Le forze dell’ordine sono dovute intervenire per sedare una lite condominiale in una palazzina di Contursi al termine della quale si sono contati diversi feriti. Il motivo della contesa è stato il mancato accordo sul brano da cantare sui balconi alle 18 di giovedì 19 marzo. La fazione dei tradizionalisti, capeggiata da Mario Rissetti, 48enne con precedenti per vendita di cd abusivi di Gigi d’Alessio, proponeva “L’italiano” di Toto Cutugno, mentre gli autonominatisi “innovatori” volevano fortemente l’ultimo successo sanremese di Elettra Lamborghini. La situazione, già al colmo dell’esasperazione, pare sia precipitata quando un condomino ventenne si è lasciato sfuggire “Ammazza che musica de merda che sentite tutti quanti!”.
Il coronavirus nel frattempo sta costringendo le forze politiche a rivedere le rispettive strategie di comunicazione. Il M5S è quello che si è trovato più in difficoltà dal momento che il leader politico attuale, Vito Crimi, sta cercando di farsi spiegare il significato della parola “strategia”. «Una volta che l’avrà capita la strada sarà tutta in discesa – confidano gli spin doctor del Movimento – perché in due-tre giorni al massimo avrà imparato anche il significato di “comunicazione”».
Il fatto che mezzo Pd si trovi costretto alla quarantena allevia di molto i cronisti, abituati a districarsi tra le differenti posizioni che usualmente caratterizzano le varie anime del partito: ad oggi se ne contano solo 26, anche se Anna Ascani sta per uscire dal periodo di isolamento forzato e contribuirà alla ventisettesima. Si potrebbe arrivare a 28 con l’immancabile “Ce lo chiede l’Europa”, anche se di questi tempi neanche Dario Nardella sembra propenso a farla propria.
In difficoltà Matteo Renzi, il quale è in attesa che la destra faccia la prima mossa per spararla ancora più grossa.
I due leader sovranisti dal canto loro avrebbero già fatto del loro meglio se solo non fossero stati costretti a fronteggiare degli imprevisti per cui la parte più movimentista di Lega e Fratelli d’Italia ha subito proposto la galera, salvo ricredersi quando gli è stato fatto capire che in galera ci possono andare solo le persone e non anche i nomi comuni di cosa.
All’interno di Fratelli d’Italia una fronda, subito ribattezzata demo-pluto-massonico-eccetera-eccetera dalla maggioranza, ha proposto un flash-mob. Su di loro è caduta la scomunica di Giorgia Meloni, la quale ha espulso tutti dal partito con l’accusa di esterofilia e ha però fatto sua l’idea varando un “movimento di un istante”, questo il nome scelto per l’iniziativa da una Meloni che nel presentarla si è lasciata sfuggire “E parliamo italiano, cazzo!”. L’idea era di cantare l’inno di Mameli accompagnati dall’orchestra in tonalità di “sol”, ma quelli di Fratelli d’Italia, timorosi che quella nota potesse rimandare al “sol dell’avvenire” socialista, hanno all’ultimo momento deciso di farla in “do” dando luogo a una terribile cacofonia, parola italianissima utilizzata qui per sostituire un più volgare “figura di merda”.
Salvini invece, era da giorni in giro alla ricerca di cibo italiano da comprare. Aveva optato per una semplice e autarchica pasta al pomodoro, ma poi gli hanno spiegato che il grano per gli spaghetti arriva dall’Ucraina e la polpa di pomodoro la spremono a mano degli immigrati clandestini che prendono 3 euro per ogni quintale raccolto. A quel punto, il leader leghista, preso dal nervosismo, si è acceso una Marlboro, ma quando il capo della “Bestia” Luca Morisi gli ha sussurrato all’orecchio che la Philip Morris, produttrice del tabacco, è americana, ha avuto una crisi di panico per la quale i medici sono dovuti ricorrere a una potente dose di xanax. Una volta riavutosi, Salvini ha voluto sapere dettagliatamente che cosa gli fosse successo, e quando gli è stato riferito che lo xanax è prodotto dalla Pfizer, multinazionale farmaceutica statunitense, ha avuto un nuovo mancamento dal quale si risveglia ogni tanto solo per gridare “Allah akbar”.
mercoledì 18 marzo 2020
venerdì 13 marzo 2020
Coronavirus, una settimana cruciale
La prossima settimana sarà cruciale per capire se riusciremo a uscire indenni dall’epidemia di coronavirus. Questo è lo scenario più probabile.
Giorno 1 – Conte appare in diretta tv per comunicare il divieto di uscita sul balcone; mentre parla, la telecamera coglie un leggero tremore del labbro inferiore del premier che tranquillizza tutti: “È solo un po’ di stress”. Viene divulgato un audio di Rocco Casalino che si lamenta perché il coronavirus gli ha fatto saltare l’appuntamento dal parrucchiere. Salvini non viene invitato a nessun talk show ma appare in diretta su facebook davanti a un gigantesco piatto di impepata di cozze invitando a mangiare italiano. Giorgia Meloni chiede di chiudere i tombini perché il coronavirus potrebbe arrivare anche da lì. A Castelverrino, in provincia di Isernia, il 77enne Egidio Integerrimi esce di casa dicendo alla moglie: “Vado a comprare le sigarette”. Dopo dieci minuti la moglie ci ripensa e lo chiama al cellulare chiedendo: “Dove cazzo vai che non hai mai fumato in vita tua?”.
Giorno 2 – Conte appare in diretta tv per comunicare l’invito a scegliersi una stanza e restare chiusi lì dentro; la telecamera immortala un battito innaturale delle palpebre del premier che tranquillizza tutti: “Tranquilli, è solo un po’ di stress”. Circola un audio di Rocco Casalino incazzato perché a causa del coronavirus ha dovuto disdire la prenotazione del fine settimana in beauty farm. Salvini non viene invitato a nessun talk show e appare in diretta su facebook, ma dopo dieci secondi si sente distintamente il vicino di casa che grida: “Hai rotto il cazzo”. Giorgia Meloni chiede di chiudere tutte le bottiglie aperte che si hanno in casa perché il coronavirus potrebbe arrivare anche da lì. A Rondanina, in provincia di Genova, la 65enne Elisabetta Fuita viene sorpresa dal marito mentre tenta di calarsi dal balcone di casa dopo aver trasformato le lenzuola buone del corredo in una fune.
Giorno 3 – Conte appare in diretta tv senza cravatta e con i capelli in disordine chiedendo agli italiani di trovare riparo sotto i rispettivi letti e chiude la comunicazione facendo marameo con la mano ma si scusa subito dopo: “È solo un po’ di stress”. Rocco Casalino viene beccato in un fuorionda che si lamenta perché il ristorante in cui era solito mangiare il tartufo bianco di Alba ha chiuso nonostante potesse rimanere aperto poiché vende anche le sigarette. Salvini non viene invitato a nessun talk show e appare in diretta su facebook in evidente stato di ebbrezza invitando a bere italiano. Giorgia Meloni chiede di individuare tutti i manufatti made in China che si hanno in casa e sigillarli negli armadi perché il coronavirus potrebbe arrivare anche da lì. A Erba, il 18enne Mauro Cartini scende in cortile con gli amici, si arrotola una canna e inizia a fumarla dicendo: “Mi dispiace, è proprio un peccato non potervela passare”.
Giorno 4 – Conte appare in diretta tv in maniche di camicia chiedendo agli italiani di accendere un cero alla madonna e poi dicendo “piripiripiri”, spiegando poi: “Lo stress non c’entra, mi sono rotto proprio i coglioni”. Rocco Casalino confida in un messaggio audio a una chat di giornalisti che ha dovuto rinunciare al bagno nel latte di capra che aveva appena preparato perché è stato richiamato di corsa a Palazzo Chigi poiché il premier comincia a dare segni di cedimento. Salvini appare in diretta facebook con “You can leave your hat on” come sottofondo mentre con sguardo lascivo si slaccia la camicia dicendo: “È italiana”. Giorgia Meloni chiede di chiudere la galassia agli extraterrestri perché il coronavirus potrebbe arrivare anche da lì. Il 58enne Michele Vendetti esce di casa e va a starnutire in faccia al coetaneo Eros Minuti, che quarantacinque anni fa si era fidanzato con una sua ex della quale lui era ancora innamorato.
Giorno 5 – Conte manda in diretta tv al posto suo Rocco Casalino che confida agli italiani che a causa del coronavirus ha dovuto rinunciare al torneo di burraco del giovedì. Salvini in diretta facebook risponde al cellulare convinto che sia Bruno Vespa che lo invita a “Porta a Porta”, quando scopre che a chiamarlo è un call center che gli chiede di passare a Vodafone, esce sul terrazzo e minaccia di buttarsi. Giorgia Meloni che si trova a passare da lì lo invita a chiudere la finestra perché il coronavirus potrebbe arrivare anche da lì. Elettra Scotorni, 22enne influencer esperta nel non saper fare una minchia, chiede i danni a Instagram perché i follower cominciano a diminuire nonostante lei usi l’hashag #coronavirus.
Giorno 6 – Conte manda in tv un vecchio video di Rocco Casalino al Grande Fratello e alla fine appare in t-shirt e con la barba lunga dicendo: “Italiani, se c’è riuscito lui a rimanere chiuso in una casa per mesi, potete farlo anche voi”. Poi comincia a cantare “Brigitte Bardot Bardot” senza accampare la scusa dello stress. Salvini appare in diretta tv con una felpa in cui c’è scritto: “Coronavirus, co’ le mani quanno te pare”. Giorgia Meloni invita a chiudere i libri perché il coronavirus potrebbe arrivare anche da lì. A Forlimpopoli, la 46enne Giuditta Alessandrini entra in un supermercato, va dal direttore e chiede: “Quanto vuoi per tutto quello che c’è qui dentro?”.
Giorno 7 – Conte appare in diretta tv senza dire nulla, solo facendo di corsa da sinistra a destra e da destra a sinistra e salutando con la mano quando passa davanti alla telecamera. Rocco Casalino lo blocca lamentandosi che a causa sua e del coronavirus ha dovuto rinunciare all’ora quotidiana nella grotta di sale. Salvini non viene invitato a nessun talk show e appare in diretta facebook in boxer leopardati con scritto sul torace “Manzo italiano”. Giorgia Meloni chiede la riapertura delle case chiuse per poter avere qualcos’altro da chiudere. A Forlimpopoli, Giuditta Alessandrini dopo aver acquistato il supermercato coi risparmi di una vita ed esservisi barricata dentro, viene immortalata mentre fa il gesto dell’ombrello alla sterminata fila che si è formata fuori.
sabato 29 febbraio 2020
Quello che siamo
Se c’è un dato positivo emerso dal delirio collettivo che si è scatenato nella settimana abbondante scattata da venerdì 21 febbraio, è che c’è stato un contro-delirio nel giro di pochissimo tempo. Il fattore tempo è cruciale in questa vicenda. È successa una cosa simile a quella che accade quando uno va a dormire sbronzo la sera e si rende conto già al risveglio della mattina successiva delle enormità che ha fatto poche ore prima in preda all’alcol. La presa di coscienza è immediata e per questo, si spera, efficace. Un conto è misurarsi con le madornalità commesse una vita fa, un conto è rendersi conto di averle fatte praticamente qui e ora. Serve a prendere coscienza di quanto si è limitati oggi e di quanto occorra fare oggi, non una vita fa.
Ecco, delirio e contro-delirio dell’ultima settimana aiutano a capire quanto siamo limitati, a rischio, appesi a un filo come civiltà proprio, non come individui. Perché ammettiamolo, a queste latitudini siamo tutti intimamente convinti di avere il pieno controllo di noi stessi e dell’ambiente circostante; di saperla lunga, di essere nettamente meglio di chi ci ha preceduto secoli fa che andava a piedi scalzi e comunicava coi segnali di fumo, mica c’aveva Suv e telefonino come noi, no? Ci sarebbe capitato di fare un bagno d’umiltà, se capissimo quello che ci è successo nel delirio.
Già, ma che è successo? Che ci siamo fatti governare dall’irrazionalità esattamente come quando irrazionalmente da primitivi tremavamo di fronte ai lampi sospettando che arrivassero da un altro mondo. Governo, opposizioni, tv, giornali, sindaci, presidenti di regione. C’è stato un tale campionario di bestialità che se solo sapessimo guardarle bene dovremmo vergognarci e cambiare immediatamente pianeta. Non lo faremo, perché siamo sempre quelli dritti che c’hanno Suv e telefonino che li rendono invincibili. Però è successo. È successo che abbiamo chiuso i bar alle 18 come se il coronavirus uscisse per l’aperitivo e fosse quella l’ora a cui andava bloccato. Abbiamo fatto titoli di giornale come se l’Apocalisse fosse a un passo. Abbiamo cambiato i palinsesti delle tv per far parlare del coronavirus gente che non distingue un'oliva da un coccodrillo. Abbiamo pensato che i cinesi, per il fatto di essere cinesi proprio, contenessero in sé il virus; poi ci siamo ricreduti e un presidente di Regione votato da milioni di noi c’ha spiegato che i cinesi c’hanno il virus perché mangiano i topi vivi. Abbiamo fatto incetta di generi alimentari manco se ci fosse un conflitto nucleare alle porte. Abbiamo chiuso i cinema, i teatri, gli stadi, interi comuni. Abbiamo comprato cose a dieci-venti-trenta volte il loro prezzo normale. Ci siamo auto privati della libertà di muoverci, noi che di solito la libertà di muoversi la neghiamo agli altri.
E tutto questo l’abbiamo fatto per un virus assolutamente non letale se non per una percentuale minima di persone colpite. Il che rende le misure apocalittiche prese assolutamente prive di senso; i titoli e le paginate dei giornali inutili e dannosi; gli innumerevoli stand up degli inviati tediosi e ansiogeni. Ma l’abbiamo fatto. E facendolo abbiamo messo un scena uno spettacolo che è la migliore rappresentazione degli invincibili coglioni che siamo. Sì, perché questo siamo: dei coglioni che si sentono invincibili perché c’hanno il Suv e il telefonino, e che invece al primo colpo, peraltro minacciato, vengono giù come pere mature.
Poi siamo rinsaviti. Mica perché abbiamo capito di essere coglioni, ma perché ci siamo resi conto che la nostra paranoia ci faceva trattare da appestati dal resto del mondo. Proprio come noi consideravamo i cinesi all’inizio della storia. E perché, soprattutto, l’isteria stava danneggiando gli affari. E gli affari sono sacri, per quelli si può anche rinsavire.
Il fatto è che ilproblema non sono gli affari. È che in una settimana, se fossimo in grado di capirlo, abbiamo dimostrato a noi stessi quanto siamo manipolabili, ignoranti, irrazionali, impotenti nonostante ci crediamo esattamente l’opposto. Ci siamo fatti immobilizzare da una diceria che man mano che passava il tempo acquisiva l’aspetto di una inconfutabilità per il solo fatto che erano in tanti e non qualificati a crederci: governo, opposizioni, giornali, salumieri, dirigenti e quant’altro.
Stavolta c’è stato il contro-delirio a farci svegliare, ma c’è da temere che sia solo per gli effetti, perché le cause stanno tutte lì. Continuiamo a credere che ci sia in atto un’invasione nei confronti dell’Italia e votiamo di conseguenza; i più attrezzati argomentano addirittura che ci sia un disegno di sostituzione etnica, quando i migranti sono in rapporto di uno a dieci. Ci allarmiamo per il clima ma continuiamo a prendere l’auto privata anche per andare a sparare cazzate al bar e a tenere il termostato a 25 gradi. Ma siamo invincibili, noi, abbiamo Suv e telefonino, mica siamo nel Medioevo! E invece la settimana scorsa abbiamo fatto più o meno la figura di quelli che davano la caccia alle streghe perché c’era qualche coglione più furbo di loro che indirizzava le loro paranoie verso qualche obiettivo facile. Questo siamo. Questo abbiamo dimostrato. Ma non l'abbiamo capito. E da domani torneremo convinti che con Suv e telefonino si va in paradiso, che c’è chi minaccia le nostre frontiere e che il clima sì, ma col cazzo che faccio qualcosa. Daje.
venerdì 14 febbraio 2020
Di giornali e opinione pubblica
(POST VERY UMBRIA ORIENTED)
In questa regione è rimasto un solo giornale con il suo nome scritto nella testata: il Corriere dell’Umbria. Ce n’era anche un altro, il Giornale dell’Umbria, ma quella è diventata da anni materia per il giudice fallimentare. Il Corriere dell’Umbria peraltro è anche più antico del suo collega mandato al macero, e nei primi due-tre decenni della sua vita è riuscito non senza ragioni ad accreditarsi come “il giornale della regione”. Una capillare rete di collaboratori e tanto spazio dato alle cronache anche dei centri più piccoli, e comunque tante pagine dedicate alla vita di un posto la cui vita non era mai stata raccontata da nessun mezzo di comunicazione l’hanno fatto diventare un punto di riferimento. Tutto questo ha però contribuito alla costruzione di una credenza del tutto irrazionale, cioè che quel giornale fosse di tutti: tu c’avevi la polisportiva che vinceva la medaglia? Mandavi il comunicato e il Corriere pubblicava (nelle pagine sportive credo lo faccia tuttora). Tu ti candidavi a sindaco con le stesse probabilità di farcela che ha Sgarbi di rimanere tranquillo nel corso di un dibattito in tv?, il Corriere ti garantiva il tuo momento di gloria dedicandoti un’intervista. Così al Corriere dell’Umbria la gente si è affezionata. E quando ci si affeziona si comincia ad aspettarsi cose, si alzano le aspettative, che spesso tracimano fino a diventare pretese. Ma soprattutto così si è alimentata la costruzione di un falso storico: il giornale di tutti. Perché il giornale è sempre di qualcuno. Sempre.
E qui arriviamo a oggi. A quando cioè, dopo tutta una serie di cambi di proprietà e di direzioni che ne hanno fino a un certo punto perpetuato l’immagine di giornale pacioccone, di tutti, arriva un proprietario, Angelucci, che sceglie di usarlo, il giornale. Di usarlo in maniera diretta, intendo dire, non soffusa, come avviene in qualsiasi giornale; senza infingimenti. Così Angelucci, che deve le sue ricchezze molto più alle cliniche private che ai giornali che detiene, mette il Corriere al servizio del suo core business, la sanità privata. Con tutto quello che ne consegue: appoggio alle destre (più sensibili al richiamo della sanità privata rispetto ai loro competitori) in sede di campagna elettorale, e, una volta vinta la campagna elettorale, via all’altra di campagna, quella per la sanità privata: la ciccia vera. Cosa c’è di male in tutto questo? Niente. Niente di niente. Tu la tua macchina la fai arrivare dove vuoi tu, non dove vorrebbero gli altri.
Di sbagliato semmai c’è quello che sta avvenendo ormai da mesi, anni, nel campo avverso. Le grida di scandalo sul Corriere che signora mia non è più quello di una volta; le accuse di lesa maestà e via scandalizzandosi. Fino ad arrivare a questi giorni, in cui l’ex candidato sindaco del centrosinistra di Perugia e il Corriere hanno ingaggiato una battaglia come se l’Apocalisse fosse alle porte l’uno, l’ex candidato, rinfacciando la campagna pro sanità privata al Corriere dell’Umbria; l’altro, il Corriere dell’Umbria, attaccandosi a una presunta gaffe dell’ex candidato sul numero di palme nelle Marche. Roba forte, eh. (Ed è questa la scaturigine della cosa che, eroici, siete se non altro riusciti a leggere fino qui).
Il fatto è che stracciandosi le vesti per quello che il Corriere è a differenza di quello che si vorrebbe che fosse, si alimenta in se stessi e si contribuisce ad alimentare in quelli che stanno dalla tua stessa parte che il giornale, quel giornale che era così pacioccone e sembrava di tutti, “debba” essere a tua immagine. Che tu lo possa usare come una bacheca su cui attaccare il tuo volantino, che siccome a te la sanità privata non piace il Corriere non ne debba parlare. Nossignori. Il giornale – qualsiasi giornale - ha delle sue logiche e, soprattutto, ha una proprietà che ne decide la linea più o meno direttamente, più o meno a gamba tesa, più o meno spregiudicatamente. Gli esiti sono gli stessi, anzi, spesso le proprietà apparentemente più liberali sono quelle col pugno più duro nei confronti delle redazioni, se ci sono dei dissenzienti. A questo fraintendimento si prestano anche i giornalisti, che dissimulano per ragion di stato i rospi che si ingoiano nelle redazioni, se si ha un pensiero, e preferiscono sbandierare una libertà che è solo parziale e sempre più ridotta, visto lo scadimento del potere contrattuale della categoria. La questione semmai non è la libertà, ma la trasparenza nei confronti dei lettori (ma questo è un altro file, non opportuno da aprire qui).
Ciò che è in ballo qui non è solo il contribuire a una falsa verità, pur essendo in buona fede. Ci sono un altro paio di conseguenze non da poco in questa crociata contro il Corriere dell’Umbria reo di essere diventato “de destra”. Si dimentica infatti che un giornale (cioè chi lo edita e, se ci riesce, chi ci lavora) è libero; può scrivere quello che vuole, imbracciare le battaglie che crede, rivolgersi a chi desidera. Il pluralismo – e qui arriviamo al cuore del problema – non lo si può cercare in un solo mezzo. Il pluralismo lo garantisce il sistema dei media nel suo complesso, se è sano. E sottolineo se. Ma per farlo diventare sano, occorre che la platea dei fruitori sia avvertita di ciò che maneggia quando si parla di informazione. Pretendere che il Corriere torni pacioccone è come chiedere a un leone di diventare vegano: senza senso. Inoltre, nel caso di specie, sostenere che sia scandaloso che un giornale faccia campagna per la sanità privata equivale a spostare il problema su un piano che non conviene proprio a chi vuole che la sanità resti pubblica, universalistica e di qualità. La battaglia va condotta sul piano delle idee. Come?
Già, come? Cominciando a ragionare sull’errore madornale che si fa quando si vorrebbe a propria immagine un giornale che di immagine ne ha un’altra, quella dell’editore e dei suoi interessi. Cominciando a pensare di finanziare la stampa di qualità o che si ritiene utile all’affermazione dei propri principi. Praticando cioè il pluralismo, non pretendendolo. Il punto non è vietare che il Corriere parli di sanità privata; lo scandalo è semmai che non ci sia in ambito di informazione chi perora la causa della sanità pubblica e universalistica che ha fatto la fortuna di questo paese e di questa regione. Certo, tutto questo è assai più complicato e dispendioso di stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo. Ma gridare non serve a nulla. E per di più in questo caso è pure sbagliato, nel senso che non serve alla causa. Perché mentre si menano scandali inesistenti la stampa e il pluralismo muoiono, questo è lo scandalo vero. E la colpa non è di quelli che fanno i giornali (editori in primis e direttori e giornalisti più o meno allineati o che tengono famiglia e non possono permettersi troppe speculazioni filosofiche). La responsabilità è di quelli che sbagliano diagnosi e prognosi. E dovrebbero cominciare a pensare di costruirselo, il giornale che vogliono, se lo vogliono; pagandola, sostenendola l’informazione che si vuole, come si paga un bel film, un buon libro, l’entrata al museo, un hamburger decente; spingendo affinché il pluralismo del sistema diventi punto dell’agenda pubblica. Questo andrebbe fatto, più che gridare allo scandalo sbagliato.
sabato 15 giugno 2019
Cose trascurabili su Firenze Rocks, il pop e dintorni
Sono stato a Firenze Rocks, al concerto di Ed Sheeran. Non è il mio tipo, ma la mia primogenita è una sua fan e io l’ho accompagnata volentieri, anche perché con la musica intrattengo un rapporto molto positivo ormai da qualche decennio, e introdurla a eventi del genere è stato un passaggio a cui tenevo. Ne ho ricavato impressioni che non si tengono insieme l’una con l’altra e sono assai trascurabili, per cui siete avvisati, insomma, sempre che non l’abbiate già fatto: potete passare tranquillamente oltre.
Ed Sheeran, che io avevo snobbato fino a ieri, è un artista della madonna. Ok, è pop. Ha un angolo di risonanza talmente ampio da poter rischiare di perdere in profondità. Tutto vero. Però io davanti a uno che tiene ipnotizzata una folla di decine di migliaia di persone da solo per un’ora e mezza con una chitarra, una loop station e qualche video che passa dietro, abbasso il cappello. Ha spogliato le sue canzoni di tutti gli orpelli pop. E il pop quando lo spogli lo trovi quasi sempre meglio che vestito.
Era pop, quello che veniva dal palco.
(- Sì ma scusa, che intendi per pop?
- Cose semplici, niente contraddizioni né lacerazioni, non urticanti, che lisciano il pelo per il suo verso; suoni levigati, poche increspature, qualche delusione d’amore e tanti buoni sentimenti. Ok?).
Era pop, dicevo, quello che veniva dal palco, ma con un’attitudine rock. Ed Sheeran è arrivato con la maglia dell’Italia, e mi è piaciuto pensare che fosse una citazione del Mick Jagger che nell’estate dell’82 si presentò al concerto di Torino con la maglia di Paolo Rossi.
(- Sì, perché?, allora i Rolling Stones non sono un fenomeno pop?
- Ok, ho capito, però è un’altra storia, e poi che palle! Fammi continuare).
Il biglietto per entrare costava 70 euro, non ho controllato ma più o meno dovrebbe essere la stessa cifra che si spenderà stasera per Eddie Vedder...
(- Eh, ma vuoi mettere?!
- Sì, però te l’ho detto: che palle!)
...domani per i Cure eccetera. È successo cioè che, calcolando l’inflazione media, i biglietti per eventi del genere sono raddoppiati nel giro di trent’anni. Raddoppiati proprio. Ci sono più spese sul versante organizzativo, sicuro. Però c’è stato un raddoppio. A cavallo tra ottanta e novanta del secolo scorso una roba del genere la vedevi con trenta-quarantamila lire, che a prezzi di oggi sarebbero intorno ai trenta euro, invece te ne chiedono settanta. Business is business, e qualcuno l’ha capito.
L’hanno capito talmente bene che ci si possono fare i soldi, col pop e col rock...
(- Ah, adesso li metti pure sullo stesso piano? Lo vedi che ti sei rincoglionito?
- No, sei tu che non capisci, lasciami finire)
...che ti fanno pagare anche l’aria che respiri a un evento del genere. E per chi organizza pop, rock, liscio o hardcore sono la stessa cosa. Il business non ha generi, vede solo i soldi da fare (hai capito ora?). Così, oltre a farti pagare il doppio rispetto a un tuo coetaneo di trent’anni fa, all’interno dell’arena in cui si svolge il concerto si sono anche inventati una moneta tutta loro. Si chiamano gettoni (loro li chiamano in inglese, token, che fa più fico per le fregature), e tu devi pagare con quelli. Quindi: prima fai la coda per cambiare i soldi in gettoni, poi fai la coda alla cassa per pagare quello che intendi consumare, poi fai ancora la coda per prendere quello che per cui hai pagato in token. La storia dei token funziona così: ognuno vale due euro, e tu ne deve acquistare un minimo di 8 o di suoi multipli, devi cioè spendere almeno 16 euro. Poi devi comporre un tetrix che non ti riuscirà mai. Perché una birra costa 3,5 token (7 euro, ‘tacci loro), e se ne prendi due ti avanza un token con cui non acquisti più una beneamata minchia, per cui sei incentivato a cambiare altri sedici euro. Una bottiglia d’acqua da mezzo litro, costa 1,5 token (3 euro, arimortacci loro), e 8, notoriamente, non è un multiplo di 1,5. Ah, dimenticavo: l’acqua dentro non la puoi portare se non in bottiglie da mezzo litro ma senza tappo. Considerando che il fan sta lì sotto per ore a una temperatura di quaranta gradi, il candidato calcoli approssimativamente quanti token dovrà spendere il o la poveretto/a per evitare di morire disidratato/a; non a caso mandano anche un video dai maxischermi che ti invita a bere molto per evitare malori (ariarimortacci loro).
Ed Sheeran in un pezzo canta così: “You need me man I don’t need you”. Mi è parsa una cosa di una radicalità irremovibile. Sono loro che hanno bisogno di noi; noi non abbiamo bisogno di loro. Ecco, dovremmo ricordarcelo a ogni token che ci chiedono, tutti i giorni. Ce lo dice uno che fa pop.
(- Ecco, la solita morale, non mi hai convinto.
- E chi ha detto che volevo convincerti?).
Ed Sheeran, che io avevo snobbato fino a ieri, è un artista della madonna. Ok, è pop. Ha un angolo di risonanza talmente ampio da poter rischiare di perdere in profondità. Tutto vero. Però io davanti a uno che tiene ipnotizzata una folla di decine di migliaia di persone da solo per un’ora e mezza con una chitarra, una loop station e qualche video che passa dietro, abbasso il cappello. Ha spogliato le sue canzoni di tutti gli orpelli pop. E il pop quando lo spogli lo trovi quasi sempre meglio che vestito.
Era pop, quello che veniva dal palco.
(- Sì ma scusa, che intendi per pop?
- Cose semplici, niente contraddizioni né lacerazioni, non urticanti, che lisciano il pelo per il suo verso; suoni levigati, poche increspature, qualche delusione d’amore e tanti buoni sentimenti. Ok?).
Era pop, dicevo, quello che veniva dal palco, ma con un’attitudine rock. Ed Sheeran è arrivato con la maglia dell’Italia, e mi è piaciuto pensare che fosse una citazione del Mick Jagger che nell’estate dell’82 si presentò al concerto di Torino con la maglia di Paolo Rossi.
(- Sì, perché?, allora i Rolling Stones non sono un fenomeno pop?
- Ok, ho capito, però è un’altra storia, e poi che palle! Fammi continuare).
Il biglietto per entrare costava 70 euro, non ho controllato ma più o meno dovrebbe essere la stessa cifra che si spenderà stasera per Eddie Vedder...
(- Eh, ma vuoi mettere?!
- Sì, però te l’ho detto: che palle!)
...domani per i Cure eccetera. È successo cioè che, calcolando l’inflazione media, i biglietti per eventi del genere sono raddoppiati nel giro di trent’anni. Raddoppiati proprio. Ci sono più spese sul versante organizzativo, sicuro. Però c’è stato un raddoppio. A cavallo tra ottanta e novanta del secolo scorso una roba del genere la vedevi con trenta-quarantamila lire, che a prezzi di oggi sarebbero intorno ai trenta euro, invece te ne chiedono settanta. Business is business, e qualcuno l’ha capito.
L’hanno capito talmente bene che ci si possono fare i soldi, col pop e col rock...
(- Ah, adesso li metti pure sullo stesso piano? Lo vedi che ti sei rincoglionito?
- No, sei tu che non capisci, lasciami finire)
...che ti fanno pagare anche l’aria che respiri a un evento del genere. E per chi organizza pop, rock, liscio o hardcore sono la stessa cosa. Il business non ha generi, vede solo i soldi da fare (hai capito ora?). Così, oltre a farti pagare il doppio rispetto a un tuo coetaneo di trent’anni fa, all’interno dell’arena in cui si svolge il concerto si sono anche inventati una moneta tutta loro. Si chiamano gettoni (loro li chiamano in inglese, token, che fa più fico per le fregature), e tu devi pagare con quelli. Quindi: prima fai la coda per cambiare i soldi in gettoni, poi fai la coda alla cassa per pagare quello che intendi consumare, poi fai ancora la coda per prendere quello che per cui hai pagato in token. La storia dei token funziona così: ognuno vale due euro, e tu ne deve acquistare un minimo di 8 o di suoi multipli, devi cioè spendere almeno 16 euro. Poi devi comporre un tetrix che non ti riuscirà mai. Perché una birra costa 3,5 token (7 euro, ‘tacci loro), e se ne prendi due ti avanza un token con cui non acquisti più una beneamata minchia, per cui sei incentivato a cambiare altri sedici euro. Una bottiglia d’acqua da mezzo litro, costa 1,5 token (3 euro, arimortacci loro), e 8, notoriamente, non è un multiplo di 1,5. Ah, dimenticavo: l’acqua dentro non la puoi portare se non in bottiglie da mezzo litro ma senza tappo. Considerando che il fan sta lì sotto per ore a una temperatura di quaranta gradi, il candidato calcoli approssimativamente quanti token dovrà spendere il o la poveretto/a per evitare di morire disidratato/a; non a caso mandano anche un video dai maxischermi che ti invita a bere molto per evitare malori (ariarimortacci loro).
Ed Sheeran in un pezzo canta così: “You need me man I don’t need you”. Mi è parsa una cosa di una radicalità irremovibile. Sono loro che hanno bisogno di noi; noi non abbiamo bisogno di loro. Ecco, dovremmo ricordarcelo a ogni token che ci chiedono, tutti i giorni. Ce lo dice uno che fa pop.
(- Ecco, la solita morale, non mi hai convinto.
- E chi ha detto che volevo convincerti?).
venerdì 17 maggio 2019
Grande come una casa
La candidata sindaca di “Perugia città in comune”, Katia Bellillo, ha declinato l’invito di un’associazione cittadina che aveva chiamato a un dibattito, oltre lei, anche il candidato di Casapound. Bellillo ha motivato la scelta dicendo che “le opinioni di Casapound sono la negazione della democrazia, e la propaganda di Casapound sfocia in atti di violenza espliciti, come si è visto di recente in occasione del presidio di Roma, durante il quale si è messa a repentaglio l’incolumità di una donna e della bambina che teneva in braccio a pochi passi dall’ingresso dell’abitazione che le era stata regolarmente assegnata. La democrazia va difesa da chi la nega non solo con le parole, ma con la violenza condotta regolarmente nei confronti dei più deboli”.
Oltre a essere un ragionamento lineare, Bellillo ha avuto il merito di sollevare una questione che è grande come una casa, e che non attiene al derby “rossi contro neri”, come in un post su facebook un quotidiano on line locale ha liquidato la faccenda in maniera sbrigativa e semplicistica. La questione è semmai sulla consistenza della democrazia, e dovrebbe interrogare tutti: è opportuno dialogare, e quindi agevolare la diffusione delle parole di chi nelle strade sfodera il saluto romano e fa presidi contro una donna e una bambina di quattro anni costringendole a correre per rincasare scortate dalla polizia? Non è in questione un “ritorno del fascismo”. È in questione la agibilità politica di persone che si rifanno a movimenti che agiscono violentemente, e che riescono a far male, fosse anche a una sola persona (pensate a come stanno oggi quella donna e la sua bambina, anche se non è stato loro torto un capello).
I commenti delle persone contrarie alla scelta di Bellillo, postati sotto agli articoli in cui i giornali on line locali hanno divulgato la notizia, aiutano a comprendere le linee di pensiero e i modi di approcciarsi alla questione, e valgono la pena di essere analizzati sommariamente.
1) C’è chi dileggia l’allarme-fascismo e nel suo profilo facebook cita i discorsi di Mussolini. Un atteggiamento che dice del modo subdolo attraverso il quale alcune idee di discriminazione vengono veicolate spogliate dell’armamentario ideologico che le sostiene, nonché mascherate da buonsenso, anche da chi esplicitamente attinge da quell’armamentario ideologico, salvo poi negarne l’esistenza e il pericolo.
2) C’è chi rimprovera il fatto che, essendo Casapound legale, è doveroso confrontarcisi. Che è un modo per nascondere l’incapacità, o la mancata volontà, di operare una scelta: io dialogo con Casapound, e tu pure ci devi dialogare, perché Casapound è legale. Che è un po’ il ragionamento per cui se legalizzassero le droghe, ci si dovrebbe drogare tutti perché la cosa sarebbe legale. C’è una deresponsabilizzazione dell’individuo, o se si preferisce, un nascondersi dietro un dito: non decido io con chi dialogare, lo decide la legge per me.
3) C’è, infine, chi rimprovera la scarsa democraticità di una scelta del genere (“In democrazia tutti hanno diritto di parola”, recita l’adagio). A parte il fatto che il sottrarsi al confronto con una persona che non si ritiene degna, non è la stessa cosa che zittirla. Ecco, a parte questo, c’è in questa posizione una visione di una democrazia “in purezza” che non fa i conti col terribile fluire delle cose, che ci inchioda alla scelta giorno per giorno, non c’è delega che tenga. E qui si torna al problema grande come una casa: perché sì, la democrazia è di tutti, ma può essere, deve essere, aperta anche a chi predica idee di discriminazione? Può essere aperta anche a chi si comporta nel modo in cui i militanti di Casapound si comportano contro persone inermi, come l’accaduto di Roma documenta? Detto altrimenti: si può tranquillamente discettare di idee per la città con chi milita in una organizzazione (piccola o grande poco conta) che a parole di discriminazione fa seguire atti che rischiano di mettere in pericolo l’incolumità di altri esseri umani?
martedì 16 aprile 2019
E però (di cose umbre e non solo)
E però, scusate. Due-tre cose che non tornano sulla vicenda sanità in Umbria.
1) Qui sembra che la politica, cioè il Pd, perché alla Regione governa(va) un monocolore Pd, sia tutta uno schifo. Lo schifo c’è. E pure notevole. È appena il caso di far notare però che dall’inchiesta emerge che per ogni politico (o direttore sanitario messo lì da un politico) c’è una pletora di persone comuni che fanno la fila per la raccomandazione: addirittura a un certo punto nelle intercettazioni c’è quel poveraccio di Duca (il direttore generale dell’ospedale, arrestato) che si lamenta perché ci stanno più raccomandati che posti messi a concorso. Se fanno schifo quelli che detengono il potere, è anche perché la gggente gli consente di esercitare il potere in quel modo. O no? Certo che c’è da distinguere tra chi sta sopra e chi sta sotto. Tra chi ha il potere e chi il potere lo subisce. Però, a parte tanto cianciare sulla meritocrazia, pare che la corsa fosse a cercarsi la raccomandazione più sicura, non a fare gli onesti. E a occhio e croce tra i più indignati contro questo “schifo” ci dovrebbero essere anche (ho detto “anche”, non “solo”, facciamo a capirci) quelli che una raccomandazione non ce l’hanno fatta a ottenerla, non solo chi questo sistema lo schifa davvero.
2) Dice: adesso la parte buona del Pd rialzi la testa. Dice anche: adesso i giovani del Pd battano un colpo. Ma santiddio, quello è il partito che in Umbria ha eletto Gianpiero Bocci segretario quattro mesi (4 mesi) fa. E non è questione di guai giudiziari. Bocci ha fatto il sindaco del suo paese natale nel 1985, c’aveva 22 anni. Da lì in poi, uscendo da un palazzo solo per entrare in un altro più grosso, è stato ripetutamente consigliere regionale, parlamentare e sottosegretario. Uno intriso di sistema. Trentaquattro anni di carriera politica senza alcun atto che sia impresso nella memoria di nessuno di noi. Fino a candidarsi alle ultime elezioni da sottosegretario uscente e arrivare terzo su tre nel collegio uninominale in cui si era presentato. A dieci mesi dalla disfatta, è diventato segretario regionale grazie a più di dodicimila persone (la gggente) che sono andate ai gazebo a mettere una croce sul suo nome, e grazie a uno stato maggiore del Pd regionale che lo ha sostenuto a spada tratta; non male per un partito che ha fatto dello slogan “vincere” un mantra fino a perdere del tutto la propria identità. Dice, i giovani. Ma, benedetto il signore, il Pd è un partito che per tre anni e mezzo si è messo in mano a una brigata di quarantenni che l’hanno portato al minimo storico e sono dovuti fuggire. In Umbria è successa più o meno la stessa cosa in miniatura. I giovani? Ma davvero?
3) Il sistema (e qui arriviamo al punto più difficile). Sì. Certo. C’è un problema di sistema. Ma non è quello dei politici cattivi e della gggente buona. Stante che chi è chiamato a governare ha bisogno di personale tecnico-amministrativo coerente per dettare le politiche che ha in mente (è un problema che va al di là della sanità), e stante che la cosa pubblica non è appannaggio di chi la governa pro-tempore, occorrerebbe trovare le soluzioni (cioè le leggi) per salvaguardare il diritto della politica di governare ma non di papparsi tutto, e delle persone competenti di lavorare. Questo è il punto. Ma non lo raggiungeremo mai finché la gggente continuerà a tirarsi fuori, guardare dalla finestra e considerarsi vittima del sistema cui contribuisce senza minimamente metterlo in discussione (disclaimer: solo che mettere in discussione il sistema costa), né finché cercheremo soluzioni improbabili: i giovani, la discontinuità dove regna la palude, l’alternativa dove sta la coazione a ripetere. Per uscire dal pantano occorrono competenza e innovazione. E l’innovazione è un investimento di fiducia che devi fare non solo su te stesso, ma anche su chi ti ascolta, perché devi fargli capire che occorre immaginare qualcosa che adesso non c’è, e spesso non ci riesci. Perché questo crea lo smarrimento che cede alla conservazione. Anche in chi crede di essere progressista. È dura. È già tanto dura di per sé. Non ce la complichiamo con autoassoluzioni e cercando le soluzioni dove non ce n'è traccia.
1) Qui sembra che la politica, cioè il Pd, perché alla Regione governa(va) un monocolore Pd, sia tutta uno schifo. Lo schifo c’è. E pure notevole. È appena il caso di far notare però che dall’inchiesta emerge che per ogni politico (o direttore sanitario messo lì da un politico) c’è una pletora di persone comuni che fanno la fila per la raccomandazione: addirittura a un certo punto nelle intercettazioni c’è quel poveraccio di Duca (il direttore generale dell’ospedale, arrestato) che si lamenta perché ci stanno più raccomandati che posti messi a concorso. Se fanno schifo quelli che detengono il potere, è anche perché la gggente gli consente di esercitare il potere in quel modo. O no? Certo che c’è da distinguere tra chi sta sopra e chi sta sotto. Tra chi ha il potere e chi il potere lo subisce. Però, a parte tanto cianciare sulla meritocrazia, pare che la corsa fosse a cercarsi la raccomandazione più sicura, non a fare gli onesti. E a occhio e croce tra i più indignati contro questo “schifo” ci dovrebbero essere anche (ho detto “anche”, non “solo”, facciamo a capirci) quelli che una raccomandazione non ce l’hanno fatta a ottenerla, non solo chi questo sistema lo schifa davvero.
2) Dice: adesso la parte buona del Pd rialzi la testa. Dice anche: adesso i giovani del Pd battano un colpo. Ma santiddio, quello è il partito che in Umbria ha eletto Gianpiero Bocci segretario quattro mesi (4 mesi) fa. E non è questione di guai giudiziari. Bocci ha fatto il sindaco del suo paese natale nel 1985, c’aveva 22 anni. Da lì in poi, uscendo da un palazzo solo per entrare in un altro più grosso, è stato ripetutamente consigliere regionale, parlamentare e sottosegretario. Uno intriso di sistema. Trentaquattro anni di carriera politica senza alcun atto che sia impresso nella memoria di nessuno di noi. Fino a candidarsi alle ultime elezioni da sottosegretario uscente e arrivare terzo su tre nel collegio uninominale in cui si era presentato. A dieci mesi dalla disfatta, è diventato segretario regionale grazie a più di dodicimila persone (la gggente) che sono andate ai gazebo a mettere una croce sul suo nome, e grazie a uno stato maggiore del Pd regionale che lo ha sostenuto a spada tratta; non male per un partito che ha fatto dello slogan “vincere” un mantra fino a perdere del tutto la propria identità. Dice, i giovani. Ma, benedetto il signore, il Pd è un partito che per tre anni e mezzo si è messo in mano a una brigata di quarantenni che l’hanno portato al minimo storico e sono dovuti fuggire. In Umbria è successa più o meno la stessa cosa in miniatura. I giovani? Ma davvero?
3) Il sistema (e qui arriviamo al punto più difficile). Sì. Certo. C’è un problema di sistema. Ma non è quello dei politici cattivi e della gggente buona. Stante che chi è chiamato a governare ha bisogno di personale tecnico-amministrativo coerente per dettare le politiche che ha in mente (è un problema che va al di là della sanità), e stante che la cosa pubblica non è appannaggio di chi la governa pro-tempore, occorrerebbe trovare le soluzioni (cioè le leggi) per salvaguardare il diritto della politica di governare ma non di papparsi tutto, e delle persone competenti di lavorare. Questo è il punto. Ma non lo raggiungeremo mai finché la gggente continuerà a tirarsi fuori, guardare dalla finestra e considerarsi vittima del sistema cui contribuisce senza minimamente metterlo in discussione (disclaimer: solo che mettere in discussione il sistema costa), né finché cercheremo soluzioni improbabili: i giovani, la discontinuità dove regna la palude, l’alternativa dove sta la coazione a ripetere. Per uscire dal pantano occorrono competenza e innovazione. E l’innovazione è un investimento di fiducia che devi fare non solo su te stesso, ma anche su chi ti ascolta, perché devi fargli capire che occorre immaginare qualcosa che adesso non c’è, e spesso non ci riesci. Perché questo crea lo smarrimento che cede alla conservazione. Anche in chi crede di essere progressista. È dura. È già tanto dura di per sé. Non ce la complichiamo con autoassoluzioni e cercando le soluzioni dove non ce n'è traccia.
sabato 22 dicembre 2018
Una presentazione
Ieri è successa una cosa discretamente bella. Insieme a Ugo Carlone, compare di ribalta, abbiamo presentato a Terni i libri di Gian Paolo Di Loreto e Simone Gobbi Sabini (“Lo stato delle cose”, una raccolta di racconti, e “Piccole città, bastardi posti”, un romanzo) appena pubblicati da Bertoni editore. L’abbiamo fatto perché i loro contenuti rientrano nell’orizzonte di ribalta, che è ampio, e punta ad andare oltre l’aspetto puramente informativo-comunicativo, ma questo è un altro discorso. Gian Paolo ha parlato tra l’altro di storia e discorso, di come la rappresentazione delle cose diverga dal loro stato reale (ad esempio: i reati commessi sono sempre di meno, ma non si fa altro che parlare di e varare pacchetti-sicurezza). Simone è ricorso alla metafora del criceto, e ha detto che chi corre, corre, corre per soddisfare esigenze per lo più indotte, in effetti non si sposta mai dal posto in cui è, nonostante perda un sacco di energie, mentre chi sta fermo si sottrae al falso movimento ed è colui che cammina davvero, esplorando nuovi territori. Ugo ha detto che queste due opere mostrano come la letteratura possa diventare saggistica, cioè riuscire a spiegare quello che ci sta intorno ma in maniera meno ostica, più coinvolgente e più dolce rispetto alla saggistica stessa, quindi più efficace. Io ho cercato di dire che queste due opere, diversissime l’una dall’altra e al di là delle intenzioni dei due autori, si completano a vicenda. Il romanzo di Simone finisce dove cominciano i racconti di Gian Paolo. Il primo è la presa di parola di una generazione, quella che adesso si trova tra i quaranta e i cinquant’anni, che è stata la prima a provare sulla propria pelle che il futuro non sarebbe stato più quello di una volta, che le certezze e le sicurezze dei genitori stavano svanendo sotto quello che sarebbe diventato precariato esistenziale, una condanna apparentemente ineluttabile, che avrebbe colpito poi anche le generazioni seguenti. Una generazione ripiegata rispetto agli obiettivi: Timberland e Moncler laddove chi ci aveva preceduto aveva provato l’assalto al cielo. La plastica che prendeva forma intorno a noi e che abbiamo nostro malgrado – come generazione – contribuito ad agevolare nella sua crescita, è stata l’antesignana della realtà apparentemente patinata e levigata che abbiamo intorno. Ho detto “apparentemente” perché la realtà noi la vediamo con lenti anti-distorcenti, e l’opera di Gian Paolo, che parte da dove quella di Simone arriva, è come se ci togliesse quelle lenti rassicuranti per mostrarci impietosamente tutte le distorsioni che non vediamo.
Ecco, abbiamo detto queste cose non semplici da mandare giù. L’abbiamo fatto con un bicchiere di birra in mano e sfiorando a volte il cazzeggio, ma con una serietà di fondo. Alla fine mi/ci si è avvicinato un ragazzo che ci ha fatto i complimenti per la mole di spunti sollevata, ha detto. “Ci sarebbe da stare qui per ore”, ha aggiunto. Ha tenuto a precisare che aveva anche capito “l’orientamento” (intendeva politico) e ha detto che lui non è affatto di sinistra (una parola che io tendo a non usare più, tanto si è consunta, nonostante sia convintissimo che la teoria della fine della distinzione destra/sinistra sia una panzana che vogliono inculcarci per fregarci una volta di più, ma anche questa è un’altra storia). Poi ha concluso così: “Mi ha molto colpito quando hai detto che voi quaranta-cinquantenni siete stati i primi a essere colpiti dal precariato, io ho 34 anni e pensavo che le prime vittime fossimo state noi. Allora ho pensato che abbiamo gli stessi problemi e dovremmo affrontarli insieme, ed è strano che se ne parli qui, dentro un pub, ma che la politica se ne freghi”. Gli ho risposto che è importante che se ne parli, comunque, “cominciamo da dentro un pub”. Lui ha convenuto, facendomi capire (o io ho voluto intendere così) che per quell’ora e mezzo si è sentito meno solo. Poi ha chiosato: “Sì, dobbiamo parlarne”. Ecco, la considero una cosa importante. Penso che si possa parlare, dire le cose, farsi capire da chi non è del tuo stesso “orientamento” e generazione. È stata una lezione che peraltro conoscevo già. È stata una conferma, diciamo. Dobbiamo parlarci, dire le cose, dismettere armamentari che sono d’ostacolo a un movimento agile per arrivare a farsi capire da un ragazzo più giovane, che non ha il tuo “orientamento” e al quale hanno fatto credere di essere solo, il primo a esserci cascato, e magari pure responsabile egli stesso del suo precariato esistenziale. Riuscire a farlo, anche con uno solo, dà gioia.
Ecco, abbiamo detto queste cose non semplici da mandare giù. L’abbiamo fatto con un bicchiere di birra in mano e sfiorando a volte il cazzeggio, ma con una serietà di fondo. Alla fine mi/ci si è avvicinato un ragazzo che ci ha fatto i complimenti per la mole di spunti sollevata, ha detto. “Ci sarebbe da stare qui per ore”, ha aggiunto. Ha tenuto a precisare che aveva anche capito “l’orientamento” (intendeva politico) e ha detto che lui non è affatto di sinistra (una parola che io tendo a non usare più, tanto si è consunta, nonostante sia convintissimo che la teoria della fine della distinzione destra/sinistra sia una panzana che vogliono inculcarci per fregarci una volta di più, ma anche questa è un’altra storia). Poi ha concluso così: “Mi ha molto colpito quando hai detto che voi quaranta-cinquantenni siete stati i primi a essere colpiti dal precariato, io ho 34 anni e pensavo che le prime vittime fossimo state noi. Allora ho pensato che abbiamo gli stessi problemi e dovremmo affrontarli insieme, ed è strano che se ne parli qui, dentro un pub, ma che la politica se ne freghi”. Gli ho risposto che è importante che se ne parli, comunque, “cominciamo da dentro un pub”. Lui ha convenuto, facendomi capire (o io ho voluto intendere così) che per quell’ora e mezzo si è sentito meno solo. Poi ha chiosato: “Sì, dobbiamo parlarne”. Ecco, la considero una cosa importante. Penso che si possa parlare, dire le cose, farsi capire da chi non è del tuo stesso “orientamento” e generazione. È stata una lezione che peraltro conoscevo già. È stata una conferma, diciamo. Dobbiamo parlarci, dire le cose, dismettere armamentari che sono d’ostacolo a un movimento agile per arrivare a farsi capire da un ragazzo più giovane, che non ha il tuo “orientamento” e al quale hanno fatto credere di essere solo, il primo a esserci cascato, e magari pure responsabile egli stesso del suo precariato esistenziale. Riuscire a farlo, anche con uno solo, dà gioia.
sabato 24 novembre 2018
I migranti, quella roba lì
Giovanni mi ha chiesto in privato di dirgli che ne pensavo del suo ultimo romanzo una volta che lo avessi letto, dopo aver scritto qui (https://goo.gl/sbKo1L) della sua presentazione, che diventò un evento. Io lo faccio in pubblico, per quelli che vorranno saperne, perché ne consiglio la lettura (del romanzo, intendo). Giovanni di cognome fa Dozzini, e se lo tratto con questa confidenza è perché ci conosciamo (e io lo stimo) da un po’. “E Baboucar guidava la fila”, edito da Minimum Fax, è il suo quarto romanzo. Ed è un’opera matura. Nel senso che leggendo quelle pagine si percepisce lo spessore di uno che non ha bisogno di effetti speciali per indurre alla lettura. Gli è sufficiente una narrazione di normalità. La normalità che nella routine quotidiana non vediamo, e che gli scrittori bravi sanno svelare e indicare.
“E Baboucar guidava la fila” ha come protagoniste persone che vivono in Italia ma non sono nate in Italia. Queste persone normalmente le chiamiamo migranti, e quella definizione le chiude in un tutt’uno che disumanizza perché rende uguale l’irreplicabile di ogni esistenza. È una sorta di metaforico omicidio, seppure involontario, la parola “migranti”, anche se siamo costretti a usarla per farci capire. Però a furia di farne uso, disumanizziamo. Anche noi al di qua di Salvini, molto al di qua. Tendiamo a considerarli tutti uguali, perché li chiamiamo tutti “migranti”, e da quella sola particolarità che li accomuna, ne facciamo un unico gruppo, come si trattasse di un gregge, una mandria, un alveare. Invece sono Baboucar, Ousman, Yaya e decine di migliaia di altri nomi, i “migranti”. Dovremmo ricordarcene. E il romanzo di Giovanni ce lo marchia bene in testa, proponendo un salutare rovesciamento cognitivo.
“E Baboucar guidava la fila” ha come protagoniste persone che vivono in Italia ma non sono nate in Italia. Le racconta stando dalla loro parte. Però non punta a strappare lacrime, a suscitare emozioni di un momento. Punta a solcare un significato. A lasciarlo lì. Ci descrive quattro, cinque, sei persone sospese. “Non c’era niente di male, ma non andava bene”, si legge a un certo punto del romanzo, a proposito dell’intenzione di uno dei protagonisti. Niente di male, la normalità. Eppure non va bene. È questa condizione che avvicina tanto all’ossimoro che rende le vite di queste persone al limite dell’impossibilità. Sì, certo, noi al di qua di Salvini possiamo crogiolarci con la xenofobia, il ringhio dei cattivi che fanno un vanto della loro brutalità anziché vergognarsene. Ma a volte queste cose diventano un alibi per noi, diciamocelo, ché pure noi cadiamo nella trappola dell’omicidio involontario, del considerarli tutti uguali, i “migranti”, di de-personalizzarli.
Giovanni non scrive di ronde, non ci sono razzisti cattivi con la bava alla bocca nel suo romanzo. Anzi. C’è la descrizione della sospensione di alcuni individui. Quella sospensione che rende inopportuna la normalità, e che è il vero nemico contro cui dovremmo batterci. Solo che è un nemico invisibile, sottile, mimetico, raffinato, la sospensione. Un limbo. Che rende impossibili anche tante vite di noi italiani da generazioni, condannandole alla precarietà e accomunandole a quelle dei “migranti”, pensa te!
C’è il recupero della irreplicabilità delle persone, in “E Baboucar guidava la fila”. E questa è una qualità che rende l’opera preziosa. Se ce ne rendessimo conto, se facessimo i conti con questo “invisibile” che ci condanna - tutti - faremmo un gran servizio a noi stessi, autoctoni o migranti che siamo. La narrazione della normalità di Giovanni, questo obiettivo ce lo indica. E questo rende quel libro un libro importante.
Si parla anche di Italia, nel romanzo. E lo si fa con una metafora originale e spiazzante, che gira attorno a una cantante e ai suoi musicisti. A parlarne qui però andrei lungo e farei spoiler. Quindi mi fermo.
“E Baboucar guidava la fila” ha come protagoniste persone che vivono in Italia ma non sono nate in Italia. Queste persone normalmente le chiamiamo migranti, e quella definizione le chiude in un tutt’uno che disumanizza perché rende uguale l’irreplicabile di ogni esistenza. È una sorta di metaforico omicidio, seppure involontario, la parola “migranti”, anche se siamo costretti a usarla per farci capire. Però a furia di farne uso, disumanizziamo. Anche noi al di qua di Salvini, molto al di qua. Tendiamo a considerarli tutti uguali, perché li chiamiamo tutti “migranti”, e da quella sola particolarità che li accomuna, ne facciamo un unico gruppo, come si trattasse di un gregge, una mandria, un alveare. Invece sono Baboucar, Ousman, Yaya e decine di migliaia di altri nomi, i “migranti”. Dovremmo ricordarcene. E il romanzo di Giovanni ce lo marchia bene in testa, proponendo un salutare rovesciamento cognitivo.
“E Baboucar guidava la fila” ha come protagoniste persone che vivono in Italia ma non sono nate in Italia. Le racconta stando dalla loro parte. Però non punta a strappare lacrime, a suscitare emozioni di un momento. Punta a solcare un significato. A lasciarlo lì. Ci descrive quattro, cinque, sei persone sospese. “Non c’era niente di male, ma non andava bene”, si legge a un certo punto del romanzo, a proposito dell’intenzione di uno dei protagonisti. Niente di male, la normalità. Eppure non va bene. È questa condizione che avvicina tanto all’ossimoro che rende le vite di queste persone al limite dell’impossibilità. Sì, certo, noi al di qua di Salvini possiamo crogiolarci con la xenofobia, il ringhio dei cattivi che fanno un vanto della loro brutalità anziché vergognarsene. Ma a volte queste cose diventano un alibi per noi, diciamocelo, ché pure noi cadiamo nella trappola dell’omicidio involontario, del considerarli tutti uguali, i “migranti”, di de-personalizzarli.
Giovanni non scrive di ronde, non ci sono razzisti cattivi con la bava alla bocca nel suo romanzo. Anzi. C’è la descrizione della sospensione di alcuni individui. Quella sospensione che rende inopportuna la normalità, e che è il vero nemico contro cui dovremmo batterci. Solo che è un nemico invisibile, sottile, mimetico, raffinato, la sospensione. Un limbo. Che rende impossibili anche tante vite di noi italiani da generazioni, condannandole alla precarietà e accomunandole a quelle dei “migranti”, pensa te!
C’è il recupero della irreplicabilità delle persone, in “E Baboucar guidava la fila”. E questa è una qualità che rende l’opera preziosa. Se ce ne rendessimo conto, se facessimo i conti con questo “invisibile” che ci condanna - tutti - faremmo un gran servizio a noi stessi, autoctoni o migranti che siamo. La narrazione della normalità di Giovanni, questo obiettivo ce lo indica. E questo rende quel libro un libro importante.
Si parla anche di Italia, nel romanzo. E lo si fa con una metafora originale e spiazzante, che gira attorno a una cantante e ai suoi musicisti. A parlarne qui però andrei lungo e farei spoiler. Quindi mi fermo.
venerdì 28 settembre 2018
Affacciati, affacciati
Su questa immagine si sta facendo molta ironia. La fanno quelli del Pd e affini, alcuni dei quali covano verso il M5S quel sentimento che si prova nei confronti del nuovo o della nuova fidanzata dell’ex con la/il quale vorresti tornare insieme, solo che lei/lui non vuol saperne più di te manco via facebook. E questo si capisce. L’ironia la sta facendo anche chi ha inquadrato bene i Cinque stelle, chi cioè ha capito da tempo che sono un partito che di rivoluzionario ha solo la vernice su un corpo che è solidamente “di sistema”, nel senso che non mette minimamente in discussione gli architravi del sistema stesso, a meno di non voler considerare architrave la “kasta”. E questo lo si capisce un po’ meno. Anzi. Vedere chi per anni ha protestato – a ragione – contro l’austerità imposta dai contabili di Bruxelles, vedere chi ha imputato al Pd di essere la cinghia di trasmissione in Italia dei potentati che (s)governano l’Ue, vedere chi ha tifato per Tsipras umiliato dalla Troika stracciarsi oggi le vesti (e segretamente esultare) perché lo spread e i mercati, nemici fino all’altroieri, stanno punendo il governo gialloverde reo di voler portare il deficit al 2,4 per cento è francamente demoralizzante. Di più. È il sintomo della vittoria sul piano culturale del livore elevato a categoria politica proprio dai Cinque stelle che si vorrebbero combattere. È la vittoria dello schierarsi a seconda di come conviene scindendosi da alcun principio reale, sport in cui Casaleggio, Grillo, Di Maio, Di Battista e via dicendo sono stati evidentemente ottimi maestri.
Intendiamoci. L’ironia contro il potere è del tutto legittima, anzi sacrosanta. E anche se in parecchi dentro i Cinque stelle non se ne sono forse ancora accorti, oggi il potere (almeno quello politico, che in verità conta assai poco) sono loro. Di Maio che dice – e forse è pure convinto – di sconfiggere la povertà con una finanziaria farebbe tenerezza se fosse un onesto italiano al terzo prosecco il venerdì sera prima della pizza con gli amici; la sua posizione di vicepresidente del Consiglio rende invece quelle parole imbarazzanti. Per cui l’ironia e le battute sono le benvenute, ci mancherebbe.
Anche l’ingenuità con la quale questi si sono presentati, a sera inoltrata, a un balcone che dava su una folla osannante perché erano riusciti a strappare il via libera al 2,4 per cento di deficit sulla prossima finanziaria, testimonia di un qualcosa andato completamente fuori misura. È propaganda? Sicuramente, in parte lo è. Però, detto che l’essere riusciti ad allargare i cordoni della borsa può suscitare l’invidia di chi per anni ha predicato proprio quello e a malapena è riuscito a raggiungere il 2 per cento alle elezioni; detto del malanimo del Pd sconfitto su tutta la linea. Detto anche che questi (i Cinque stelle) le battute se le tirano come i Rolling Stonese si tirano gli applausi dopo aver suonato Satisfaction; detto tutto questo, c’è dell’altro. Un po’ più serio.
Nell’eccitazione del balcone e della piazza osannante c’è propaganda, dicevamo. C’è molto Rocco Casalino, molto Casaleggio. Di Maio può darsi pure che se ne sarebbe andato a dormire dopo una giornataccia lunga passata ad accordarsi con Salvini e a litigare con Tria, e invece quelli gli hanno detto “no, no, affacciati che facciamo un po’ di cinema che domani i giornali ne parlano e noi sembra che abbiamo preso il Palazzo d’Inverno”. Ecco però. Il punto sta qui. Sta nel fatto che molti Cinque stelle, sia elettori sia parlamentari, pensano davvero di avere ieri conquistato il Palazzo d’Inverno, la Bastiglia. E questo dà l’idea dei tempi bui che attraversiamo e di cui l’apparente e farlocca carica rivoluzionaria dei Cinque stelle è sintomo. Cioè: la possibilità di alzare il deficit al 2,4 per cento – una misura assai moderatamente keynesiana, al netto di come poi verranno utilizzati i soldi, ma questa è una questione che non conta qui – viene percepita come rivoluzionaria sia da chi la mette in atto, sia da chi la vede come una minaccia letale allo status quo. E il fatto che molti progressisti possano essere ricompresi nella seconda categoria è demoralizzante esattamente come lo è il fatto che molti altri (progressisti) siano finiti nella prima, di categoria. Cioè: stiamo scambiando – in parecchi, almeno – il 2,4 per cento per una rivoluzione. E questa non è più manco una questione politica, ma a questo punto psicologica.
mercoledì 12 settembre 2018
Produci, consuma e...insomma quella roba lì
Non mi sono appassionato alle proiezioni, non so quanto siano affidabili. Per cui non so assolutamente se e quanto l’economia rallenterebbe nel caso in cui i negozi fossero costretti alla chiusura domenicale, né se e quanti posti di lavoro si perderebbero. Non so neanche se ci sia qualcuno in grado di orientarsi davvero in una tale materia. Di base penso che un commesso o una commessa di un qualsiasi esercizio commerciale non facciano salti di gioia quando si alzano la domenica sapendo che dovranno andare a lavorare, e a me viene spontaneo stare dalla parte loro. Non so con quali contratti vengano inquadrati, e temo che dietro il lavoro domenicale si nasconda una precarietà preoccupante. Ma in tempi impoveriti come questi so che l’adagio “meglio che niente” va per la maggiore e non è questa la sede per tentare di confutarlo, anche se non mancherebbero gli argomenti.
Di base, penso pure che chiunque debba essere messo nelle condizioni di spendere il proprio tempo come meglio crede. Quindi anche di passare la domenica da un negozio all’altro.
C’è una cosa però che colpisce in chi perora la causa delle aperture domenicali. È che lo shopping festivo viene considerato un diritto per il quale ci si infervora più che contro i ticket in sanità, più che contro il caro-libri e le tasse universitarie che hanno trasformato il diritto allo studio in un lusso; più che contro una politica dei trasporti pubblici che in sostanza ti dice: fatti la macchina e arrangiati.
Innalzare la facoltà di fare shopping a livello di diritto risponde a quella logica di distorsione dei significati in base alla quale, per dire, le città hanno cominciato ad auto-definirsi “centri commerciali naturali” per aumentare il loro appeal. Cioè: invece di chiamare i centri commerciali “città artificiali”, restituendogli la loro carica di luoghi posticci, sminuiamo il senso di centri storici che hanno una storia plurisecolare alla sola dimensione commerciale. È come se le città esistessero solo per fare shopping, come se uno si realizzasse solo nella sua dimensione di cliente-acquirente-consumatore. Come se la sola cosa che ci arricchisca sia il possesso di cose. Come se l’unica cosa degna da fare nel tempo libero sia quella di comprare. A questo porta l’innalzamento dello shopping festivo a livello di diritto.
Ripeto: ognuno è libero di trascorrere il proprio tempo come vuole, anche di saltellare da un negozio all’altro spendendo i pochi soldi guadagnati facendosi sfruttare. Però se uno ci fa mente locale, ci sono diverse decine di cose da fare nel tempo libero che non siano comprare, e sono tutte meglio di comprare. Io non le elenco, ché già fare uno sforzo di fantasia a elencarle porta a immaginarsele, e magari a vedere meno vuote le domeniche senza shopping. Anzi, a desiderarle.
Di base, penso pure che chiunque debba essere messo nelle condizioni di spendere il proprio tempo come meglio crede. Quindi anche di passare la domenica da un negozio all’altro.
C’è una cosa però che colpisce in chi perora la causa delle aperture domenicali. È che lo shopping festivo viene considerato un diritto per il quale ci si infervora più che contro i ticket in sanità, più che contro il caro-libri e le tasse universitarie che hanno trasformato il diritto allo studio in un lusso; più che contro una politica dei trasporti pubblici che in sostanza ti dice: fatti la macchina e arrangiati.
Innalzare la facoltà di fare shopping a livello di diritto risponde a quella logica di distorsione dei significati in base alla quale, per dire, le città hanno cominciato ad auto-definirsi “centri commerciali naturali” per aumentare il loro appeal. Cioè: invece di chiamare i centri commerciali “città artificiali”, restituendogli la loro carica di luoghi posticci, sminuiamo il senso di centri storici che hanno una storia plurisecolare alla sola dimensione commerciale. È come se le città esistessero solo per fare shopping, come se uno si realizzasse solo nella sua dimensione di cliente-acquirente-consumatore. Come se la sola cosa che ci arricchisca sia il possesso di cose. Come se l’unica cosa degna da fare nel tempo libero sia quella di comprare. A questo porta l’innalzamento dello shopping festivo a livello di diritto.
Ripeto: ognuno è libero di trascorrere il proprio tempo come vuole, anche di saltellare da un negozio all’altro spendendo i pochi soldi guadagnati facendosi sfruttare. Però se uno ci fa mente locale, ci sono diverse decine di cose da fare nel tempo libero che non siano comprare, e sono tutte meglio di comprare. Io non le elenco, ché già fare uno sforzo di fantasia a elencarle porta a immaginarsele, e magari a vedere meno vuote le domeniche senza shopping. Anzi, a desiderarle.
lunedì 3 settembre 2018
Caparezza
Giorni fa è capitata una cosa che succede ciclicamente con persone con le quali c’è profonda stima reciproca e con le quali condivido parecchio, anche a livello di gusti musicali (la precisazione la capirete a breve). Com’è, come non è, si è andati a parlare di Madonna (la cantante) e si sono immediatamente ricreate le opposte fazioni di sempre. Da un lato chi, come me, sostiene che si sia trattato e si tratti di un fenomeno sovrapponibile al suo aspetto mercantile, con poco o niente da dire dal punto di vista strettamente artistico; dall’altro chi ribadisce invece che no, un fenomeno così esteso a livello planetario, così durevole nel tempo e così in grado di muovere masse di giovani non può essere derubricato a robetta. Al culmine della discussione, che diventa sempre assai accalorata, è scattata l’accusa fatidica, rivolta dai pro-Madonna agli anti madonnari: “Siete dei RADICAL-CHIC”.
Ecco, a me ‘sta cosa del radical chic mi fa schizzare per aria che nemmeno il sale messo per sbaglio dentro al caffè. Perché sì, ce l’ho il gusto di andarmi a cercare cose strane. Ma è perché penso che l’arte va cercata. E l’arte è la nemica giurata della banalità. Devi fare uno sforzo per arrivarci, non ti si manifesta così, immediata. E quando ci arrivi però, con un pezzo, con un quadro, con un fotogramma o con una foto godi e arrivi così in alto che neanche con il meglio di seicento canzoni di Madonna messo uno sopra l’altro ci arriveresti. È così. E poi è una questione di vibrazioni. A me Madonna non è che non piace perché voglio fare quello che ascolta solo roba ricercata, è che proprio non mi smuove niente. Ma niente proprio.
Mi piace “In fila per tre” di Edoardo Bennato, che dà gusto anche ai bambini di otto anni, e mi piacciono i Primus, che sono un po’ più ostici, per dire. Non cambio canale radio se capita un pezzo di Tiziano Ferro e c’ho più o meno la discografia completa di Nick Cave, e i due non oscillano proprio sulle stesse frequenze. Impazzisco per Edda ma non mi dispiace Harry Styles. Se la gran parte di quello che passa nelle radio commerciali non mi piace non è per partito preso. È che non mi piace proprio, non mi arriva.
Poi è successa una cosa alla fine della quale mi sono detto: sì, con lui sei stato radical chic, e forse, chissà?, anche con altri (no, su Madonna non mi ricredo). Sono andato a un concerto di Caparezza, artista nei confronti del cui successo ho sempre un po’ arricciato il naso per quel vezzo che uno come me ha (l’ammetto) di guardare storto chi fa successo facile. Il ragionamento è un po’ questo: hai fatto successo quasi subito, piaci ai ragazzini, per cui devi dimostrarmelo di essere bravo. Solo che se non ti metti lì ad ascoltare i suoi pezzi o ad andare a uno dei suoi concerti, quello come fa a dimostrarti qualcosa? E ho scoperto che Caparezza e quelli che stanno con lui sul palco e fuori sono bravi ma bravi. E che lui ha fatto successo, ma non grazie alla banalità. Caparezza ti esalta la libertà non parlando di Martin Luther King o di Mandela, ma di Van Gogh, che in vita sua ha dipinto 900 quadri riuscendo a venderne uno soltanto senza però mai abdicare alla propria arte, cioè a se stesso. Caparezza ti esalta il ‘68 (sì, il ‘68!) sfidando, aggirandola, la trappola della retorica. Caparezza ti ribadisce ogni 3x2 quanto sei prigioniero per spingerti a cercare la liberazione. Caparezza canta “Io vengo dalla luna” dopo essersi augurato che venga un tempo in cui non ci sarà più necessità di cantarla. E fa tutto questo, Caparezza, a beneficio di un pubblico che non è quello degli iniziati, lo fa per orecchie che sono abituate ad altro e potrebbero cadere preda di chi gli canta “Prima gli italiani”. È un controcanto pop sacrosanto, vitale, Caparezza, che toccherebbe fargli un monumento. E non è per niente banale. Cerca, ricerca e spinge alla ricerca con levità. Mia figlia, tredici anni, all’uscita dal concerto, per dire, mi ha chiesto: “Com’è ‘sta cosa del ‘68?”.
Viva Caparezza. Dice: adesso l’hai capito? Beh, ognuno hai suoi momenti di radicalismo chic.
Ecco, a me ‘sta cosa del radical chic mi fa schizzare per aria che nemmeno il sale messo per sbaglio dentro al caffè. Perché sì, ce l’ho il gusto di andarmi a cercare cose strane. Ma è perché penso che l’arte va cercata. E l’arte è la nemica giurata della banalità. Devi fare uno sforzo per arrivarci, non ti si manifesta così, immediata. E quando ci arrivi però, con un pezzo, con un quadro, con un fotogramma o con una foto godi e arrivi così in alto che neanche con il meglio di seicento canzoni di Madonna messo uno sopra l’altro ci arriveresti. È così. E poi è una questione di vibrazioni. A me Madonna non è che non piace perché voglio fare quello che ascolta solo roba ricercata, è che proprio non mi smuove niente. Ma niente proprio.
Mi piace “In fila per tre” di Edoardo Bennato, che dà gusto anche ai bambini di otto anni, e mi piacciono i Primus, che sono un po’ più ostici, per dire. Non cambio canale radio se capita un pezzo di Tiziano Ferro e c’ho più o meno la discografia completa di Nick Cave, e i due non oscillano proprio sulle stesse frequenze. Impazzisco per Edda ma non mi dispiace Harry Styles. Se la gran parte di quello che passa nelle radio commerciali non mi piace non è per partito preso. È che non mi piace proprio, non mi arriva.
Poi è successa una cosa alla fine della quale mi sono detto: sì, con lui sei stato radical chic, e forse, chissà?, anche con altri (no, su Madonna non mi ricredo). Sono andato a un concerto di Caparezza, artista nei confronti del cui successo ho sempre un po’ arricciato il naso per quel vezzo che uno come me ha (l’ammetto) di guardare storto chi fa successo facile. Il ragionamento è un po’ questo: hai fatto successo quasi subito, piaci ai ragazzini, per cui devi dimostrarmelo di essere bravo. Solo che se non ti metti lì ad ascoltare i suoi pezzi o ad andare a uno dei suoi concerti, quello come fa a dimostrarti qualcosa? E ho scoperto che Caparezza e quelli che stanno con lui sul palco e fuori sono bravi ma bravi. E che lui ha fatto successo, ma non grazie alla banalità. Caparezza ti esalta la libertà non parlando di Martin Luther King o di Mandela, ma di Van Gogh, che in vita sua ha dipinto 900 quadri riuscendo a venderne uno soltanto senza però mai abdicare alla propria arte, cioè a se stesso. Caparezza ti esalta il ‘68 (sì, il ‘68!) sfidando, aggirandola, la trappola della retorica. Caparezza ti ribadisce ogni 3x2 quanto sei prigioniero per spingerti a cercare la liberazione. Caparezza canta “Io vengo dalla luna” dopo essersi augurato che venga un tempo in cui non ci sarà più necessità di cantarla. E fa tutto questo, Caparezza, a beneficio di un pubblico che non è quello degli iniziati, lo fa per orecchie che sono abituate ad altro e potrebbero cadere preda di chi gli canta “Prima gli italiani”. È un controcanto pop sacrosanto, vitale, Caparezza, che toccherebbe fargli un monumento. E non è per niente banale. Cerca, ricerca e spinge alla ricerca con levità. Mia figlia, tredici anni, all’uscita dal concerto, per dire, mi ha chiesto: “Com’è ‘sta cosa del ‘68?”.
Viva Caparezza. Dice: adesso l’hai capito? Beh, ognuno hai suoi momenti di radicalismo chic.
martedì 7 agosto 2018
Un dibattito
Giorni fa sono stato invitato a un incontro organizzato alla festa di Liberazione di Marsciano (che si trova in Umbria). L’intento del coordinatore e organizzatore della cosa, Sanni Mezzasoma – lo riassumo in maniera tranciante, Sanni spero non me ne vorrà – era di capire se e come sia possibile tornare a un dibattito pubblico depurato dalle tossine dell’insulto ormai regolarmente sferrato all’avversario e che rifuggisse dal “pensiero breve”, cioè da quella pratica molto in voga della richiesta di soluzioni a cortissimo raggio per problemi di sistema. Sanni di ‘sta cosa ne ha anche parlato su ribalta (qui il link per chi volesse leggere: https://goo.gl/X9K7er). Anche per questo Sanni ha invitato una serie di relatori molto eterogenea. Ne è scaturita una cosa a mio avviso piuttosto stimolante, solo che non so se nel complesso si sia risposto alla richiesta iniziale dell’organizzatore, anche perché – almeno per quanto mi riguarda - gli interventi di chi ti precedeva, ti spingevano a interloquire, seppure indirettamente. Così a me, che è capitato di parlare per la prima volta quando avevano già parlato tutti, è venuto di stravolgere quello che avevo in mente di dire (ma neanche poi tanto, alla fine), che è poi quello che sto per scrivere. Perché chi mi aveva preceduto, si era molto concentrato sul governo attuale, su Salvini, sui 5 Stelle e via discorrendo. Il tutto come se ci trovassimo di fronte a una situazione cristallizzata dalla quale non sembrerebbe esserci via d’uscita. Allora a me è scappata di dire una serie di cose, che cerco di riassumere qui. Ho detto che da anni ormai stiamo dentro a un frullatore che rende liquide le cose. Solo quattro-cinque anni fa Renzi sembrava destinato a governare per i prossimi trent’anni: aveva portato il Pd al 40 per cento e a momenti si apprestava a essere incoronato re. Poi è andata come è andata. Salvini, più o meno nello stesso periodo in cui Renzi pareva il padrone di tutto, faceva del tutto per saltare in sella a un cavallo che sembrava destinato a stramazzare (la Lega era ridotta al lumicino fiaccata dagli scandali); oggi la Lega potrebbe diventare il primo partito in Italia. I 5 stelle non erano niente fino alla legislatura iniziata nel 2013; oggi sono il primo partito con percentuali da Dc. Tutti questi accadimenti erano impensabili nella Prima repubblica, e pure nella seconda, che sono i periodi in cui si sono formati tutti quelli che scrivono, dibattono, elucubrano, speculano e cazzeggiano su queste cose (e questo è anche uno dei motivi per cui le cose non si mettono mai bene a fuoco). Nella prima repubblica un’oscillazione dell’1 per cento di un partito che aveva il 30, era accolta come un terremoto; nella seconda, gli equilibri, nonostante i cambi di governo, sono sempre stati più o meno quelli. Oggi no. Oggi è tutto liquido. Questo significa che Salvini che pare essere oggi uber alles, potrebbe diventare domani uno straccio che vola. E questo significa pure che ci sono ampi spazi di manovra per chi non è contento di come vanno le cose.
Ma perché c’è questa liquidità? 1) Perché non ci si batte più per alternative, le forze politiche, nonostante si insultino pesantemente a vicenda, si assomigliano assai più di quanto si pensi: sono tutte compatibili col sistema del “privato è meglio” (scusate se taglio con l’accetta); i partiti, nonostante le grida altissime, non toccano mai questioni di sistema, nessuno, almeno di quelli rappresentati in parlamento, quindi sono costretti a urlare per apparire più convinti degli altri a fare però la stessa cosa, salvo tentare di convincerci che la faranno meglio e 2) perché c’è un malcontento diffuso (la precarizzazione esistenziale, mi viene di chiamarla) che di volta in volta cerca il rappresentante più adeguato e cambia di volta in volta perché non ne trova e il precariato esistenziale resta, governo dopo governo. Perché il precariato esistenziale è una questione di sistema. E nessuno la affronta come tale.
Che fare? Ah, bella domanda! E che ne so? Io so solo che bisogna fare quello che si sa fare. Non farsi traviare dal momento. Non parlare di Salvini come di un totem destinato a rimanere lì per anni. Non lo è. Non ne è capace. I selfie da bimbominkia alla lunga non lo pagheranno. Perché oggi i precari esistenziali chiedono soluzioni, e lui non è in grado di darne (almeno dal mio punto di vista: uno che fa il ministro dell’Interno e che il 2 agosto, il 2 agosto, dico: do you remember Bologna?, si fa un selfie con una faccia che manco Albertone scrivendo: “Che caldo amici!”, dove cazzo vuole andare?). Che fare, dunque? Quello che si sa fare, dicevo. Mica Fellini quando ha fatto “8½ ” pensava al pubblico, pensava a sé, alla sua arte, e gli è scappato un capolavoro; mica Orwell quando ha scritto “1984” pensava a fare successo, soddisfaceva la sua esigenza di intellettuale, è per questo che gli è scappato un capolavoro. Per quanto mi riguarda quindi: non arrendersi al pensiero breve, approfondire con leggerezza per farsi apprezzare anche da chi non la pensa esattamente come te; tentare di comunicare che se ti mettono veleni nel piatto e nell’aria e se c’è gente che muore per trenta euro al giorno raccogliendo i pomodori con cui tu condirai la tua pasta low cost, è perché c’è gente a cui non frega un cazzo di te, della tua vita e che punta solo a fare profitto rovinando la tua, di vita, e quella di milioni di altre persone; tentare di far capire che il pareggio di bilancio in Costituzione è una bestemmia contro la cosa pubblica e costringe a restringerla, amputarla, menomarla, la cosa pubblica. E per cosa pubblica intendo sanità, istruzione (dall’asilo all’università) e progettazione delle città. Settori dove andrebbe fatto capire che il libero mercato dovrebbe essere bandito. Bandito. Questo, ho detto. Impegnarsi per come si è e come la si pensa. Non vendersi al selfismo da salvinite, malattia di corto respiro. E ho detto che non faccio solo parole, o almeno ci provo, perché con i miei compari di ribalta questo stiamo tentando di fare da due-tre anni: approfondire, non arrendersi alla disintermediazione, alla semplificazione che melmifica tutto. Perché si può costruire altro, non ci sono cose ineluttabili. Si può, non seguendo la scorciatoia dell’insulto e del pensiero breve. Ma anzi rifuggendone, perché lì si annida il male. Ecco, queste ultime due frasi non le ho dette al dibattito, erano la risposta a Sanni, ma credo che il mio punto di vista si sia capito, più o meno.
Ma perché c’è questa liquidità? 1) Perché non ci si batte più per alternative, le forze politiche, nonostante si insultino pesantemente a vicenda, si assomigliano assai più di quanto si pensi: sono tutte compatibili col sistema del “privato è meglio” (scusate se taglio con l’accetta); i partiti, nonostante le grida altissime, non toccano mai questioni di sistema, nessuno, almeno di quelli rappresentati in parlamento, quindi sono costretti a urlare per apparire più convinti degli altri a fare però la stessa cosa, salvo tentare di convincerci che la faranno meglio e 2) perché c’è un malcontento diffuso (la precarizzazione esistenziale, mi viene di chiamarla) che di volta in volta cerca il rappresentante più adeguato e cambia di volta in volta perché non ne trova e il precariato esistenziale resta, governo dopo governo. Perché il precariato esistenziale è una questione di sistema. E nessuno la affronta come tale.
Che fare? Ah, bella domanda! E che ne so? Io so solo che bisogna fare quello che si sa fare. Non farsi traviare dal momento. Non parlare di Salvini come di un totem destinato a rimanere lì per anni. Non lo è. Non ne è capace. I selfie da bimbominkia alla lunga non lo pagheranno. Perché oggi i precari esistenziali chiedono soluzioni, e lui non è in grado di darne (almeno dal mio punto di vista: uno che fa il ministro dell’Interno e che il 2 agosto, il 2 agosto, dico: do you remember Bologna?, si fa un selfie con una faccia che manco Albertone scrivendo: “Che caldo amici!”, dove cazzo vuole andare?). Che fare, dunque? Quello che si sa fare, dicevo. Mica Fellini quando ha fatto “8½ ” pensava al pubblico, pensava a sé, alla sua arte, e gli è scappato un capolavoro; mica Orwell quando ha scritto “1984” pensava a fare successo, soddisfaceva la sua esigenza di intellettuale, è per questo che gli è scappato un capolavoro. Per quanto mi riguarda quindi: non arrendersi al pensiero breve, approfondire con leggerezza per farsi apprezzare anche da chi non la pensa esattamente come te; tentare di comunicare che se ti mettono veleni nel piatto e nell’aria e se c’è gente che muore per trenta euro al giorno raccogliendo i pomodori con cui tu condirai la tua pasta low cost, è perché c’è gente a cui non frega un cazzo di te, della tua vita e che punta solo a fare profitto rovinando la tua, di vita, e quella di milioni di altre persone; tentare di far capire che il pareggio di bilancio in Costituzione è una bestemmia contro la cosa pubblica e costringe a restringerla, amputarla, menomarla, la cosa pubblica. E per cosa pubblica intendo sanità, istruzione (dall’asilo all’università) e progettazione delle città. Settori dove andrebbe fatto capire che il libero mercato dovrebbe essere bandito. Bandito. Questo, ho detto. Impegnarsi per come si è e come la si pensa. Non vendersi al selfismo da salvinite, malattia di corto respiro. E ho detto che non faccio solo parole, o almeno ci provo, perché con i miei compari di ribalta questo stiamo tentando di fare da due-tre anni: approfondire, non arrendersi alla disintermediazione, alla semplificazione che melmifica tutto. Perché si può costruire altro, non ci sono cose ineluttabili. Si può, non seguendo la scorciatoia dell’insulto e del pensiero breve. Ma anzi rifuggendone, perché lì si annida il male. Ecco, queste ultime due frasi non le ho dette al dibattito, erano la risposta a Sanni, ma credo che il mio punto di vista si sia capito, più o meno.
mercoledì 18 luglio 2018
Un'altra capriola
Se uno ci pensa bene, l’ampliamento dell’istituto della legittima difesa è un’ammissione di impotenza da parte di chi governa. Non è solo l’assecondare il basso istinto della vendetta o della protezione della “roba” anche a prezzo della vita altrui. Intendiamoci: pure questo atteggiamento è un’ammissione di impotenza: io non governo, io ti liscio il pelo e ti faccio sfogare, o meglio ti appiccico addosso l’idea che se ammazzi il ladro che ti entra in casa io starò dalla tua parte, anche se starai di merda probabilmente per il resto della vita a ricordare il tipo che ha rantolato dopo che tu gli hai sparato alle spalle, e su quello non ci sono avvocati difensori o leggi a favore che tengano. Ma a me che mi frega: per il momento tu sei contento, e io prendo voti, mica si può essere così lungimiranti da pensare a quanto potresti stare di merda dopo, no? E quando starai di merda, ci starai tu, io intanto il tuo voto l’avrò preso. Semplice. Come? Dare la libertà di sparare ai ladri è un deterrente contro le rapine? No. Non c’è nessuna evidenza statistica in questo senso. Quell’affermazione ha lo stesso valore della mia, che sostengo che dare libertà di armarsi porta al far west: 1-1 e palla al centro.
Ma, dicevo, l’ampliamento dell’istituto della legittima difesa è un’ammissione di impotenza da parte di chi governa, che, ricordiamolo, ha per legge il monopolio dell’uso della forza. Monopolio che allenta per allargare il diritto all’uso della forza da parte dei privati. Il ragionamento che sta sotto è: io che sto al governo non riesco a garantire sicurezza (per tutta una serie di motivi che non è qui il caso di toccare), e non riesco nemmeno ad assicurare alla giustizia gli autori dei reati. Allora, sai che c’è? Fai da te, anche a costo di spargere sangue.
Il vero capolavoro però è che questa ammissione di debolezza è mascherata da provvedimento da uomo forte. Ed è vissuta da chi la apprezza come un gesto da governo forte. No. Questa è la debolezza scambiata per forza. Ed è l’ennesima capriola di significato di cui è costellata questa epoca disgraziata. Olè.
Ma, dicevo, l’ampliamento dell’istituto della legittima difesa è un’ammissione di impotenza da parte di chi governa, che, ricordiamolo, ha per legge il monopolio dell’uso della forza. Monopolio che allenta per allargare il diritto all’uso della forza da parte dei privati. Il ragionamento che sta sotto è: io che sto al governo non riesco a garantire sicurezza (per tutta una serie di motivi che non è qui il caso di toccare), e non riesco nemmeno ad assicurare alla giustizia gli autori dei reati. Allora, sai che c’è? Fai da te, anche a costo di spargere sangue.
Il vero capolavoro però è che questa ammissione di debolezza è mascherata da provvedimento da uomo forte. Ed è vissuta da chi la apprezza come un gesto da governo forte. No. Questa è la debolezza scambiata per forza. Ed è l’ennesima capriola di significato di cui è costellata questa epoca disgraziata. Olè.
giovedì 12 luglio 2018
Sottoporsi all'idiozia di ripetere l'ovvio (o della propaganda)
La propaganda è una brutta bestia. Per chi la subisce e per chi è contento di subirla. Perché ci sono due modi di esserne succubi. Uno è quello di chi si rende conto che è propaganda e però fa una fatica immonda con le sue sole forze ad arginarla: la propaganda è tale perché ha forza e mezzi per annientare la ragione. L’altro è quello di chi è sottoposto a un processo di infatuazione tale da dover giustificare anche cose che non pensava o di cui non è mai stato/a convinto/a; succede quando l’infatuazione per il soggetto che pensa e dice quelle cose (uomo, donna, politico, partito, ministro che sia) è andata talmente in là che non si riesce a tornare indietro e si cercano appigli per rendere accettabile anche a se stessi il proprio nuovo punto di vista, trovandoli nella propaganda, appunto. Questi sono quelli “contenti” di subirla, la propaganda. Poi c’è chi la propaganda la promuove perché ne trae giovamento, e chi non si rende neanche conto di subirla diventandone megafono, ma non è questo il punto. Qui interessano i “contenti”.
Uno degli esempi di “contenti” è dato da una fascia crescente di elettori del M5S che trovandosi sotto la mitragliatrice comunicativa leghista, si stanno acconciando a giustificare posizioni in tema di immigrazione che non gli appartenevano, e che soprattutto non hanno senso. Aveva cominciato il loro leader (Di Maio) a parlare di “taxi del mare”, ma sotto il pressing salviniano si sta andando pure oltre quella sciagurata definizione, e si sta tutto riducendo in una poltiglia informe nella quale non si riescono più a distinguere gli ingredienti sani (qualora ce ne fossero) da quelli velenosi. E allora te li trovi, i “contenti”, a solennizzare che c’è gente che specula sulla pelle dei migranti (ma va?) e che bisogna fermare questa tratta (ma non mi dire!). Date queste premesse, concludono salvinianamente, i “contenti”, che bisogna bloccare i porti.
Andrebbe tutto bene in un ragionamento del genere. Se non fosse che la premessa, sebbene sostenuta da ampie batterie di propaganda, non regge all’urto della realtà. Se c’è gente che specula sui migranti, è perché questi non hanno possibilità legali di approdare in Europa. L’unica chance che gli è data da leggi inumane, è quella di pagare prezzi altissimi per affrontare viaggi inumani e violenze di ogni tipo per poi alla fine mettersi su un barcone e rischiare di annegare. Dire che per fermare la tratta occorre chiudere i porti e rimandare tutti indietro al proprio destino di morte per fame o guerra - perché questo significa – non sposta di una virgola il problema. E non è solo una questione di umanità. Chi è spinto da fame o guerre non lo fermi; quello manco lo sa che tu hai chiuso i porti. Continuerà a partire, perché con queste leggi ci sarà sempre qualcuno che gli offrirà un barcone a caro prezzo per fuggire dalla merda in cui si trova. E lui o lei ci salirà sopra, se potrà.
La politica dei respingimenti non è solo disumana. È insensata. Non risolve i problemi che verbosamente afferma di voler affrontare. Dice: ce l’hai con Salvini, con il Movimento (con la M maiuscola eh, mi raccomando). No. Non datevi troppa importanza. Ce l’ho con l’Europa che una cosa del genere dovrebbe capirla (è semplice, eh) e dovrebbe aprire corridoi di legalità per i migranti. Ci sarebbe più umanità. Ma so che non è questo che vi interessa, e allora dovete sapere che ci sarebbero pure più controllo e più ordine. Esattamente quelli che strombazzano i propagandisti, che dicono una cosa e mettono in atto la condotta giusta per non raggiungerla. Però ci prendono voti, con quella condotta insensata. E convincono i “contenti”, beati loro.
Ecco, ho ripetuto l’ovvio. La propaganda ti sottopone anche a questo tipo di pratica idiota.
Uno degli esempi di “contenti” è dato da una fascia crescente di elettori del M5S che trovandosi sotto la mitragliatrice comunicativa leghista, si stanno acconciando a giustificare posizioni in tema di immigrazione che non gli appartenevano, e che soprattutto non hanno senso. Aveva cominciato il loro leader (Di Maio) a parlare di “taxi del mare”, ma sotto il pressing salviniano si sta andando pure oltre quella sciagurata definizione, e si sta tutto riducendo in una poltiglia informe nella quale non si riescono più a distinguere gli ingredienti sani (qualora ce ne fossero) da quelli velenosi. E allora te li trovi, i “contenti”, a solennizzare che c’è gente che specula sulla pelle dei migranti (ma va?) e che bisogna fermare questa tratta (ma non mi dire!). Date queste premesse, concludono salvinianamente, i “contenti”, che bisogna bloccare i porti.
Andrebbe tutto bene in un ragionamento del genere. Se non fosse che la premessa, sebbene sostenuta da ampie batterie di propaganda, non regge all’urto della realtà. Se c’è gente che specula sui migranti, è perché questi non hanno possibilità legali di approdare in Europa. L’unica chance che gli è data da leggi inumane, è quella di pagare prezzi altissimi per affrontare viaggi inumani e violenze di ogni tipo per poi alla fine mettersi su un barcone e rischiare di annegare. Dire che per fermare la tratta occorre chiudere i porti e rimandare tutti indietro al proprio destino di morte per fame o guerra - perché questo significa – non sposta di una virgola il problema. E non è solo una questione di umanità. Chi è spinto da fame o guerre non lo fermi; quello manco lo sa che tu hai chiuso i porti. Continuerà a partire, perché con queste leggi ci sarà sempre qualcuno che gli offrirà un barcone a caro prezzo per fuggire dalla merda in cui si trova. E lui o lei ci salirà sopra, se potrà.
La politica dei respingimenti non è solo disumana. È insensata. Non risolve i problemi che verbosamente afferma di voler affrontare. Dice: ce l’hai con Salvini, con il Movimento (con la M maiuscola eh, mi raccomando). No. Non datevi troppa importanza. Ce l’ho con l’Europa che una cosa del genere dovrebbe capirla (è semplice, eh) e dovrebbe aprire corridoi di legalità per i migranti. Ci sarebbe più umanità. Ma so che non è questo che vi interessa, e allora dovete sapere che ci sarebbero pure più controllo e più ordine. Esattamente quelli che strombazzano i propagandisti, che dicono una cosa e mettono in atto la condotta giusta per non raggiungerla. Però ci prendono voti, con quella condotta insensata. E convincono i “contenti”, beati loro.
Ecco, ho ripetuto l’ovvio. La propaganda ti sottopone anche a questo tipo di pratica idiota.
venerdì 29 giugno 2018
Dai, parliamo della Samb
Se digiti la stringa “Salvini migranti”, Google rintraccia 18.800.000 notizie. Se digiti “Salvini mafia”, i risultati sono 7.880.000. Se cerchi “Salvini camorra”, compaiono 362 mila risultati. Se proprio sei insistente e cerchi pure “Salvini 'ndrangheta”, Google ti fa comparire 599.000 risultati. Se, infine, non ti vuoi fare proprio mancare niente e scrivi su Google“Salvini criminalità organizzata”, ti si visualizzano 197.000 notizie. Sommate insieme, le volte in cui si trova il nome di Salvini associato a quello di mafia, camorra, 'ndrangheta e criminalità organizzata, non arrivano neanche alla metà delle volte in cui lo stesso nome è associato a “migranti”.
Ma che conti sarebbero questi? Un attimo, ci arriviamo. Salvini è ministro dell'Interno. La prima competenza del dicastero che dirige è quella dell'ordine pubblico. Nel 2017, secondo le statistiche riportate dal sito del ministero dell'Interno (non da qualche Ong di fricchettoni), hanno fatto richiesta al fondo per le vittime di reati della criminalità organizzata 936 soggetti (923 sono state accolte). Nello stesso anno, sono stati segnalati per omicidio 186 stranieri. Cioè: le vittime di reati gravi della criminalità organizzata sono circa cinque volte di più rispetto alle vittime di omicidi per cui sono stati segnalati come autori soggetti stranieri. Eppure il ministro dell'Interno – responsabile della sicurezza di tutti noi - parla di mafia, camorra e 'ndrangheta neanche la metà delle volte in cui parla di immigrazione. Un po' come se l'allenatore della Juve stesse sempre lì a insistere sulla Sambenedettese.
Ma che conti sarebbero questi? Un attimo, ci arriviamo. Salvini è ministro dell'Interno. La prima competenza del dicastero che dirige è quella dell'ordine pubblico. Nel 2017, secondo le statistiche riportate dal sito del ministero dell'Interno (non da qualche Ong di fricchettoni), hanno fatto richiesta al fondo per le vittime di reati della criminalità organizzata 936 soggetti (923 sono state accolte). Nello stesso anno, sono stati segnalati per omicidio 186 stranieri. Cioè: le vittime di reati gravi della criminalità organizzata sono circa cinque volte di più rispetto alle vittime di omicidi per cui sono stati segnalati come autori soggetti stranieri. Eppure il ministro dell'Interno – responsabile della sicurezza di tutti noi - parla di mafia, camorra e 'ndrangheta neanche la metà delle volte in cui parla di immigrazione. Un po' come se l'allenatore della Juve stesse sempre lì a insistere sulla Sambenedettese.
domenica 3 giugno 2018
Disclaimer: post livoroso
Nell’antipasto c’è di tutto: pizza, salumi, crostini, frittini, formaggi. Il tutto contenuto in un piatto di un diametro sensibilmente maggiore rispetto a quelli nei quali siamo abituati a mangiare tutti i giorni. Poi c’è il primo: una pastasciutta che viene sporzionata al tavolo dopo essere stata fatta arrivare dentro una forma di parmigiano scavata all’interno per fare da contenitore alla pietanza. Infine, una grigliata servita su un tagliere di dimensioni sovranaturali, dove sono finiti arrostiti presumibilmente gran parte dei tipi di carne conosciuti all’umanità. È mentre lui sta mangiando questa roba che arriva stentorea la sua voce.
“Lui” sta con “loro”. Ma “loro” non si odono mai. “Loro” sono una bambina che avrà poco più di dieci anni e una donna tra i quaranta e i cinquanta, faccia monoespressione su una tonalità tra il serio e l’annoiato. “Lui” è più o meno coetaneo della donna. Gli anni ne hanno appesantito il fisico. Si è fatto crescere una barba che una volta si sarebbe detta “risorgimentale”, avete presente le barbe di Mazzini e Garibaldi?, ma oggi è “da hipster”. All’arrosto il cameriere, che deve conoscerlo piuttosto bene, resta vicino al tavolo, e così inizia la conversazione. Si riescono a carpire alcuni termini e frasi smozzicate: «Vengo da una famiglia libertaria...considero il fascismo un’idea come le altre...io sono nazionalista, che c’è di male?». I contenuti appena riportati sono del cliente, che nonostante sia solo in fase di riscaldamento vocale, riesce comunque a respingere ogni tentativo di parola del cameriere. La voce si fa sempre più chiara anche a chi pur trovandosi nelle vicinanze, non ha alcun interesse ad ascoltare.
«Io sono nazionalista, che c’è di male?», eravamo rimasti qui. Ma quella era solo la premessa che serviva a preparare il campo per raggiungere l’apice retorico, che arriva nella frase scandita subito dopo a un volume più alto: «Perché se io vado in Polonia devo rispettare la legge altrimenti mi fanno un culo così, e invece in Italia ognuno può venire qua a fare quello che gli pare?».
Ecco. Io credo che chi non si riconosce nelle idee del ministro dell’Interno e dell’uomo con la barba che io mi sono ritrovato a poca distanza, debba smetterla di replicare a ogni sussurro suo (del ministro dell’Interno) o di chi gli sta intorno. Penso che dovrebbe smetterla di replicare e provare a tematizzare con i suoi argomenti, spostare proprio il campo di gioco. Ma questo è un discorso lungo, che non ha senso intraprendere in questo, che è un post livoroso e che quindi lascerà il tempo che avrà trovato. Ecco, dicevo, penso che sarebbe ora di tematizzare, ma mi contraddico subito. E replico. Replico qui, perché sono civile, e se avessi replicato al ristorante sarebbe finita in caciara.
Ecco, dicevo. Io penso che con questa gente si debba cercare di parlare per tentare di bilanciare la propaganda cieca e irragionevole sotto la quale si rischia di rimanere anestetizzati e di parlare come replicanti. Però questi dovrebbero anche cominciare ad avere un po’ di pudore, a vergognarsi almeno un po’ di quello che dicono. Se non altro a non esserne così fieri, come mi è parso essere l’uomo con la barba. Perché quelle frasi, dette sulla terrazza di un ristorante con vista strepitosa, serviti al tavolo mentre si sta introducendo nel proprio corpo una quantità di calorie che sarebbero sufficienti ad andare avanti senza cibo per tre giorni, sono vergognose. Nel senso che se uno avesse la contezza di star sparando una cazzata enorme se ne vergognerebbe. Chi le pronuncia però non ne ha assolutamente contezza, altrimenti non parlerebbe, e quindi non prova vergogna. Anzi. Alza la voce. Si fa sentire.
E però, la prova che egli sta sparando una cazzata enorme è data da egli stesso nel momento preciso in cui sta sparando l’enorme cazzata. Che rimane una cazzata enorme, nonostante sia suffragata quotidianamente da valanghe d’inchiostro e bit spacciate da giornalisti in cerca di vendite e analisti e politologi a metà tra l’deologicamente accecato (pur cercando accuratamente di non farlo sembrare) e lo smodato desiderio di affermarsi tentando di suscitare clamore con idee “politicamente scorrette”. Da anni, giornalisti, analisti e politologi di cui sopra, vanno spacciando la “teoria dell’uomo della strada”. Che ha sempre ragione. Che va “ascoltato e non trattato come un inferiore”. Che se dice qualcosa è perché quella cosa ha ragioni profondissime che gli intellettuali (ovvio, “de sinistra”) non capiscono. Dall’invito ad ascoltare le esigenze “dell’uomo della strada”, si è arrivati alla sua santificazione. E come tutti i santi, guai a contraddirlo, l’uomo della strada. Sono due fenomeni, quello dell’uomo della strada e dei suoi santificatori, che si alimentano l’uno con gli altri. L’uomo della strada sentenzia, i suoi santificatori a un livello più alto amplificano la sua opinione e la ergono a dogma, l’uomo della strada si specchia in esso, la politica assorbe il tutto e traduce.
Sto divagando. Perché, dicevo, l’uomo con la barba è lui stesso la prova che l’adagio che egli sta traducendo in quel momento (“non siamo più padroni in casa nostra”) è una cazzata enorme? Perché non lo sta minacciando nessuno. Perché in Italia chi delinque paga, e se il delinquente non paga è perché in genere è un potente, non un poveraccio. Perché lui, l’uomo con la barba, sta spendendo per un pranzo una cifra che coloro cui egli imputa la colpa di non poter essere padrone in casa sua, non hanno forse mai visto tutta insieme se non prima di darla all’aguzzino che li ha portati qua su un barcone traballante. Perché non c’è nessun esercito a minacciare la “civiltà” dell’uomo della strada. Non c’è nessuno da cui difendersi. E se mai ci fosse qualcuno da cui farlo, quello non è certo l’immigrato.
Se l’uomo della strada avesse contezza di questo, si difenderebbe semmai da chi lo ha eretto su un piedistallo coltivando la sua ignoranza e facendoci crescere sopra una fortuna politica, editoriale, accademica a volte. Si difenderebbe da chi gli sussurra che “chi vuole accogliere gli stranieri è perché non conosce il disagio delle periferie”. Come se chi dice quelle cose lì il disagio delle periferie lo conoscesse. O come se lo conoscesse lui, il disagio delle periferie, l’uomo con la barba che si sta mangiando l’impossibile su un panorama mozzafiato. O come se il disagio lo conoscesse chi ha postato su facebook il meme vergognoso che vedete a corredo di questo post. Ieri ha postato questa idiozia. E oggi se n'è andato al mare (facebook non dà scampo se gli affidi la tua vita, contatto mio). Siete padroni di ingozzarvi, di andare al mare. Ma non di prendervela con chi sta peggio di voi e non fa nulla contro di voi. Dovreste prendervela con chi plaude alla vostra ignoranza, coltivandola, facendoci sopra una fortuna. Ma non ci arrivate.
martedì 15 maggio 2018
Senza senso
Il M5S è un’organizzazione formidabile. Ne sono una prova le dichiarazioni fotocopia che nei diversi momenti vengono rilasciate dai diversi esponenti. Fotocopia proprio. Ora è il momento di questa, reiterata dai vari e dalle varie Grillo, Toninelli, Di Maio, Spadafora, Bonafede eccetera; suona così: «Per la prima volta nella storia c’è una trattativa sul governo al centro della quale ci sono gli interessi dei cittadini». In bocca a qualsiasi altro esponente politico apparirebbe come una delle tante dichiarazioni buttate là a favore di telecamera. Lo è. Ma i grillini sono “nuovi”, e la ripetono con una precisione che nemmeno il copia-incolla, tanto che ti viene pure la tentazione di crederci. Però c’è qualcosa che stona.
1) Non si ricorda esponente politico che abbia mai detto di star facendo trattative per curare i suoi affari personali, il suo destino politico, quello del suo partito o quello dei suoi cari. Tutti, sempre, impegnati nelle più strenue battaglie di potere, hanno dichiarato pubblicamente che lo stavano facendo nell’interesse dei cittadini. In questo gli esponenti del M5S sono identici ai politici che li hanno preceduti, ai loro contemporanei, e a chi verrà dopo di loro.
2) Credere a quella affermazione seriale è un vero e proprio atto di fede; lo stesso che fa chi crede alla verginità della Madonna, alla reincarnazione o alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Lo è perché, semplicemente, nessuno tranne i partecipanti sa cosa si stiano dicendo le delegazioni di M5S e Lega in questa serie infinita di incontri che dura da giorni. Non ci sono verbali né dichiarazioni che scendano nel merito di quanto discusso. Nessuno riferisce di cosa si è detto, come, e quali siano le posizioni; quello che si sa, lo si sa grazie alle ricostruzioni dei vituperati giornalisti. Sono state abolite le dirette streaming. Bisogna fidarsi del dichiarante di turno, che oltre a dirci che si sta occupando «degli interessi dei cittadini», nel caso sia particolarmente in vena ti dice pure che «sta scrivendo la storia», che non è propriamente entrare nel merito.
3) «Fare gli interessi dei cittadini» è una frase senza senso. È come dire «sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno». I «cittadini» sono un’entità indefinita. Ci sono cittadini ricchi e poveri, che evadono le tasse e che le pagano fino all’ultimo centesimo; ci sono giovani e pensionati; e tra i giovani, c’è chi è figlio di papà e chi è stato cresciuto a stento; e tra i pensionati c’è chi va avanti con la minima e chi con quella d’oro; ci sono uomini e donne (e per le seconde, in genere, è tutto un po’ più difficile); c’è chi ha alle sue dipendenze gente che lavora per lui e chi per campare deve prestare il proprio lavoro ad altri che glielo pagano come dicono loro, se glielo pagano. Fare gli interessi degli uni può voler dire penalizzare gli altri. Insomma, dire che si fanno «gli interessi dei cittadini» può suonare fico, è di sicuro effetto. Reiterare la frase la rende quasi vera. Ma ciò non toglie che nella sostanza sia una cosa vecchia e che non dice niente, proprio niente. Anzi, è senza senso.
1) Non si ricorda esponente politico che abbia mai detto di star facendo trattative per curare i suoi affari personali, il suo destino politico, quello del suo partito o quello dei suoi cari. Tutti, sempre, impegnati nelle più strenue battaglie di potere, hanno dichiarato pubblicamente che lo stavano facendo nell’interesse dei cittadini. In questo gli esponenti del M5S sono identici ai politici che li hanno preceduti, ai loro contemporanei, e a chi verrà dopo di loro.
2) Credere a quella affermazione seriale è un vero e proprio atto di fede; lo stesso che fa chi crede alla verginità della Madonna, alla reincarnazione o alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Lo è perché, semplicemente, nessuno tranne i partecipanti sa cosa si stiano dicendo le delegazioni di M5S e Lega in questa serie infinita di incontri che dura da giorni. Non ci sono verbali né dichiarazioni che scendano nel merito di quanto discusso. Nessuno riferisce di cosa si è detto, come, e quali siano le posizioni; quello che si sa, lo si sa grazie alle ricostruzioni dei vituperati giornalisti. Sono state abolite le dirette streaming. Bisogna fidarsi del dichiarante di turno, che oltre a dirci che si sta occupando «degli interessi dei cittadini», nel caso sia particolarmente in vena ti dice pure che «sta scrivendo la storia», che non è propriamente entrare nel merito.
3) «Fare gli interessi dei cittadini» è una frase senza senso. È come dire «sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno». I «cittadini» sono un’entità indefinita. Ci sono cittadini ricchi e poveri, che evadono le tasse e che le pagano fino all’ultimo centesimo; ci sono giovani e pensionati; e tra i giovani, c’è chi è figlio di papà e chi è stato cresciuto a stento; e tra i pensionati c’è chi va avanti con la minima e chi con quella d’oro; ci sono uomini e donne (e per le seconde, in genere, è tutto un po’ più difficile); c’è chi ha alle sue dipendenze gente che lavora per lui e chi per campare deve prestare il proprio lavoro ad altri che glielo pagano come dicono loro, se glielo pagano. Fare gli interessi degli uni può voler dire penalizzare gli altri. Insomma, dire che si fanno «gli interessi dei cittadini» può suonare fico, è di sicuro effetto. Reiterare la frase la rende quasi vera. Ma ciò non toglie che nella sostanza sia una cosa vecchia e che non dice niente, proprio niente. Anzi, è senza senso.
mercoledì 9 maggio 2018
Da PalaEvangelisti a Palapincopallino, che male c'è?
Nei giorni scorsi ha fatto discutere la decisione presa dalla giunta comunale di Perugia di cambiare il nome al palazzetto dello sport dove domenica scorsa la squadra di pallavolo cittadina ha conquistato il primo scudetto della sua storia. È successo che l’esecutivo cittadino ha dato il diritto di ribattezzare la struttura all’azienda che si fosse aggiudicata la gara bandita lo scorso 26 marzo. La cosa frutterà all’incirca 50 mila euro l’anno.
Il palazzetto si chiama oggi PalaEvangelisti. Evangelisti è il cognome di Giuseppe: ciclista, pittore, garibaldino e antifascista. Ci sono state diverse amenità intorno alla vicenda. Un assessore della suddetta giunta ha cannato la data di morte di Evangelisti collocandola alla fine dell’ottocento, deducendone così che Giuseppe non avrebbe mai potuto essere stato antifascista «salvo che fosse veggente», ha ironizzato. Giuseppe invece è morto a Nizza nel 1935, dopo che nel 1926 il regime fascista l’aveva mandato al confino. La cosa grave non è che il membro di giunta non sapesse nulla di Evangelisti, ma che non abbia sentito il bisogno di documentarsi prima di scriverci su. Ma non è questo il punto. Ci sono stati Vanni Capoccia e la cittadina Società operaia di Mutuo soccorso a ricordare a smemorati e spiritosi chi fu Giuseppe Evangelisti. E Leonardo Malà ha copiato-incollato sul suo profilo facebook il ritratto di “Peppino” tratto da un libro che lui, Malà, ha pubblicato nel 2008 insieme ad Alfio Branda, “Stelle in corsa”. Paradossalmente quindi, la topica dell’assessore è stata produttiva, consentendo alla città di riscoprire un suo eroe. Certo, sarebbe meglio che un membro di giunta fosse un pelino più accorto. Ma tant’è, non si può avere tutto dalla vita.
Sulla polemica si è registrato anche un comunicato della giunta, che con una discreta dose di spericolatezza ha argomentato che in seguito alla concessione del diritto di rinominare il PalaEvangelisti all’azienda aggiudicatrice dell’asta, «non verrà meno il nome giuridico-istituzionale del palazzetto dello sport che è e resta intitolato a Giuseppe Evangelisti». Cioè: la struttura si chiamerà PalaPincopallino. PalaPincopallino verrà scritto a caratteri cubitali su tutti i lati della struttura. PalaPincopallino la struttura verrà chiamata in occasione di tutte le dirette tv delle partite della squadra di volley campione d’Italia e di tutte le manifestazioni che lì verranno ospitate. Però, sotto sotto, continuerà ad essere intitolata a Giuseppe Evangelisti. Geniale. Ma non è neanche questo il punto.
Il punto è che questa cosa è stata fatta per soldi. Nel sopra citato comunicato spericolato la giunta tenta di schermarsi dietro al fatto che «si tratta di un’operazione largamente diffusa in tutte le principali città italiane che ospitano palazzetti dello sport di significative dimensioni». Al di là del fatto che la giustificazione lascia trapelare un qualche tipo di imbarazzo, come se qualcuno, all’interno della giunta, avesse subodorato che passare da PalaEvangelisti a PalaPincopallino non è una di quelle operazioni di cui andare orgogliosi. Al di là di questo, appunto, c’è un particolare che nello sgangheramento dei tempi passa per fisiologico, ma è invece patologico. È che al nome corrisponde la cosa. Se cambia il nome cambia la cosa. Succede di proposito, quando l’attacco armato a un paese viene definito «esportazione di democrazia». Succede quando si finge di distrarsi e si consente di passare da PalaEvangelisti a PalaPincopallino. Perché la struttura che ora porta il nome di un eroe, porterà il nome di un’azienda. Dove aleggiava la memoria, da domani aleggerà lo sponsor, con buona pace del «nome giuridico-istituzionale» evocato dallo spericolato comunicato della giunta. Per capire il senso della cosa, ci si può avvalere di una pratica cara alle persone attente alle questioni di genere: definire sindaca un donna eletta al vertice della massima assise cittadina non è una questione formale, come alcuni spiritosi che ironizzano su queste cose vorrebbero far credere. Definire sindaca una donna è comunicare a una bambina che c’è il nome per la carica per la quale lei un giorno decidesse di concorrere. È dire alla bambina che sì, lei potrà essere sindaca o architetta, avvocata, chirurga. Ciò, nonostante nei secoli addietro quelle professioni sono state solo appannaggio dei maschi, che le hanno coniugate secondo il loro genere perché le consideravano cosa loro. Il nome dà il senso all’oggetto, altrimenti il nostro linguaggio di umani si sarebbe limitato alla sola parola cosa. Quindi: PalaEvangelisti descrive una cosa, PalaPincopallino ne descrive un’altra. Con buona pace dei comunicati spericolati delle giunte.
Ma non siamo ancora arrivati al nodo principale. Perché abbiamo solo accennato che da PalaEvangelisti a Palapincopallino ci si arriverà per soldi. E invece è qui che sta il punto. I comuni, come quasi tutte le persone, sono sempre più strangolati da diktat provenienti da entità e dipinti come ineluttabili che non impongono solo austerità insensata e tagli e impoverimento dei servizi, ma anche veri e propri cambiamenti di senso. Secondo i dati del ministero dell’Interno, i trasferimenti erariali dello Stato al comune di Perugia sono diminuiti nell’arco di dieci anni dagli oltre 38 milioni del 2007, ai 31 del 2017. E non è successo ovviamente solo per Perugia, è una tendenza generale. Si tratta di un’erosione lenta e inesorabile che impone sforbiciate, e suggerisce la ricerca di sponsorizzazioni. Che possono portare a cambi di nome, cioè di natura delle cose, cioè di immaginario, cioè di senso, cioè di essenza di quello che siamo. Come quando si passa da PalaEvangelisti a Palapincopallino. Che lo si faccia e lo si consenta pensando che non ci sia niente di male, non attenua il male che c’è. Testimonia solo dell’incapacità di vederlo.
Il palazzetto si chiama oggi PalaEvangelisti. Evangelisti è il cognome di Giuseppe: ciclista, pittore, garibaldino e antifascista. Ci sono state diverse amenità intorno alla vicenda. Un assessore della suddetta giunta ha cannato la data di morte di Evangelisti collocandola alla fine dell’ottocento, deducendone così che Giuseppe non avrebbe mai potuto essere stato antifascista «salvo che fosse veggente», ha ironizzato. Giuseppe invece è morto a Nizza nel 1935, dopo che nel 1926 il regime fascista l’aveva mandato al confino. La cosa grave non è che il membro di giunta non sapesse nulla di Evangelisti, ma che non abbia sentito il bisogno di documentarsi prima di scriverci su. Ma non è questo il punto. Ci sono stati Vanni Capoccia e la cittadina Società operaia di Mutuo soccorso a ricordare a smemorati e spiritosi chi fu Giuseppe Evangelisti. E Leonardo Malà ha copiato-incollato sul suo profilo facebook il ritratto di “Peppino” tratto da un libro che lui, Malà, ha pubblicato nel 2008 insieme ad Alfio Branda, “Stelle in corsa”. Paradossalmente quindi, la topica dell’assessore è stata produttiva, consentendo alla città di riscoprire un suo eroe. Certo, sarebbe meglio che un membro di giunta fosse un pelino più accorto. Ma tant’è, non si può avere tutto dalla vita.
Sulla polemica si è registrato anche un comunicato della giunta, che con una discreta dose di spericolatezza ha argomentato che in seguito alla concessione del diritto di rinominare il PalaEvangelisti all’azienda aggiudicatrice dell’asta, «non verrà meno il nome giuridico-istituzionale del palazzetto dello sport che è e resta intitolato a Giuseppe Evangelisti». Cioè: la struttura si chiamerà PalaPincopallino. PalaPincopallino verrà scritto a caratteri cubitali su tutti i lati della struttura. PalaPincopallino la struttura verrà chiamata in occasione di tutte le dirette tv delle partite della squadra di volley campione d’Italia e di tutte le manifestazioni che lì verranno ospitate. Però, sotto sotto, continuerà ad essere intitolata a Giuseppe Evangelisti. Geniale. Ma non è neanche questo il punto.
Il punto è che questa cosa è stata fatta per soldi. Nel sopra citato comunicato spericolato la giunta tenta di schermarsi dietro al fatto che «si tratta di un’operazione largamente diffusa in tutte le principali città italiane che ospitano palazzetti dello sport di significative dimensioni». Al di là del fatto che la giustificazione lascia trapelare un qualche tipo di imbarazzo, come se qualcuno, all’interno della giunta, avesse subodorato che passare da PalaEvangelisti a PalaPincopallino non è una di quelle operazioni di cui andare orgogliosi. Al di là di questo, appunto, c’è un particolare che nello sgangheramento dei tempi passa per fisiologico, ma è invece patologico. È che al nome corrisponde la cosa. Se cambia il nome cambia la cosa. Succede di proposito, quando l’attacco armato a un paese viene definito «esportazione di democrazia». Succede quando si finge di distrarsi e si consente di passare da PalaEvangelisti a PalaPincopallino. Perché la struttura che ora porta il nome di un eroe, porterà il nome di un’azienda. Dove aleggiava la memoria, da domani aleggerà lo sponsor, con buona pace del «nome giuridico-istituzionale» evocato dallo spericolato comunicato della giunta. Per capire il senso della cosa, ci si può avvalere di una pratica cara alle persone attente alle questioni di genere: definire sindaca un donna eletta al vertice della massima assise cittadina non è una questione formale, come alcuni spiritosi che ironizzano su queste cose vorrebbero far credere. Definire sindaca una donna è comunicare a una bambina che c’è il nome per la carica per la quale lei un giorno decidesse di concorrere. È dire alla bambina che sì, lei potrà essere sindaca o architetta, avvocata, chirurga. Ciò, nonostante nei secoli addietro quelle professioni sono state solo appannaggio dei maschi, che le hanno coniugate secondo il loro genere perché le consideravano cosa loro. Il nome dà il senso all’oggetto, altrimenti il nostro linguaggio di umani si sarebbe limitato alla sola parola cosa. Quindi: PalaEvangelisti descrive una cosa, PalaPincopallino ne descrive un’altra. Con buona pace dei comunicati spericolati delle giunte.
Ma non siamo ancora arrivati al nodo principale. Perché abbiamo solo accennato che da PalaEvangelisti a Palapincopallino ci si arriverà per soldi. E invece è qui che sta il punto. I comuni, come quasi tutte le persone, sono sempre più strangolati da diktat provenienti da entità e dipinti come ineluttabili che non impongono solo austerità insensata e tagli e impoverimento dei servizi, ma anche veri e propri cambiamenti di senso. Secondo i dati del ministero dell’Interno, i trasferimenti erariali dello Stato al comune di Perugia sono diminuiti nell’arco di dieci anni dagli oltre 38 milioni del 2007, ai 31 del 2017. E non è successo ovviamente solo per Perugia, è una tendenza generale. Si tratta di un’erosione lenta e inesorabile che impone sforbiciate, e suggerisce la ricerca di sponsorizzazioni. Che possono portare a cambi di nome, cioè di natura delle cose, cioè di immaginario, cioè di senso, cioè di essenza di quello che siamo. Come quando si passa da PalaEvangelisti a Palapincopallino. Che lo si faccia e lo si consenta pensando che non ci sia niente di male, non attenua il male che c’è. Testimonia solo dell’incapacità di vederlo.
martedì 27 febbraio 2018
Post vano
Oggi nella città in cui vivo verrà inaugurata una sede di Forza Nuova. È stato organizzato per le 19 un presidio di protesta a Sant’Ercolano (lo dico per i perugini, invitandoli) al quale cercherò di essere in ogni modo. Ciò anche se penso che il neofascismo insorgente (quello di Casapound e Forza Nuova) sia niente più che una messa in scena muscolare e dopata, e sia assai meno pericoloso del postfascismo istituzionale di cui ci sono in giro esempi macroscopici, e della cui azione di sfondamento i neofascisti si stanno nutrendo per ripresentarsi oggi in pubblico. Ciò anche se penso che questi neofascisti stiano anzi diventando un’arma di distrazione. Ciò, anche se nell’appello gli organizzatori fanno riferimento alla messa fuorilegge delle organizzazioni neofasciste.
Sono allergico ai proibizionismi, e non è solo una questione di principio. Credo che se un umore, un’idea pericolosa vengono messi in circolazione, questi vanno combattuti destrutturandoli, denudandoli dinanzi all’opinione pubblica, non invocandone la messa fuorilegge, benché sancita dalla Costituzione. Il che non significa parlarci con i fascisti: con i fascisti in quanto fascisti non si parla. Si parla con le persone. E si dovrebbe allenare il cervello a decostruire, smascherare, smontare le narrazioni tossiche dalla radice; non a ribadire slogan da contrapporre ad altri slogan. Quelle degli slogan sono scorciatoie inefficaci, tanto per combattere il neofascismo quanto il ben più pericoloso postfascismo, che alligna in luoghi della politica apparentemente insospettabili.
Detto questo, mi piacerebbe che il presidio paralizzasse pacificamente quella parte di città. Sì, che la paralizzasse per un po’ di tempo per la quantità di corpi che sceglieranno di mettersi simbolicamente a difesa dell’antifascismo, che è lo spazio di democrazia che ci siamo dati nel 1945. Mi piacerebbe che i fascisti di Forza Nuova si intimorissero davanti a una risposta che dovrebbe essere massiccia, che si sentissero soli. Che nei loro confronti non venga proferito insulto e che si canti solo “Bella ciao”, che è di tutti, tranne che la loro. Perché sono allergico alle proibizioni, ma non a lottare con i mezzi che ritengo più efficaci. Farli sentire rifiutati, a questi fascisti, potrebbe tornare utile anche per combattere più efficacemente i postfascisti, assai più pericolosi, perché oggi su alcune questioni hanno preso l’egemonia. Denudarne l’impresentabilità servirebbe, potrebbe servire, a denudare l’impresentabilità pure dei postfascisti istituzionali.
Per questo sarebbe bello che a difesa dell’antifascismo, che è lo spazio di democrazia che abbiamo aperto nel 1945, oggi venissero tutti: dai liberali ai comunisti, dai “sinceri democratici” agli anarchici. In queste occasioni non bisogna essere d’accordo su tutto. Basta ritrovarsi su un paio di cose, che non sono solo di sinistra: la violenza come metodo è fascismo; il razzismo (più o meno ammantato di democrazia) è fascismo. Poi si può tornare a discutere su tutto, nello spazio antifascista che ci siamo dati. E si può anche accettare che quattro sfigati (pericolosi, però) aprano la loro sede nel ribrezzo generale per le idee che esprimono.
Temo che resterà vano, l’invito. Perché c’è una parte politica non fascista che giudica le cose che ho appena scritto “estremiste”, perché sotto sotto i fascisti non la spaventano come la spaventano gli antirazzisti. E allora non ci capiamo proprio, e dobbiamo rifare un sacco di strada a ritroso, fino al 1945. Ma spero lo stesso, nonostante questo, che quella parte di Perugia, tra poco, si paralizzi per i corpi che l’affolleranno.
Sono allergico ai proibizionismi, e non è solo una questione di principio. Credo che se un umore, un’idea pericolosa vengono messi in circolazione, questi vanno combattuti destrutturandoli, denudandoli dinanzi all’opinione pubblica, non invocandone la messa fuorilegge, benché sancita dalla Costituzione. Il che non significa parlarci con i fascisti: con i fascisti in quanto fascisti non si parla. Si parla con le persone. E si dovrebbe allenare il cervello a decostruire, smascherare, smontare le narrazioni tossiche dalla radice; non a ribadire slogan da contrapporre ad altri slogan. Quelle degli slogan sono scorciatoie inefficaci, tanto per combattere il neofascismo quanto il ben più pericoloso postfascismo, che alligna in luoghi della politica apparentemente insospettabili.
Detto questo, mi piacerebbe che il presidio paralizzasse pacificamente quella parte di città. Sì, che la paralizzasse per un po’ di tempo per la quantità di corpi che sceglieranno di mettersi simbolicamente a difesa dell’antifascismo, che è lo spazio di democrazia che ci siamo dati nel 1945. Mi piacerebbe che i fascisti di Forza Nuova si intimorissero davanti a una risposta che dovrebbe essere massiccia, che si sentissero soli. Che nei loro confronti non venga proferito insulto e che si canti solo “Bella ciao”, che è di tutti, tranne che la loro. Perché sono allergico alle proibizioni, ma non a lottare con i mezzi che ritengo più efficaci. Farli sentire rifiutati, a questi fascisti, potrebbe tornare utile anche per combattere più efficacemente i postfascisti, assai più pericolosi, perché oggi su alcune questioni hanno preso l’egemonia. Denudarne l’impresentabilità servirebbe, potrebbe servire, a denudare l’impresentabilità pure dei postfascisti istituzionali.
Per questo sarebbe bello che a difesa dell’antifascismo, che è lo spazio di democrazia che abbiamo aperto nel 1945, oggi venissero tutti: dai liberali ai comunisti, dai “sinceri democratici” agli anarchici. In queste occasioni non bisogna essere d’accordo su tutto. Basta ritrovarsi su un paio di cose, che non sono solo di sinistra: la violenza come metodo è fascismo; il razzismo (più o meno ammantato di democrazia) è fascismo. Poi si può tornare a discutere su tutto, nello spazio antifascista che ci siamo dati. E si può anche accettare che quattro sfigati (pericolosi, però) aprano la loro sede nel ribrezzo generale per le idee che esprimono.
Temo che resterà vano, l’invito. Perché c’è una parte politica non fascista che giudica le cose che ho appena scritto “estremiste”, perché sotto sotto i fascisti non la spaventano come la spaventano gli antirazzisti. E allora non ci capiamo proprio, e dobbiamo rifare un sacco di strada a ritroso, fino al 1945. Ma spero lo stesso, nonostante questo, che quella parte di Perugia, tra poco, si paralizzi per i corpi che l’affolleranno.
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