Nel suo ultimo aggiornamento sull’economia dell’Umbria pubblicato a novembre 2020 Bankitalia ha rilevato che nei primi sei mesi dell’anno si sono registrati il 2,9 per cento di occupati in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il saldo assunzioni/licenziamenti è stato di –3.700. Il prezzo l’hanno pagato in massima parte i titolari di un contratto a tempo determinato (circa seimila in meno rispetto al 2019), che sono in grande maggioranza giovani sotto i 29 anni.
Nel mese di aprile, ogni tre persone che perdevano il lavoro, due erano in quella fascia di età. I precari in questa regione sono 50 mila, e sono enormemente cresciuti nel corso degli anni. Oltre a non avere la sicurezza del posto, percepiscono un salario lordo che è di meno di 12 euro/ora, inferiore di oltre il 10 per cento rispetto alla media, secondo i dai Istat.Chi perde…
Si è sentito spesso reiterare in questi mesi il concetto della presunta democraticità del coronavirus, che colpirebbe nella stessa misura ricchi e poveri, chi sta coperto e chi arranca. Certo, il virus s’inchina davanti all’uguaglianza biologica degli umani. Il fatto è che su quell’uguaglianza di nascita si innestano fin dal primo giorno di vita di ognuno di noi una serie di distorsioni. La salubrità e la confortevolezza dell’ambiente in cui si vive, la possibilità di accesso a diagnosi precoci e cure, l’essere inseriti in una rete o lo stare ai margini sono tutte variabili che incidono anche su come si affronta una pandemia. Si pensi a chi ha potuto affrontare una condizione di isolamento in case con spazi adeguati e chi ha invece infettato i propri familiari perché costretto a convivere in luoghi angusti. E se reddito, potere d’acquisto e ricchezza posseduta sono fattori potenzialmente in grado di determinare il decorso di una malattia o addirittura di prevenirla, diventano ancora più decisivi dal punto di vista della tenuta economica degli individui. A questo proposito, avendo accumulato ormai qualche dato, si può concludere che no, il virus non è per niente democratico, e anzi esacerba le condizioni di disuguaglianza di partenza.
…e chi vince
Negli stessi mesi del lockdown e della prima ondata in cui si contraeva in maniera così consistente la fascia di popolazione al lavoro, le banche registravano una poderosa crescita dei depositi di cui sono titolari le imprese umbre. Nel mese di settembre, è sempre il rapporto di Bankitalia a rilevarlo, si è arrivati a un +29,2 per cento di liquidità detenuta dalle aziende in conti correnti e strumenti affini rispetto al settembre 2019. Anche i depositi delle famiglie sono aumentati, ma le famiglie non licenziano nessuno. Invece, incrociando i dati sulla disoccupazione e sui contratti non rinnovati e quelli dell’aumento dei soldi in banca, si può neanche troppo grossolanamente concludere che nello stesso momento in cui trasformavano in disoccupati i loro dipendenti precari, le aziende di questa regione ingrassavano il loro conto corrente.
Il virus diseguale
In sei mesi si è dunque redistribuita ricchezza al contrario, a causa del virus. Più soldi nelle casse delle imprese e meno a giovani e precari che perdevano il lavoro. E tantissime persone che sono cadute sul ciglio della soglia di povertà. Nel Rapporto del ministero del Lavoro sul reddito di cittadinanza si legge che nel 2019 avevano beneficiato del reddito di cittadinanza 11.891 famiglie in Umbria. Secondo Bankitalia, nei primi nove mesi del 2020, tra il reddito di cittadinanza e il reddito di emergenza nel frattempo varato dal Governo, erano saliti a 14 mila i nuclei familiari ad aver avuto accesso ad aiuti per categorie in grave difficoltà, per un totale di persone coinvolte oscillante intorno alle 40 mila. E si tratta di un dato che fotografa solo parzialmente la situazione. Lo testimonia, a livello empirico, il gran numero di richieste che sta arrivando in questi mesi ai gruppi di solidarietà che da Perugia a Terni a Orvieto a Marsciano e in molti altri centri della regione sono spuntati come funghi a soddisfare bisogni impellenti e stanno distribuendo generi alimentari e beni di varia natura a chi è stato prepotentemente fiaccato dalla pandemia. Ma lo dice anche un altro dato: dal beneficio del reddito di cittadinanza sono esclusi i cittadini stranieri che non risiedano in Italia da almeno dieci anni. Ora: in Umbria risiedono oltre 90 mila stranieri, e nel 2012 solo un terzo di essi era residente in Italia da almeno dieci anni. Di più: la manodopera straniera è impegnata in questa regione in settori pesantemente colpiti dalla crisi e gode di un salario orario lordo che è del 18 per cento inferiore alla media di quanto percepisce un lavoratore italiano. Facile comprendere come ci sia all’interno di quella fascia di popolazione una quota consistente di persone che non potendo accedere al reddito di cittadinanza sfugge alla conta dei nuovi poveri.
I diecimila più ricchi hanno quanto i duecentomila più poveri
Fin qui la situazione, ma visto che le condizioni di partenza, come dicevamo all’inizio, contano, vale la pena accennare a dove eravamo quando è arrivata la pandemia. Nel 2019 i diecimila umbri più ricchi (l’1,5 per cento dei contribuenti) avevano dichiarato un reddito che equivaleva a quello dei 217 mila residenti più poveri, che rappresentavano il 34,5 per cento di coloro che avevano compilato la dichiarazione dei redditi. Dieci anni prima, lo stesso 1,5 per cento più ricco dichiarava al fisco quanto il 32,2 per cento più povero. Segno che in dieci anni (e anche quelli sono stati di crisi), c’è stata – ancora – una redistribuzione al contrario della ricchezza: di più a chi già aveva, di meno a chi aveva di meno. Nel 2014, informa l’Istat, nel quinto di famiglie umbre che spendeva di meno c’erano il 14,8 per cento dei nuclei; nel 2019 la percentuale era salita al 20,2. Secondo un’analisi del dipartimento delle Finanze sull’impatto del covid sulla disuguaglianza dei redditi fatta a livello nazionale, la maggiore contrazione di reddito è stata subita dal 10 per cento della popolazione più povera. Solo in seguito alle misure di sostegno adottate dal governo la situazione si sarebbe parzialmente riequilibrata. Rimane il fatto che le fasce povere o poverissime di popolazione hanno subito decurtazioni che vanno dallo 0,5 per cento in su. I ricchissimi, cioè il 10 per cento più abbiente che nel 2019 deteneva secondo Eurostat il 24,5 per cento del reddito totale, avrebbe perso l’1,5 per cento. Percentuali che sono andate a erodere nel primo caso poche manciate di euro, e nel secondo redditi da decine di migliaia di euro. Il virus insomma sta allargando una forbice che già da anni si stava ampliando, e a livello locale non solo non vengono investite risorse, ma il tema non è per niente all’ordine del giorno. Nel programma elettorale dell’attuale presidente di Regione, Donatella Tesei, ad esempio, la parola povertà compariva otto volte, la maggior parte delle quali come pretesto per attaccare i governi precedenti. La parola imprese, invece, si ripeteva per 71 volte.
Il rischio della guerra tra poveri
Si tratta delle stesse imprese che in piena pandemia hanno licenziato i dipendenti per mettersi da parte i soldi? In parte sicuramente sì. Anche se è il caso di operare delle distinzioni. Perché oltre a contribuire all’aumento delle disuguaglianze, il coronavirus rischia di non fare apprezzare nella giusta misura delle differenze che le classiche divisioni per categoria (impresa/dipendenti) non aiutano a comprendere. Non tutte le imprese sono uguali. E anzi, ci sono i piccoli, professionisti o partite Iva che siano, su cui l’impatto del covid è stato particolarmente pesante. L’universo dei lavoratori autonomi in Umbria è composto da 90 mila persone. Secondo l’Indagine straordinaria sulle famiglie italiane condotta da Bankitalia, le categorie che lamentano la maggiore erosione di reddito in seguito alla pandemia sono quelle dei disoccupati e degli autonomi. Lavoratori autonomi e disoccupati sono anche le categorie più pessimiste sul futuro prossimo. Se si incrocia questo dato con un altro, emerso dall’ultimo rapporto del Censis, si capisce come la china sia preoccupante. Secondo l’85,8 per cento del campione intervistato, «la vera disparità sociale in Italia è tra chi ha la sicurezza del posto di lavoro e chi no». Il clima venefico lo si raccoglie anche guardando il grado di insicurezza con cui i dipendenti delle piccole aziende percepiscono il loro futuro: oltre la metà di quelli che lavorano in imprese con meno di nove dipendenti non sono sicuri di mantenere il posto. Il rischio è insomma che si guardi ai dipendenti pubblici, quelli “sicuri”, come ai detentori di un privilegio che sta altrove.
Impiegati, insegnanti, infermieri: caccia alle streghe?
Lo scivolamento, coadiuvato anche da una parte del sistema dei media e di opinionisti, va verso lo stato d’accusa di persone che nella stragrande maggioranza dei casi guadagnano all’incirca 1.500 euro al mese: funzionari pubblici, insegnanti, dipendenti della sanità. Questo succede perché si fa confusione tra categorie. Sì, ci sono lavoratori le cui garanzie hanno fatto da argine contro la piena della pandemia e altri che sono stati travolti; ma appunto non si possono chiedere sacrifici a chi guadagna il minimo indispensabile per arrivare a fine mese. Il punto è che pure le imprese, e con loro gli imprenditori, non sono affatto tutti uguali. C’è chi ha messo da parte i soldi licenziando e ci sono i piccoli e piccolissimi imprenditori, o autonomi, pesantemente colpiti. I soldi da redistribuire ci sono, ci sarebbero. Per le misure da prendere basterebbe guardare la mole di studi pubblicata in questi mesi. Distinguere e cercare le risorse laddove sono rintanate potrebbe essere una prima parte della soluzione; distribuirle alle categorie davvero più colpite, che di rado coincidono con quelle il cui lamento è più rappresentato dai media, è il seguito. I dati si conoscono, e ciò rende gli alibi, le propagande e i pianti dei coccodrilli dopo essersi arricchiti ancor più grotteschi, in un panorama disastrato come quello che abbiamo davanti.
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