Coloro ai quali a sinistra non va giù la vittoria di Renzi e la platea di quelli che invece lo guardano con simpatia sono accomunati almeno da una caratteristica: trascurano (o hanno trascurato fino a ieri) un particolare non propriamente secondario. I primi si rifiutano di riconoscerlo. I secondi se ne entusiasmano, ma anche loro non ne colgono la portata. Il particolare è questo: Renzi rappresenta davvero l'Italia. Un paese logorato, malfidato, dove l'orizzonte si chiude sull'uscio di casa. Sfinito fino a diventare pigro e per questo pronto a saltare da Berlusconi a Grillo al sindaco di Firenze senza pensarci troppo sopra, nonostante la pubblicistica
mainstrem li dipinga come alternativi tra loro (anche se si assomigliano in maniera clamorosa e non a caso nelle teste degli elettori sono in larga parte intercambiabili, e questo la dice lunga anche sulla pubblicistica
mainstream). Un paese col fiato corto e quindi impreparato a percorsi lunghi e impegnativi come quelli che sarebbe necessario intraprendere in un momento come questo. Un paese che per capirlo meglio occorrerebbe coniare un neologismo e studiarlo: lo sbrigativismo. Che è una piaga sociale, non solo relegabile alla “politica politicante”.
Lo sbrigativismo è il rifiuto della complessità, e quindi della vita. Lo sbrigativismo è un'illusione ottica: appare risolutivo ed efficiente e invece costringe anche nel breve periodo a dispendiose cure per riparare i guasti procurati. Lo sbrigativismo è la negazione dell'innovazione, che per definizione necessita di laboratori e procede per aggiustamenti ed errori. Lo sbrigativista predilige la brevità e l'univocità del messaggio. Anche per questo la forma di comunicazione che continua a essere premiata è quella “uno a tanti”: è la preferita dai leader sbrigativisti, ovviamente. Ed è accettata dalla platea sfinita che li ammira. In questo senso andrebbe una volta per tutte ridimensionata la retorica sui social media: i social sono orizzontali quando ad utilizzarli sono i pari, tra loro. Nel momento in cui entra in scena un attore dominante la forma torna a essere quella canonica, cioè televisiva: il blog di Grillo, autentico organo di partito, è l'emblema di questa verticalità mascherata da agorà. Da questo discende almeno una conseguenza di una certa rilevanza ai fini del discorso che si intende fare qui: la forma di gestione della cosa pubblica che trionfa ai tempi dello sbrigativismo imperante è la delega. Ma si badi: la delega a uno e uno solo. Perché uno, da solo, decide prima e deresponsabilizza tutti gli altri (compreso chi ha attribuito la delega). Ciò significa tagliare fuori tutti coloro e tutto ciò che, problematizzando, rallenta i processi. Perché in tempi di sbrigativismo non occorre tanto fare bene quanto fare in fretta, mostrare i risultati.
Certo, non tutto è così. Non tutti in Italia sono ammiratori dello sbrigativismo. Ma la grande maggioranza lo è (e per capire come si sia arrivati a questa grande maggioranza si necessitano intere biblioteche). E, questo è l'altro punto, in tempi di dittatura della maggioranza per le minoranze i margini di manovra si riducono al minimo. D'altro canto, quella sbrigativista non potrebbe essere altro che una maggioranza “dittatoriale”. Non c'è tempo per affrontare questioni di sistema, né di star lì a spaccare il capello in quattro. Ci si deve muovere. Anche se, siccome lo sbrigativismo è il paradiso degli ossimori, dà solo l'illusione di muoversi, facendo rimanere perfettamente immobili. E qui veniamo a Renzi.
Essendo lo sbrigativismo innanzitutto rifiuto della complessità, Renzi ne rappresenta bene l'essenza parlando a un tutto indistinto: la gente. Difficilmente, se non per brevi spot, nei discorsi del neo segretario del Pd compaiono le categorie: i precari, le donne vittime di pregiudizi ottocenteschi, i giovani in gamba appesi al parere di baroni universitari, quelle e quelli con ottime idee ma zero soldi che banche medievali non finanzieranno mai, i migranti che faticano il triplo degli autoctoni. Nella narrazione renziana scompaiono i lavoratori. L'attore principale, indiscusso, se si parla di produzione, è l'imprenditore. Come se chi porta alla produzione il suo lavoro, il suo talento, fosse una sorta di escrescenza, di errore della storia. Lo si nota poco perché questo è uno dei grandi assi portanti dello sbrigativismo, metabolizzato ormai da decenni dalla maggioranza sbrigativista: nell'impresa i lavoratori non esistono, esiste solo l'imprenditore.
Nel discorso di Renzi, come in ogni sceneggiatura ben costruita, ci sono invece l'eroe (la gente, appunto) e l'antieroe, che oggi ha assunto le fattezze della categoria contro la quale è più facile prendersela, quelle nomenclature di politici che in quanto a impresentabilità temono la concorrenza di pochi, in effetti. Si sbandiera il cambiamento (cioè, sempre per rimanere in tema di sceneggiatura, l'obiettivo cui tende l'eroe e che viene negato dall'antieroe), perché la platea è sfinita dallo spettacolo andato avanti finora e quello reclama, il cambiamento. Ma in quel discorso manca del tutto l'aggressione ai nodi cruciali, sciogliendo i quali si potrebbe sperare di cambiare le cose. Il cambiamento è tanto di frequente evocato, quanto sbiaditi sono i contorni che dovrebbe avere (anche perché questo è funzionale al parlare alla gente, a un "tutto indistinto", evitando di assumersi l'impegno della scelta). Si potrebbe farla lunga, ma per capire la differenza di orizzonti è sufficiente citare Bill de Blasio, diventato sindaco di New York sbandierando la sua famiglia “diversa” e dicendo chiaro e tondo che avrebbe aumentato le tasse a chi i soldi ce li ha per finanziare scuole e ospedali fruibili da tutti. Cioè facendo le scelte di campo che il sindaco di Firenze invece si guarda bene dal fare, mascherandosi dietro slogan in grado di accontentare tutti e puntando sulla performance attoriale, per rendere al meglio la sceneggiatura attenta che gli è stata costruita intorno.
Detto ciò, cosa rimane da fare alle minoranze schiacciate dalla dittatura della maggioranza sbrigativista? Rimanere parte attiva. Lavorare ovunque, ove se ne abbia l'agibilità, per affermare principi alternativi (altra parola scomparsa). Per riportare al centro la complessità dei sistemi, che non significa non prendere decisioni, ma prenderle meglio; per rimettere al centro lo studio delle questioni, che non significa inefficienza e perdita di tempo ma il suo contrario. Dimostrare, esistendo, che la sostanza è più importante della performance attoriale. E che non esiste un tutto indistinto, la gente. Ma esistono i tanti, diversi, a volte confliggenti.