cento di famiglie cadute in povertà nell’arco di dieci anni alle quali va aggiunto il 12,5 per cento di nuclei a rischio di caderci oggi. E per capire quale sia la tendenza, vale la pena rilevare che nel 2018 il 4,7 per cento delle famiglie dichiarava «assolutamente insufficienti» le risorse economiche a disposizione; nel 2019 la percentuale era salita al 5,9. Ancora: il 7,4 per cento dei nuclei dice di «arrivare con grande difficoltà a fine mese» e il 4,2 per cento vive in condizioni di «grave deprivazione». Oltre settantamila persone vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa. Anche perché la disoccupazione, che nella prima decade degli anni Duemila si attestava poco sopra al 5 per cento, oggi si approssima al 10 per cento.
Di fronte a questo disastro, si è continuato e si continua a reiterare in maniera più o meno unanime il concetto del primato dell’impresa nel creare ricchezza e ad agire e legiferare di conseguenza, senza metterla minimamente in discussione quell’entità, l’impresa, in questa regione. Un’idea che non poggia i piedi sulla realtà, perché è da quella stessa entità che si è determinata l’emorragia di occupati e di benessere. Perché?
Il nono degli obiettivi dell’agenda Onu riguarda “imprese, innovazione e infrastrutture”. È un capitolo terribile per l’Umbria un tempo capace di futuro; l’Umbria protagonista della rivoluzione della psichiatria di comunità e della chiusura dei manicomi; l’Umbria che s’inventava le scale mobili all’interno della Rocca Paolina di Perugia, l’Umbria che creava Umbria jazz e che produceva l’acciaio in una fabbrica voluta dal pubblico. Tutte cose che hanno portato questa regione nel mondo e con cui l’impresa privata c’entra assai poco. Quell’impresa oggi fa di questa regione quella a più basso tasso di investimento in ricerca del Centro Italia, e comunque sotto la media nazionale. Qui lavorano 18 ricercatori ogni mille abitanti: la media nazionale è di 23, quella della confinante Toscana di 32. Qui c’è una percentuale di laureati occupati in professioni tecnico-scientifiche più bassa della media, e, ancora, la più bassa del Centro Italia. Per passare all’agricoltura: se a livello nazionale la superficie dedicata alle coltivazioni biologiche rilevata nel 2016 era del 12,3 per cento, in Umbria la percentuale si fermava al 7,9. Ancora: nonostante il tasso di femminilizzazione delle persone laureate sia molto alto; quello del mercato del lavoro vede le donne penalizzate.
Quella appena fatta non è solo una fotografia della situazione. Si tratta di dati che preoccupano poiché allungano la loro ombra sul futuro che verrà. Se non si investe immaginando il nuovo; se non si producono misure innovative per fronteggiare emergenze inedite e ci si affida all’entità dell’impresa, questa impresa, è difficile che gli indicatori migliorino, che un avvenire migliore si affacci. Si prenda il caso dell’acqua. Nonostante con il referendum del 2011 i cittadini hanno deliberato di inibire profitti e privati nella gestione di quel bene essenziale, tanto nella provincia di Terni quanto in quella di Perugia ci si è messi nelle mani di Acea, un colosso nel quale comandano i francesi di Suez SA. Il risultato è che le perdite della rete sono aumentate dal 38,5 per cento del 2012 al cinquanta per cento odierno.
Mentre le classi politiche e imprenditoriali si attardano nel mondo vecchio, in questa regione si stanno riaffacciando fenomeni da Italia degli anni Sessanta. Oltre un terzo delle persone abita in case sovraffollate e l’abusivismo edilizio è balzato dall’8 per cento del 2010 al 18,4 per cento del 2018. E ci sono segnali apparentemente sottotraccia che sono invece il sintomo di una regione pericolosamente appesantita. Nel 2018 la percentuale di persone di età superiore ai 14 anni che presentavano almeno un comportamento a rischio nel consumo di alcol è stata del 18 per cento, risalita ai livelli del 2010 dopo anni di calo costante. Nello stesso anno l’Umbria è stata la quarta regione italiana per consumo di psicofarmaci. Sono dei macroscopici indicatori di malessere che sono espunti dal dibattito pubblico. Se li si unisce al fatto che un giovane su cinque al di sotto dei 29 anni non è impegnato in attività di formazione e di lavoro e che il tasso di laureati, storicamente sempre sopra la media nazionale, nel 2018 è sceso al di sotto, si capisce come quella che definiamo “mancanza di capacità di futuro”, sia una morsa che si sta stringendo dai livelli macroeconomici alla vita quotidiana delle persone, le quali non investono neanche più per migliorare le proprie condizioni e rischiano di appannarsi nell’uso di sostanze che rendano la realtà appena più sopportabile di quella che è diventata.
Come se ne esce? Di ricette miracolose non ce ne sono. Ma una cosa si può dire. La realtà che abbiamo sotto gli occhi e che in molti si rifiutano di vedere è frutto di ciò che è stato finora ed è tuttora: dibattiti sfinenti (e misure conseguenti) su infrastrutture, incentivi, appannaggi che partono dall’assunto che l’impresa privata sia il traino dello sviluppo. Per l’Umbria non è così. E se un suggerimento si può prendere dall’agenda dello sviluppo sostenibile dell’Onu per uscire da questa strada apparentemente senza uscita che la regione pare aver imbucato, è quella di una maggiore partecipazione nei processi decisionali e gestionali; non dell’impresa, ma delle persone. Cosa che già di per sé avrebbe un effetto di sparigliamento e, quindi, di innovazione rispetto al grigiore con cui da queste parti si continua a tingere il futuro. Perché se manca un ingrediente da troppo tempo in Umbria, quello è la mancanza di capacità di osare. Tagliando le unghie, se serve, a lobby e potentati che non sono di interesse pubblico.
Nessun commento:
Posta un commento