Per rispondermi al telefono Renata Stefanini Salvati interrompe la lettura mattutina dei quotidiani: «Ne leggo tre al giorno, Repubblica, Corriere della Sera e Messaggero». Nel corso della chiacchierata mi dirà anche i titoli dei libri che sta leggendo in questo periodo; vale la pena citarli perché aiutano a capire il cuore delle ragioni per cui, almeno dal mio punto di vista, si è acceso l’interesse per questa donna che ha fatto la partigiana prima, la dirigente del Pci ternano poi, e l’imprenditrice di successo in seguito. I libri sono “A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia”, di Ilaria Poerio; “Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi”, di Mirella Serri; e “Un popolo come gli altri”, un volume di Sergio Luzzatto sulla storia degli ebrei.
Si tratta di tre volumi che esplorano le ragioni di minoranze perseguitate, di eretici rispetto al potere egemone, gli interstizi di disobbedienze, ognuna con le sue particolarità. Non è un caso. Perché Renata Stefanini Salvati, prima donna assessora nel comune di Terni negli anni duri eppure entusiasmanti della ricostruzione post bellica, è stata in primo luogo una disobbediente. Come antifascista nel pieno del regime, come donna in un partito e in una società connotati da maschilismo, e come comunista che ha anelato a una società più giusta opponendosi a quella che aveva intorno. Ha disobbedito anche in occasione del cambio di nome del partito, lei, migliorista, e quindi “di destra”, si è schierata con chi si opponeva allo scioglimento del Pci. Oggi è una delle poche persone che si incontrano in giro che ti dica che Berlinguer non le piaceva. Ha vissuto, anzi, è stata protagonista di un’epica in cui dopo essersi sbarazzati dei fascisti a prezzo del sangue, si ricostruivano scuole in mezzo alle macerie con una cura che si soffermava anche sui particolari del portale principale degli edifici, testimonianza dell’importanza che quella generazione ha attribuito allo studio. Memorabile in questo senso la lettera che Mario Ridolfi, straordinario architetto che ha lasciato tracce indelebili nella Terni ricostruita, le scrive mentre lei, da assessora all’Istruzione, seguiva la realizzazione di quello che sarebbe diventato l’istituto “Leonardo Da Vinci”, nel cuore della città sfigurata dalle bombe. Eppure questa donna che ha cavalcato la storia del suo tempo, è capace di schermirsi quando le chiedi delle sue scelte da far tremare le vene ai polsi. «Guardi – racconta - a volte le cose avvengono per caso. Io ad esempio sono diventata partigiana perché mi trovavo rifugiata nel Chianti insieme al mio primo marito, che era renitente alla leva. Avevamo trovato rifugio grazie a un imprenditore che ci aveva messo a disposizione il piano superiore di una cascina. Un giorno, dal piano di sotto dove abitava una famiglia di contadini che era ignara dei motivi per cui eravamo lì, sento uno sparo. Mi precipito in direzione del rumore e trovo questa scena: il figlio in mezzo a pistole, bombe e munizioni mentre incrocio lo sguardo atterrito del padre. Mi dirigo verso di lui per abbracciarlo e rassicurarlo e gli dico: “Guardi, sono antifascista come voi”. È stato così che sono diventata staffetta partigiana e ho iniziato a trasportare in bicicletta armi e materiale di propaganda. Salutavo le guardie fasciste che incrociavo sorridendo, per dissimulare, ma avevo una gran paura. Ho fatto talmente tanti chilometri su quella bicicletta che dalla fine della guerra non ho mai più pedalato».
Ci sono diversi episodi che lei racconta nel libro in cui ha racchiuso i ricordi della sua attività politica (“Sono stata una rivoluzionaria di professione”, edizioni Thyrus) che sono altrettanti esempi di disobbedienza. Mi pare emerga che uno dei suoi tratti principali sia quello di essere stata una ribelle. Si riconosce in questa definizione e, se posso chiederglielo, si sente ancora così?
«Certo. Penso ad esempio che oggi siamo vittime di una classe politica incapace di fare scelte forti e di mantenerle, e non faccio distinzioni di schieramento. Guardi cosa sta succedendo col covid: ognuno vorrebbe governare l’emergenza a modo suo, quando invece servirebbero delle scelte vincolanti su tutto il territorio nazionale e poi la forza di farle rispettare. Credo di essere stata l’unica comunista ad andare a protestare nella sede nazionale quando il Pci, in Assemblea costituente, accettò l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione».
Anche con il Pci ha avuto un rapporto non privo di scossoni, eppure ha continuato a fare la tessera fino al suo scioglimento, anche dopo aver terminato la sua esperienza di dirigente.
«Il Pci degli anni cinquanta era un partito austero, severo. In Federazione c’era un ufficio quadri che teneva sotto controllo la vita dei dirigenti e redigeva periodicamente relazioni che venivano inviate a Roma. Sono rimasta nel partito anche dopo che venni costretta a inspiegabilmente a dare le dimissioni da assessora, un episodio che mi ha molto amareggiata e mi ha portato a rimanere nel Pci da semplice tesserata. Ma sono rimasta anche con Berlinguer, di cui non ho mai apprezzato la mancanza di coraggio nel prendere le distanze da Mosca. Quando alla fine degli anni Cinquanta andai a mie spese in Unione sovietica vidi quello che non veniva raccontato: il popolo costretto a file interminabili per acquistare beni di prima necessità e le mogli dei funzionari di partito nei negozi dove si comprava in dollari. Tornai e cominciai a dirlo, e quella fu una cosa che non mi venne perdonata».
Però nel partito è rimasta fino alla fine. E per certi versi è stata disciplinata, almeno a guardare le cose dall’esterno.
«I comunisti hanno dato un contributo immenso alla Resistenza, e per me il comunismo è il soldato dell’Armata Rossa che issa la bandiera sul Reichstag a Berlino, oltre che un ideale di libertà e solidarietà. Tutto questo va oltre le amarezze che ho patito. Vede, il Pci all’esterno appariva come un monolite, ma all’interno si discuteva, e molto. Solo che una volta che veniva presa una decisione, quella era la decisione di tutti, e questa è una caratteristica che la politica ha perso, e i risultati si vedono, purtroppo, con l’incapacità di prenderle, le decisioni».
Non crede che il suo essere donna e di estrazione borghese abbia potuto in qualche modo danneggiarla?
«No, è che io non ho mai fatto passare niente, ho sempre detto come la pensavo. Ho fatto battaglie di cui vado fiera, senza le quali le condizioni misere della popolazione e in particolare quelle dei bambini privati di tutto non sarebbero state risolte, o lo sarebbero state con tempi molto più lunghi. Questo mi ha provocato dispiaceri pure a livello personale, anche se non sono mai riuscita ad odiare, fatta eccezione per i tedeschi».
Infatti a distanza di anni lei nel suo libro usa la parola compagni, segno che il legame è rimasto saldo.
«La Resistenza ha creato dei rapporti di fiducia, di amicizia, di amore, oserei dire. La parola compagno non è da intendere in maniera “sovietica”, ma umana. È la traduzione del rapporto che ci legava. Ancora oggi ricordo i compagni e le compagne di quel periodo con grande affetto».
Se il rapporto con il Pci è stato turbolento, c’è stato quello con le donne che invece l’ha in qualche modo appagata.
«Sono arrivata all’Udi (Unione donne italiane, ndr) per decisione del partito. All’epoca quell’associazione era una cinghia di trasmissione, come si diceva, del Pci. E sì, quella è stata un’esperienza meravigliosa, perché c’era il meglio delle idealità del partito unito a una maggiore libertà. Le donne incrociavano in prima persona i bisogni di una società, oltre che di una città, da ricostruire: cibo, istruzione, salute, eravamo in condizioni catastrofiche e le donne erano le prime a saggiare la situazione. Insieme abbiamo protestato, preso manganellate e abbiamo fatto tantissimo per una città devastata che successivamente, negli anni cinquanta, ha dovuto fare i conti anche con l’aggressività delle acciaierie, che licenziavano gli attivisti comunisti lasciando nella miseria migliaia di famiglie. Il Comune a quei tempi spendeva più in assistenza che in lavori pubblici, tanto per darle un’idea. E il lavoro all’interno dell’Udi è stato ispirato agli stessi principi della mia vita da dirigente politica e da amministratrice. Ho sbattuto i pugni su diversi tavoli, soprattutto per garantire un futuro dignitoso ai bambini e ai giovani della città uscita dalla guerra. E questo voleva dire, oltre che assicurare l’indispensabile, pensare anche allo sviluppo umano. Di qui la grande attenzione messa sulle scuole, che dovevano risorgere in fretta: il progetto affidato a Ridolfi per la realizzazione della “Leonardo Da Vinci” e la trattativa per avere dai preti di San Pietro l’utilizzo dei locali all’inizio di via Manassei per la riconversione in scuola le ricordo come due battaglie di cui tuttora vado fiera. E le posso dire una cosa? Penso che se c’è una cosa buona in questo periodo buio è che si sia deciso di far restare le scuole aperte, almeno per i più piccoli».
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