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sabato 12 novembre 2022

La bozza di accordo Italia-Francia

Una possibile soluzione alla crisi diplomatica tra Francia e Italia è stata messa a punto da Giorgia Meloni e Marine Le Pen.

A dire il vero la leader della destra francese aveva chiamato Palazzo Chigi per capire come si potessero vincere le elezioni con parole d’ordine bizzarre come «Difendiamo i confini dall’invasione» in un paese che non vede truppe straniere sul proprio territorio da più di settant’anni, o come si riesca a far credere che la misura di innalzare il limite dei pagamenti in contanti a 5 mila euro sia una misura per favorire i poveri che non possono permettersi di avere il bancomat. L’altra curiosità di Le Pen era sapere come si possano illudere milioni di elettori che un governo fondi tutto sul merito avendo al proprio interno Daniela Santanchè e Gennaro Sangiuliano. «Io sono tre volte che provo a diventare capo dello Stato, sparo cazzate anche più grosse, eppure non ci sono ancora riuscita», si era sfogata con i suoi collaboratori Le Pen in preda a una crisi di nervi.

mercoledì 4 maggio 2022

In ordine sparso, sette cose che ho imparato in due mesi di guerra

1) Siccome piacciono, si citano le parole di papa Francesco contro la guerra, in alcuni casi le si trasforma in meme e molto spesso ci si fa prendere la mano e se ne conclude che Bergoglio è una «autorità morale». Si tratta dello stesso papa che rappresenta la chiesa cattolica contro l’eutanasia e l’interruzione volontaria della gravidanza da parte delle donne. Se lo si eleva ad «autorità morale», è per sempre. Per molti che sono contro la guerra ma a favore di eutanasia e interruzione volontaria della gravidanza, dunque, sarebbe più opportuno dire: sono d’accordo con le parole del papa contro la guerra. Invece no. Enfaticamente si elegge Bergoglio a leader morale tout court

giovedì 11 febbraio 2021

L'inerte e la vita

Vale la pena sottolinearla, questa cosa che sta succedendo in Umbria. La regione ha chiesto aiuto al governo nazionale per reperire medici e infermieri senza i quali la sanità si è inceppata e l’ospedale da campo di Perugia, inaugurato diverse settimane fa, è rimasto vuoto; cosa che con i contagi che galoppano e la saturazione delle terapie intensive a livello di guardia, assume i contorni della auto-beffa.

sabato 9 gennaio 2021

L’abisso della stampa umbra, occupazione dimezzata in dieci anni

Da più di un decennio è in atto una crisi industriale strisciante e silenziosa che sta producendo in Umbria effetti tanto dannosi quanto poco avvertiti. Nel 2009, sul nascere di quella che sarebbe stata la grande ondata della stampa on line, il Comitato regionale per le comunicazioni dell’Umbria (Corecom) si prese la briga di censire i mezzi di comunicazione presenti in regione in una ricerca dal titolo allora evocativo:“Umbria.it”. Da quelle pagine emerge che all’epoca c’erano quattro quotidiani che si dedicavano alla cronaca locale; vi lavoravano complessivamente cento giornalisti e giornaliste con regolare contratto. Dieci anni dopo, nel 2019, una di quelle quattro testate non esisteva più, le altre avevano via via ridotto (e continuano a farlo) la forza lavoro, cosicché il numero di persone impiegate si è drasticamente ridotto arrivando a 49 unità. Una contrazione di metà della forza lavoro che è sintomo di una crisi che va molto oltre i numeri, sia per quantità che per qualità.

mercoledì 6 gennaio 2021

L'Umbria e la mancanza di capacità di futuro

Quanto sia preoccupante lo stato dell’Umbria e quanto occorra una inversione di rotta rispetto a ricette scadenti e parole d’ordine vuote e consunte, ce lo dice anche l’Onu. Le Nazioni Unite hanno approvato cinque anni fa un’agenda per lo sviluppo sostenibile che contiene una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2030. La definizione base dello sviluppo sostenibile, ridotta all’essenziale, è questa: lasciare il pianeta in condizioni tali da non compromettere il soddisfacimento dei bisogni alle generazioni future.

lunedì 14 dicembre 2020

Perugia, il paradosso della mobilità immobile

«In un periodo particolarmente difficile per l’economia a causa degli effetti dell’emergenza sanitaria da covid 19 questo provvedimento vuole rappresentare un contributo in favore dei commercianti, particolarmente colpiti dalle restrizioni conseguenti alla pandemia. L’obiettivo è di rendere la nostra acropoli maggiormente fruibile favorendo la presenza dei cittadini nel pieno rispetto di tutte le regole poste a tutela della salute collettiva». Sono le parole con le quali Luca Merli, assessore «alla viabilità», come lo definisce il sito istituzionale del Comune di Perugia, ha accompagnato la decisione di abolire la zona a traffico limitato fino al prossimo 31 dicembre.

giovedì 3 dicembre 2020

Un'eretica ante litteram


Per rispondermi al telefono Renata Stefanini Salvati interrompe la lettura mattutina dei quotidiani: «Ne leggo tre al giorno, Repubblica, Corriere della Sera e Messaggero». Nel corso della chiacchierata mi dirà anche i titoli dei libri che sta leggendo in questo periodo; vale la pena citarli perché aiutano a capire il cuore delle ragioni per cui, almeno dal mio punto di vista, si è acceso l’interesse per questa donna che ha fatto la partigiana prima, la dirigente del Pci ternano poi, e l’imprenditrice di successo in seguito. I libri sono “A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia”, di Ilaria Poerio; “Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi”, di Mirella Serri; e “Un popolo come gli altri”, un volume di Sergio Luzzatto sulla storia degli ebrei. 

lunedì 31 agosto 2020

Parliamo di deiezioni canine


Il gioco è piuttosto semplice, e di sicuro effetto. Ha diverse varianti ma il tema è più o meno lo stesso. Si può partire da una delle dichiarazioni strampalate di qualcuno di quelli “de destra”, tipo: «I migranti portano il covid». Oppure si può andare su una delle pagine di fan assatanati di quelli “de destra” e, sotto un post – per dire - contro la Azzolina corredato di fotografia pro-gogna, prendere commenti a caso: «Faccia da...», «Fatti stuprare da un branco di...» e via con amenità del genere. 

martedì 15 maggio 2018

Senza senso

Il M5S è un’organizzazione formidabile. Ne sono una prova le dichiarazioni fotocopia che nei diversi momenti vengono rilasciate dai diversi esponenti. Fotocopia proprio. Ora è il momento di questa, reiterata dai vari e dalle varie Grillo, Toninelli, Di Maio, Spadafora, Bonafede eccetera; suona così: «Per la prima volta nella storia c’è una trattativa sul governo al centro della quale ci sono gli interessi dei cittadini». In bocca a qualsiasi altro esponente politico apparirebbe come una delle tante dichiarazioni buttate là a favore di telecamera. Lo è. Ma i grillini sono “nuovi”, e la ripetono con una precisione che nemmeno il copia-incolla, tanto che ti viene pure la tentazione di crederci. Però c’è qualcosa che stona.

1) Non si ricorda esponente politico che abbia mai detto di star facendo trattative per curare i suoi affari personali, il suo destino politico, quello del suo partito o quello dei suoi cari. Tutti, sempre, impegnati nelle più strenue battaglie di potere, hanno dichiarato pubblicamente che lo stavano facendo nell’interesse dei cittadini. In questo gli esponenti del M5S sono identici ai politici che li hanno preceduti, ai loro contemporanei, e a chi verrà dopo di loro.

2) Credere a quella affermazione seriale è un vero e proprio atto di fede; lo stesso che fa chi crede alla verginità della Madonna, alla reincarnazione o alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Lo è perché, semplicemente, nessuno tranne i partecipanti sa cosa si stiano dicendo le delegazioni di M5S e Lega in questa serie infinita di incontri che dura da giorni. Non ci sono verbali né dichiarazioni che scendano nel merito di quanto discusso. Nessuno riferisce di cosa si è detto, come, e quali siano le posizioni; quello che si sa, lo si sa grazie alle ricostruzioni dei vituperati giornalisti. Sono state abolite le dirette streaming. Bisogna fidarsi del dichiarante di turno, che oltre a dirci che si sta occupando «degli interessi dei cittadini», nel caso sia particolarmente in vena ti dice pure che «sta scrivendo la storia», che non è propriamente entrare nel merito.

3) «Fare gli interessi dei cittadini» è una frase senza senso. È come dire «sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno». I «cittadini» sono un’entità indefinita. Ci sono cittadini ricchi e poveri, che evadono le tasse e che le pagano fino all’ultimo centesimo; ci sono giovani e pensionati; e tra i giovani, c’è chi è figlio di papà e chi è stato cresciuto a stento; e tra i pensionati c’è chi va avanti con la minima e chi con quella d’oro; ci sono uomini e donne (e per le seconde, in genere, è tutto un po’ più difficile); c’è chi ha alle sue dipendenze gente che lavora per lui e chi per campare deve prestare il proprio lavoro ad altri che glielo pagano come dicono loro, se glielo pagano. Fare gli interessi degli uni può voler dire penalizzare gli altri. Insomma, dire che si fanno «gli interessi dei cittadini» può suonare fico, è di sicuro effetto. Reiterare la frase la rende quasi vera. Ma ciò non toglie che nella sostanza sia una cosa vecchia e che non dice niente, proprio niente. Anzi, è senza senso.

sabato 3 febbraio 2018

Mettete via quella bandiera

A chi non fa della bandiera un feticcio né della patria un'arma contundente, questa cosa potrà pure apparire sfocata. E infatti quando sentiamo slogan puerili come "l'Italia agli italiani", "prima gli italiani", "padroni in casa nostra", ci passa in testa di tutto: fare del sarcasmo, denunciare il razzismo di chi pronuncia frasi del genere; segnalare la meschina parzialità di parole d'ordine che dividono il qua e il là in maniera sballata, facendo intendere che uomini e donne si distinguano "per natura" e non per condizione, che è il modo più efficace per perpetuare lo stato di chi sta sopra e chi sta sotto.

Tutto giusto, per carità. Alla vista del tipo arrestato per aver tentato una carneficina a Macerata, ammanettato dopo essersi intabarrato nel tricolore, bisognerebbe però avere un sussulto, ed evitare di dare per scontata una questione che, visti i tempi, va scandita per farsi capire bene: il riempirsi la bocca di patriottismo e sventolare la bandiera non significa affatto che voi - fascisti o fascistoidi - amiate il posto in cui vivete più di noi, che pensiamo che le frontiere siano muri che dividono ciò che dovrebbe essere unito. Anzi. Dovreste smettere di vilipenderle quella bandiera e quella parola, "Italia", che se fosse stato per molti di voi sarebbe diventata un satellite della Germania nazista. Dovreste smettere di approfittarvi della nostra pazienza di cooperanti, operatori, intellettuali, insegnanti, contribuenti che ogni giorno cerchiamo nel nostro piccolo di migliorarlo davvero, il nostro paese, col nostro lavoro quotidiano, mentre voi ve ne andate in giro a organizzare ronde, fare raid e sparare cazzate che partono da assunti sbagliati per arrivare a obiettivi sballati. Sventolare il tricolore non vi rende migliori dei somari che siete: ignorate praticamente tutto ciò di cui parlate, però lo fate dicendo di "difendere gli italiani", alcuni dei quali ci credono pure.

Smettete di infangarla, la bandiera tricolore, sventolate la vostra, se riuscite a non vergognarvene. Fatela finita di dire che difendete gli italiani, poiché molti italiani, come noi, vi disprezzano e si sentono offesi dall'essere vostri connazionali.

Non avete diritto di appropriarvi di cose che non sono vostre solo perché noi siamo distratti da questioni più importanti di voi. Mettetela via quella bandiera, non è roba vostra.

lunedì 18 settembre 2017

Devoti alla vittoria


Ciao, ragazzo che hai devoluto un po’ del tuo tempo per andare in giro ad attaccare questi manifesti. Ho fatto questa foto, te lo confesso, con l’intenzione di prenderti per il culo. Volevo dirti che se sei «devoto alla vittoria», come ti dichiari, allora ti stai sbagliando di brutto, a meno che tu intenda la vittoria come un ente sovranaturale, una sorta di dio la cui esistenza non è dimostrabile e che si percepisce solo con la fede. Se invece intendi la vittoria quella che si tocca con mano, quella quando esulti perché la tua squadra prende tre punti, quella quando riesci a debellare una malattia che ti stava minando la salute; beh, permettimi, stai proprio andando contromano. Perché il fascismo che ti attrae, in fatto di vittorie non è proprio ‘sto modello da seguire. Anche a voler considerare "vittorie" la presa del potere in Italia e la costituzione di un impero coloniale in Africa orientale, al netto delle violenze e dei massacri con cui tutto ciò è stato ottenuto, le sconfitte che sono seguite a quelle brevi stagioni sono state così definitive che ne abbiamo pagato per lungo tempo le conseguenze tutti, non solo i tuoi nonni e zii che marciavano col fez. Questo, ti volevo dire.

Poi ho pensato che tu ti consideri un rivoluzionario, se non sbaglio. E allora la cosa ha cominciato a quadrarmi ancora meno. Ma come, vuoi fare la rivoluzione e ti definisci «devoto alla vittoria»? Ma allora hai già vinto, la tua rivoluzione si è già compiuta! Sei già dentro un sistema in cui tutto è congegnato per vincere, e dove perdere è la peggiore delle iatture che possa capitare. Tutto qui, ragazzo, è pensato per fare gol, a prescindere; niente, o quasi, si fa perché lo si ritenga davvero necessario, giusto, opportuno. Tutte le azioni che non hanno almeno sulla carta una possibilità di riuscire sono considerate da sfigati. Tutto è volto a conquistare punti qui e ora, anche con un gol di mano, anche con un fallaccio all’avversario mentre l’arbitro non guarda. Sei nel regno in cui conta il quanto, non il come. Pensa, stai nel regno dei «devoti alla vittoria» e non te ne sei neanche accorto!

Ho pensato anche che la rivoluzione che tu, forse, vorresti è quella che impone il comando di uno e l’obbedienza dei restanti. Quella in cui il popolo che costituisce la nazione ha diritti superiori a chi da quel popolo e quella nazione è escluso. Ma hai anche questo, ragazzo! Di cosa ti lamenti? Fai uno sforzo per capire. Hai presente quando senti dire che «si attende la risposta dei mercati»? Ecco, significa che i governanti (che non contano niente, o quasi, nonostante quanto si possa credere a sentire giornali e tv) aspettano di vedere se i tassi di interesse sul debito pubblico (cioè sui soldi che lo stato prende in prestito dai mercati) si alzano o si abbassano dopo l’annuncio di una determinata legge o manovra finanziaria. Se “i mercati” giudicano la legge ok, acquistano i titoli di quello stato e fanno scendere i tassi di interesse; se per i mercati la legge non è ok, vendono i titoli di quello stato, e quello stato è costretto ad alzare il tasso di interesse, impoverendosi, per rendere più appetibili quei titoli e incassare soldi dai “mercati”. Ma “mercati”, nonostante sia un sostantivo plurale che lascia intendere "tanti" significa "pochi", "pochissimi" investitori, con tanti di quei soldi che tu non immagini, tanti di quei soldi da far oscillare, con un acquisto o una vendita, i tassi di interesse sui titoli di stato. È così che sono nati il jobs act, la cancellazione dell’articolo 18, la svendita inesorabile del patrimonio pubblico, la privatizzazione dell’acqua e chissà fra quanto magari anche dell’aria. Piacevano ai mercati. Eccolo realizzato in terra il regno in cui pochissimi eletti decidono e la stragrande maggioranza delle persone obbediscono. Come? Non ti basta? Tu vuoi proprio che uno e solo uno comandi? Ma guarda che la logica a cui rispondono i “mercati” è una e una soltanto: che i soldi si moltiplichino e creino altri soldi, a prescindere da qualsiasi vincolo. Ce l’hai, ragazzo, un comandante. Uno solo.

E anche popolo e nazione sono salvaguardati, ragazzo. Perché siccome la logica del mercato crea diversi squilibri e problemi per la moltitudine costretta ad obbedire, al popolo viene detto che non ce n’è per tutti, che occorre fare sacrifici. E allora il popolo, o meglio, la sua caricatura, punta a volersi assottigliare, getta quelle che considera zavorre a mare. Punta a fare in modo cioè che, essendo immutabili le dimensioni della torta, siano in meno quelli che se la devono dividere. Allora chi non fa parte del popolo e della nazione, non viene fatto votare, non gli si offre neanche il minimo per campare, viene escluso; si alzano muri per non farlo entrare. Così si offre una valvola di sfogo ai frustrati che stanno dentro, li si fa sentire più forti degli sfigati che rimangono fuori, e li si convince all’obbedienza, i frustrati.

Ci sei, quindi, ragazzo. Se sei devoto alla vittoria, se vuoi l’idea al comando e il popolo obbediente, ci sei dentro. La tua rivoluzione l’hanno già fatta per te.

Dovresti volere la rivoluzione se fossi non devoto alla vittoria ma al dubbio; se il come raggiungere un obiettivo fosse per te più importante del quanto riesci a conquistare; se considerassi gli uomini e le donne uguali a prescindere da dove nascono; se rifiutassi la logica dell’idea al comando e se rifiutassi sia il comando che l’obbedienza per abbracciare un concetto che è perdente, da sfigati: cooperare tra uguali. Per questo dovresti volere la rivoluzione.

Se sei devoto alla vittoria, no, ragazzo. Stai bene qui.

giovedì 14 settembre 2017

Colpa vostra

Stavolta è stata Noemi, giovanissima stroncata da un giovanissimo. E allora vi esercitate su quant'è difficile l'adolescenza, quanto pericolosa è la droga, quanto rincoglionisce la televisione (e però ne avete una per stanza). Ma ieri sarà stata, che ne so?, Laura, commessa quarantenne; l'altroieri Roberta, disoccupata di venticinque anni; l'altro giorno Monica, cinquantenne bancaria divorziata; e poi ci saranno state Tiziana, Simona, Kathleen, Shamira, Michela e tutte le violentate che non si sanno, non si conoscono perché non sporgono denuncia. Ma voi vi esercitate a dare spiegazioni, concentrandovi di volta in volta sul particolare che vi assolve, sottraendovi con agile maestria alla carezza del dubbio che possa essere anche colpa vostra, che non avete capito che c'è un problema tutto maschile (e in parte femminile, quando le donne assecondano) nella violenza tra generi.
Colpa vostra, che se una sceglie di vivere da sola è perché chissà quanto si diverte a letto e chissà con quanti;
colpa vostra, che se una cambia partner due volte in un anno vi sentite autorizzati a provarci anche pesantemente perché date per scontato che ve la dia;
colpa vostra, che se una la vedete due giorni di fila con due uomini diversi allora ha scopato con entrambi anche se magari uno era il fratello e l'altro un amico gay;
colpa vostra, che se una la vedete per due volte di fila con la stessa donna allora sono due lesbiche;
colpa vostra, perché non accettate che una possa fare il cazzo che le pare con chi vuole senza essere costretta a doversi giustificare;
colpa vostra, perché esistono LE rovinafamiglie, mai I rovinafamiglie;
colpa vostra, che educate le figlie ad accudire e i figli a essere accuditi;
colpa vostra, genitori che se a scuola propongono per i vostri figli un percorso di educazione di genere insorgete “perché a scuola si va per imparare le materie che stanno nel programma e non queste cazzate!” (e poi hai visto mai che con una cosa del genere vostro figlio vi diventa frocio?);
colpa vostra, professori che ve ne fottete di tutto quello che sta al di fuori del programma;
colpa vostra, direttori di giornale che arruolate la redattrice che giudicate più avvenente per un servizio importante, invitandola a sfoderare tutto il suo fascino per carpire la notizia al politico che sapete essere sensibile a certe cose;
colpa vostra, dirigenti d'azienda che invitate con una scusa qualsiasi la giovane neoassunta nel vostro ufficio per palparle il culo;
colpa vostra, femminelle che sfoderate la coscia e l'ammiccamento migliore col vostro capo per accattivarvelo;
colpa vostra, che augurate alla Boldrini di essere “stuprata da quattro negri” e quando succede che quattro neri violentano qualcuno allora vi indignate e date la colpa alla Boldrini “che li ha fatti entrare”;
colpa vostra, che le donne esistono solo se sono le vostre;
colpa vostra, che sono tutte puttane e proprio ieri sera avete pagato una disgraziata per scopare;
colpa vostra, che è sempre colpa degli altri, dei politici che eleggete, dei programmi televisivi che guardate;
colpa vostra, che vi sottraete alla carezza del dubbio e quando uno vi prende a schiaffi, come adesso, vi scandalizzate e gli puntate il dito contro: “Esagerato!”.

venerdì 8 settembre 2017

Il peggismo

Per converso, a rigor di logica, quelli che utilizzano l'aggettivo "buonista" come insulto, dovrebbero prediligere il cattivismo. E sono gli stessi che esecrano il "politicamente corretto", ed esaltano le riconquistate libertà di pensiero e di parola conculcate in decenni di oscurantismo "correttista", dando sfogo a opinioni ed espressioni di cui fino a qualche lustro fa ci si vergognava e si aveva pudore nell'esprimerle; perché erano socialmente deprecate (da una società buonista, politicamente correttista e, va da sé, a larga egemonia cattocomunista) e perché era quindi sconveniente manifestarle pubblicamente.
Alcuni esempi: i lavoratori rendono meglio se il loro posto non è a tempo indeterminato e se non hanno troppe garanzie, così la mancanza di sicurezza li porta a dare il meglio di sé; le donne è meglio se stanno a casa, ché se le assumi poi si mettono a fare figli e ti tocca pure pagargli la maternità; gli immigrati meglio costringerli a rimanere in Africa, magari pagando mercenari che li rinchiudano in campi di concentramento, piuttosto che accoglierli qui.
I rivalutatissimi e molto in voga cattivismo e politicamente scorretto, mescolati, danno dunque vita al "peggismo", cioè a una rivalutazione del brutto, anzi, all'ostentazione del brutto, dello scomodo, dello scadimento; all'esortazione ad abbandonare qualsiasi ricerca di miglioramenti con la giustificazione che questi sono impossibili da raggiungere, e che anzi anelare ad essi sia l'inizio della fine. Meglio accontentarsi, anzi puntare al peggio, che è garanzia di raggiungimento dell'obiettivo, perché se punti al meglio, è il sottinteso, rischi di perdere anche il poco che hai; non solo: di quel poco, conviene subito rinunciare a una parte per evitare ritorsioni da parte del destino (i peggisti ammantano tutto di fatalismo, non ci sono mai donne, uomini e interessi in gioco, ma forze che sono sovranaturali, e tutto non ha alternativa).
Si tratta di una tendenza che nonostante il livello altissimo di sadomasochismo sociale insito in essa, sta prendendo il sopravvento grazie alla raffinata regia e ai potentissimi mezzi dei pochi che guadagnano dalla sua propalazione, a una nutrita schiera di agit prop, e anche in virtù della apoditticità di cui è sapientemente ammantata ad arte, il che le conferisce un che di drammaticamente ineluttabile. È un capolavoro che porta all'accettazione da parte degli sfigati (una volta si sarebbe detto dei subalterni) della loro condizione come immutabile, naturalmente data; all'accettazione dell'invito a litigarsi le briciole con chi sta come e peggio di te. Una tendenza di cui si possono intravedere alcuni possibili sviluppi.
Meglio Gigi D'Alessio, molto più alla mano, che i Rolling Stones.
Meglio la pasta in bianco, più salutare, che la carbobara.
Più genuina Daniela Santanchè di quanto fosse Nilde Iotti, radical chic ante litteram.
Renzi capisce la società in cui vive meglio di quanto seppe fare Pietro Ingrao.
Fellini tutto sommato non è stato importante quanto Nando Cicero, che ha parlato agli italiani più veri e senza infingimenti intellettualoidi.
Pasolini? Che palle! Vuoi mettere Sgarbi?
Le ferie annoiano, meglio lavorare tutto l'anno.
"Il grande fratello" è più movimentato di Canzonissima.
Calcutta diverte, Nick Cave è deprimente.
Quando c'era lui, tutti filavano dritti (ah no, questa l'hanno sempre detta).

mercoledì 25 gennaio 2017

Scivolare giù

C'è un particolare, nella vicenda Trump, in cui si ritrova il senso di scivolamento verso il basso: come avviene, chi lo accompagna, cosa provoca.

Durante la campagna elettorale per le presidenziali degli Stati Uniti, un discreto numero di opinion makers (editorialisti, analisti, imprenditori, politici) che non erano formalmente schierati col candidato repubblicano (anche perché veniva dato per perdente), hanno invitato a derubricare i suoi messaggi politici su donne, migranti, ambiente come altrettante gaffe: non si può giudicare un candidato per una frase, seppure infelice, veniva detto.

Successivamente alla sua elezione, nel periodo in cui Trump non era ancora operativo, alle perplessità di chi vedeva dei pericoli nel suo programma che di lì a poco sarebbe stato attuato, si è risposto, da parte degli stessi opinion makers, di stare tranquilli e distinguere, perché il Trump presidente sarebbe stato ben diverso dal Trump candidato. Una presunta lezione di realpolitik di chi la sa lunga, con la quale, di passaggio, si dava del bugiardo a Trump e si conferiva alla menzogna acchiappa-consensi lo status di standard in politica.

In entrambe le fasi, si ignorava e si invitava a ignorare la sostanza dei messaggi del futuro presidente. Il corollario era che chi si allarmava per le cose dette da Trump era da considerare a scelta: a) estremista; b) incapace di decriptare il linguaggio politico; c) antidemocratico perché non accettava il responso di elezioni democratiche.

Oggi Trump è presidente e comincia ad attuare quel programma che nelle illustrazioni degli opinion makers avrebbe dovuto essere fuffa acchiappa-voti, e lo scivolamento verso il basso è in atto. È verso il basso perché Trump non apre orizzonti ma ci costruisce muri davanti, chiude l'umanità in compartimenti stagni, evoca il perenne ritorno indietro e in tutto quello che dice e fa c'è un senso di difesa che gioca sul disagio di larghe fasce di popolazione non per trasformarlo in riscatto, bensì per assecondare e alimentare il livore che è carburante prezioso per la sua corsa politica.

Trump ha vinto non perché gli opnion makers di casa nostra gli hanno tirato la volata, è chiaro. Però la vicenda delle sue “gaffe” ci dice che lo scivolamento sta nel passare da parole così imbarazzanti da sembrare boutade a fatti conseguenti con quelle parole. Lo scivolamento è accompagnato da ineffabili opinion makers che dietro il paravento della moderazione e dell'accettazione della democrazia, sono più presi a condannare chi protesta rispetto a chi dice cose e prende decisioni che puntano a portare quasi tutti indietro a vantaggio di pochissimi. Lo scivolamento è quando sei costretto a ripartire da zero, o quasi, per spiegare che i migranti sono persone, non residuati di umanità; le donne sono vessate in gran parte del mondo e l'ambiente conviene a tutti preservarlo da appetiti devastanti.

mercoledì 27 aprile 2016

Il giornalista, poverino (la dittatura del reale)

Giorni fa un quotidiano ha pubblicato un'intervista a una persona eletta in Parlamento che è stata definita così dall'intervistatore: “Modi gentili e pragmatici di chi ha lavorato una vita tra gli imprenditori”. L'episodio ha una valenza generale che prescinde da chi ha scritto, da chi ha pubblicato, e dall'inconsapevole persona intervistata. Perché come tutte le cose che danno assuefazione ma sono tossiche, quella frase appare innocente, o meglio - anzi, peggio - come una neutra presa d'atto. E invece è la dimostrazione di come il veleno entrato in circolo gradualmente ha pienamente dispiegato i suoi effetti sulla vittima. La vittima è innanzitutto il poverino che ha scritto una cosa del genere, e poi per il suo tramite tutti i lettori sprovvisti di barriere immunitarie in grado di identificare il veleno e isolarlo. Provo a spiegare perché.

1) I “modi gentili e pragmatici” vengono automaticamente estesi dalla singola persona a una intera categoria. Ne consegue che tutti coloro che “hanno lavorato una vita tra gli imprenditori”, e quindi tutti gli imprenditori, sono baciati dalla grazia di essere dotati di “modi gentili e pragmatici”. Ciò vale anche per chi, pragmaticamente e gentilmente, fa firmare alle donne che assume lettere di licenziamento in bianco allo scopo di utilizzarle in caso di maternità; per chi, pragmaticamente e gentilmente, smaltisce rifiuti pericolosi inquinando acque e terre e avvelenando popolazioni; per chi, pragmaticamente e gentilmente, evade massicciamente le tasse; per chi, pragmaticamente e gentilmente, sfrutta il lavoro nero.

2) Essendo propri di quella categoria, al limite dell'esclusività, si deduce che secondo l'estensore della definizione, “i modi gentili e pragmatici”, non possono essere propri delle persone che non fanno parte del gruppo cui lui li attribuisce. Se uno, per dire, scrive: “Ha il fiato e le gambe di un maratoneta”, vuole indicare una persona che ha proprio quelle doti, frutto di anni di allenamento; chi non corre maratone è escluso automaticamente dai detentori di quelle qualità. La conclusione più corretta sarebbe insomma che chi “ha lavorato una vita” tra i commercianti, gli infermieri, i geometri, gli spazzini, gli studenti, eccetera, o chi è addirittura disoccupato, non è tra quelli che, di diritto, si comportano “gentilmente e pragmaticamente”. Potrebbe rientrarci, forse, ma deve dimostrarlo, non facendo parte degli imprenditori.

3) La gentilezza non è stata mai fatta discendere dal fare impresa. In nessun saggio di economia si è mai letta una cosa del genere, mentre c'è chi ha autorevolmente parlato, riferendosi al comportamento di chi opera sulla scena economica, di “spiriti animali”. Sul pragmatismo c'è qualche margine in più. Anche se ci sono imprenditori che falliscono, alcuni anche più volte. Difficile descriverli con l'aggettivo “pragmatico”.

Perché, allora, l'estensore dell'intervista è incappato in una leggerezza del genere? Perché, poverino, lui è intimamente convinto che gli imprenditori siano tutti, o quasi, “gentili e pragmatici”. È stato per così tanto tempo esposto alle radiazioni tossiche del racconto che va per la maggiore - e non si è mai posto il problema di prendere le distanze, perché tutto sommato pensa che in quella posizione egli possa godere di qualche piccolo agio – da essere diventato egli stesso propagatore di tossicità.

Nel corso di quella vera e propria controrivoluzione iniziata più o meno una quarantina d'anni fa, è stato divelto qualsiasi appiglio che colleghi il nostro essere qui e ora alla possibilità di trasformarci in altro, noi e quello che abbiamo intorno. Siamo nella “dittatura del reale”, in cui, come in ogni dittatura, comandano in pochissimi e l'oggi tende a raccontarsi come perpetuo. Questa “dittatura del reale” si nutre di diversi ingredienti e dopo aver strangolato la politica come strumento di esercizio, seppur parziale e perfettibile, di potere del popolo, oggi ha i suoi altari da venerare. Uno di questi è la bontà dell'impresa. O meglio, della logica del fare profitto. A prescindere. Di qui discende, come un automatisno, la definizione rozza - e nella sua rozzezza semplificatoria ben adatta a essere utilizzata come metafora degli atteggiamenti in questi tempi amputati - “modi gentili e pragmatici di chi ha lavorato una vita tra gli imprenditori”. Si tratta di una violenza semplificatrice che si abbatte sulla realtà stessa, perché anche solo ricorrendo al semplice buon senso si capisce che non ci sono un solo tipo di impresa, un solo tipo di imprenditori. Ma da chi è impregnato di tossicità è difficile ottenere la lucidità del buon senso.

Una delle poche cose che si può tentare di fare è spendere parole per arginare la tossicità messa in circolo da questa “dittatura del reale”. Che ha mezzi formidabili per distorcere interpretazioni e obiettivi. E porta le persone a scatenarsi genericamente contro “la politica”, vista come madre di tutti i mali, e a non pretendere nulla dagli imprenditori, che rimangono tutti “gentili e pragmatici” anche quando migliaia di loro nomi in tutto il mondo vengono pubblicati in un elenco di maxi evasori fiscali. Anche quando la politica non esiste più, se la si intende come potere diffuso di trasformazione, essendo il potere concentratissimo in mano a pochi impegnati a diffondere il verbo del profitto dopo aver fagocitato politici, giornalisti e accademie e averli ridotti ad agit prop. Anche se qualcuno e qualcosa resistono.

venerdì 24 aprile 2015

La Liberazione è ribellione

Il rischio che il 25 Aprile si trasformi in un garrire fatuo di bandiere c'è praticamente da sempre. E se la Liberazione rimane intrappolata nella sua dimensione di rito - stanco e noioso come tutti i riti - è perché di essa non si riesce, non si è riusciti, a trasmetterne adeguatamente il valore costituente. Affinché le bandiere sventolino con un senso, occorre andare alla radice costituente della Liberazione.

Il valore costituente della Liberazione risiede nel suo essere stata un atto di ribellione a uno stato di cose inaccettabile. E come ha insegnato Camus, dietro ogni no c'è un sì: un passo verso la costruzione del mondo che si vorrebbe. Questa è la radice profonda della Liberazione, che in tal senso ha accompagnato la parte migliore della storia d'Italia della seconda metà del Novecento. Il voto delle donne, lo statuto dei lavoratori, i diritti civili sono stati altrettanti no per andare avanti. Sottesa alle battaglie per conquistarli c'era appunto la ribellione allo stato di cose precedenti e l'anelito a un mondo nuovo. Lo spirito della Liberazione.

Ma non è solo una questione di storia. Perché del valore costituente della Liberazione come atto di ribellione oggi si sente un bisogno vitale. Come può la nostra vicenda proseguire decentemente senza un atto di ribellione alla politica intesa nel migliore dei casi come esercizio di ragioneria?, come si può pensare di convivere decentemente se non ci si ribella all'idea di fortezza assediata a cui è stata ridotta l'Europa?, come si può pensare di costruire il futuro se non ci si ribella a un mercato che appalta e divora pezzi di vita (previdenza, sanità, scuola) rimettendo la vita al centro?, come, se non ci si ribella alla guerra tra poveri che viene imposta dalla narrazione dominante? E come si può pensare di ribellarsi con un minimo di efficacia se non ci si ribella all'atomismo imperante per tornare a ragionare collettivamente, perché solo collettivamente si possono affrontare questioni che riguardano il nostro vivere comune?

E se la Liberazione è ribellione, la Liberazione è sempre. Perché si rinnova di conquista in conquista, si modella sul tempo che scorre. Perché c'è sempre qualcosa a cui ribellarsi per guardare oltre l'ordine che ci viene raccontato come unico e immutabile. Cosa questa, che rende la Liberazione formidabilmente antitetica al fascismo, che al contrario è rigidità, staticità, ordine costituito. Cui ci si deve ribellare, sempre, per andare avanti.

mercoledì 16 aprile 2014

Il Running act di Renzi

Altro che riforme istituzionali e del mercato del lavoro, il vero cambiamento strutturale che Matteo Renzi intende mettere in campo è il Running Act. Il premier lo spiega così: «Siamo un paese a forma di stivale, è ora che ci mettiamo in moto per spiccare il salto decisivo che ci consenta di oltrepassare la penisola iberica e affacciarci direttamente sull'Atlantico. Solo così potremo andare a prendere la ripresa economica dove è già in atto: negli Stati Uniti». Uno dei suoi più stretti collaboratori gli ha fatto notare che con le scarpe si cammina sì, ma nell'oceano è necessario nuotare. Renzi ha replicato che non si è mai vista una scarpa affondare e che l'artigianato made in Italy è in grado di produrre manufatti all'altezza. «Al limite arriveremo dall'altra parte un po' malridotti, ma quello è un paese che offre infinite opportunità - ha detto il premier mentre addentava una fiorentina dopo averla fotografata e postata su Instagram -. Ti dicono niente i nomi di De Niro, Scorsese, Di Caprio?, tutta gente i cui nonni e bisnonni italiani sono andati là con le pezze al culo e che ora fanno fortuna. Noi invece arriveremo indossando una Tod's, e scusate se e poco». Per mettersi in cammino alla velocità che compete però, è necessario superare vecchie abitudini e incrostazioni ideologiche. Per questo è pronto un disegno di legge imperniato sui seguenti provvedimenti.

Abolizione delle preposizioni. Le preposizioni, non solo quelle articolate ma anche le semplici, sono considerate un inutile appesantimento dei discorsi che non consente di arrivare a rapide conclusioni. Renzi ha spiegato il concetto in Consiglio dei ministri senza parlare, con un semplice tweet riprodotto su una lavagna luminosa: «Che senso ha dire "la ruota della fortuna" quando posso dire "la ruota fortuna"? Mi si comprende lo stesso e risparmio cinque caratteri». A D'Alema, che ha scritto un lungo saggio sulla rivista della Fondazione Italianieuropei per perorare il salvataggio della particella "da", Renzi ha replicato così su Facebook: «Questo è conflitto d'interessi: ti chiamereno Lema, fattene una ragione, tutti siamo tenuti a rinunciare a qualcosa».

Eliminazione dello "stop" dal codice della strada. «Resta la precedenza, che è più che sufficiente e consente di rimanere in movimento», ha detto il premier. «E in prossimità dei passaggi a livello?», ha fatto notare Cuperlo. «Lì manderemo avanti te», ha risposto Renzi.

Cancellazione del contratto nazionale di lavoro. Mai più riunioni pletoriche e trattative tra parti sociali. Ci si recherà al lavoro solo se si riceverà nottetempo un apposito sms, altrimenti si rimarrà a casa. La sinistra del Pd proponeva almeno una telefonata. «Dobbiamo abbattere i costi delle imprese», ha replicato il premier.

Abolizione della filosofia dai programmi scolastici. «Tesi e antitesi, quando si sa già che si arriverà alla sintesi?, ma per piacere», ha detto Renzi in videochat con i tifosi della Fiorentina. Fassina, della sinistra del Pd, è andato su tutte le furie. In un'intervista all'Unità ha spiegato che «la filosofia non si può cancellare perché era l'unica materia nella quale prendevo la sufficienza al liceo». Pronta la replica del premier: «Stai sereno, ho saputo dal tuo prof di italiano che avevi cinque e mezzo e ora è disposto a portartelo a sei, così una sufficienza la spunti comunque».

Istituzione della Giornata per l'eiaculazione precoce. Non ha senso perdere tempo in preliminari e poi rimanere appiccicati per chissà quanto tempo durante l'atto sessuale. Chi assolve ai propri doveri coniugali più velocemente possibile va incentivato e portato a esempio poiché gli rimane tempo per fare altro, è la tesi. Inoltre, così si stimolano le donne a fare da sé ed emanciparsi ulteriormente. Dura la presa di posizione di Civati, che in segno di protesta ha posato senza veli in copertina su "Vanity Fair": «A me scopare piace». La replica di Renzi non si è fatta attendere ed è arrivata su "Chi": «Continua, tanto la politica non fa per te».

lunedì 9 dicembre 2013

Renzi e lo "sbrigativismo"

Coloro ai quali a sinistra non va giù la vittoria di Renzi e la platea di quelli che invece lo guardano con simpatia sono accomunati almeno da una caratteristica: trascurano (o hanno trascurato fino a ieri) un particolare non propriamente secondario. I primi si rifiutano di riconoscerlo. I secondi se ne entusiasmano, ma anche loro non ne colgono la portata. Il particolare è questo: Renzi rappresenta davvero l'Italia. Un paese logorato, malfidato, dove l'orizzonte si chiude sull'uscio di casa. Sfinito fino a diventare pigro e per questo pronto a saltare da Berlusconi a Grillo al sindaco di Firenze senza pensarci troppo sopra, nonostante la pubblicistica mainstrem li dipinga come alternativi tra loro (anche se si assomigliano in maniera clamorosa e non a caso nelle teste degli elettori sono in larga parte intercambiabili, e questo la dice lunga anche sulla pubblicistica mainstream). Un paese col fiato corto e quindi impreparato a percorsi lunghi e impegnativi come quelli che sarebbe necessario intraprendere in un momento come questo. Un paese che per capirlo meglio occorrerebbe coniare un neologismo e studiarlo: lo sbrigativismo. Che è una piaga sociale, non solo relegabile alla “politica politicante”.

Lo sbrigativismo è il rifiuto della complessità, e quindi della vita. Lo sbrigativismo è un'illusione ottica: appare risolutivo ed efficiente e invece costringe anche nel breve periodo a dispendiose cure per riparare i guasti procurati. Lo sbrigativismo è la negazione dell'innovazione, che per definizione necessita di laboratori e procede per aggiustamenti ed errori. Lo sbrigativista predilige la brevità e l'univocità del messaggio. Anche per questo la forma di comunicazione che continua a essere premiata è quella “uno a tanti”: è la preferita dai leader sbrigativisti, ovviamente. Ed è accettata dalla platea sfinita che li ammira. In questo senso andrebbe una volta per tutte ridimensionata la retorica sui social media: i social sono orizzontali quando ad utilizzarli sono i pari, tra loro. Nel momento in cui entra in scena un attore dominante la forma torna a essere quella canonica, cioè televisiva: il blog di Grillo, autentico organo di partito, è l'emblema di questa verticalità mascherata da agorà. Da questo discende almeno una conseguenza di una certa rilevanza ai fini del discorso che si intende fare qui: la forma di gestione della cosa pubblica che trionfa ai tempi dello sbrigativismo imperante è la delega. Ma si badi: la delega a uno e uno solo. Perché uno, da solo, decide prima e deresponsabilizza tutti gli altri (compreso chi ha attribuito la delega). Ciò significa tagliare fuori tutti coloro e tutto ciò che, problematizzando, rallenta i processi. Perché in tempi di sbrigativismo non occorre tanto fare bene quanto fare in fretta, mostrare i risultati.

Certo, non tutto è così. Non tutti in Italia sono ammiratori dello sbrigativismo. Ma la grande maggioranza lo è (e per capire come si sia arrivati a questa grande maggioranza si necessitano intere biblioteche). E, questo è l'altro punto, in tempi di dittatura della maggioranza per le minoranze i margini di manovra si riducono al minimo. D'altro canto, quella sbrigativista non potrebbe essere altro che una maggioranza “dittatoriale”. Non c'è tempo per affrontare questioni di sistema, né di star lì a spaccare il capello in quattro. Ci si deve muovere. Anche se, siccome lo sbrigativismo è il paradiso degli ossimori, dà solo l'illusione di muoversi, facendo rimanere perfettamente immobili. E qui veniamo a Renzi.

Essendo lo sbrigativismo innanzitutto rifiuto della complessità, Renzi ne rappresenta bene l'essenza parlando a un tutto indistinto: la gente. Difficilmente, se non per brevi spot, nei discorsi del neo segretario del Pd compaiono le categorie: i precari, le donne vittime di pregiudizi ottocenteschi, i giovani in gamba appesi al parere di baroni universitari, quelle e quelli con ottime idee ma zero soldi che banche medievali non finanzieranno mai, i migranti che faticano il triplo degli autoctoni. Nella narrazione renziana scompaiono i lavoratori. L'attore principale, indiscusso, se si parla di produzione, è l'imprenditore. Come se chi porta alla produzione il suo lavoro, il suo talento, fosse una sorta di escrescenza, di errore della storia. Lo si nota poco perché questo è uno dei grandi assi portanti dello sbrigativismo, metabolizzato ormai da decenni dalla maggioranza sbrigativista: nell'impresa i lavoratori non esistono, esiste solo l'imprenditore.

Nel discorso di Renzi, come in ogni sceneggiatura ben costruita, ci sono invece l'eroe (la gente, appunto) e l'antieroe, che oggi ha assunto le fattezze della categoria contro la quale è più facile prendersela, quelle nomenclature di politici che in quanto a impresentabilità temono la concorrenza di pochi, in effetti. Si sbandiera il cambiamento (cioè, sempre per rimanere in tema di sceneggiatura, l'obiettivo cui tende l'eroe e che viene negato dall'antieroe), perché la platea è sfinita dallo spettacolo andato avanti finora e quello reclama, il cambiamento. Ma in quel discorso manca del tutto l'aggressione ai nodi cruciali, sciogliendo i quali si potrebbe sperare di cambiare le cose. Il cambiamento è tanto di frequente evocato, quanto sbiaditi sono i contorni che dovrebbe avere (anche perché questo è funzionale al parlare alla gente, a un "tutto indistinto", evitando di assumersi l'impegno della scelta). Si potrebbe farla lunga, ma per capire la differenza di orizzonti è sufficiente citare Bill de Blasio, diventato sindaco di New York sbandierando la sua famiglia “diversa” e dicendo chiaro e tondo che avrebbe aumentato le tasse a chi i soldi ce li ha per finanziare scuole e ospedali fruibili da tutti. Cioè facendo le scelte di campo che il sindaco di Firenze invece si guarda bene dal fare, mascherandosi dietro slogan in grado di accontentare tutti e puntando sulla performance attoriale, per rendere al meglio la sceneggiatura attenta che gli è stata costruita intorno.

Detto ciò, cosa rimane da fare alle minoranze schiacciate dalla dittatura della maggioranza sbrigativista? Rimanere parte attiva. Lavorare ovunque, ove se ne abbia l'agibilità, per affermare principi alternativi (altra parola scomparsa). Per riportare al centro la complessità dei sistemi, che non significa non prendere decisioni, ma prenderle meglio; per rimettere al centro lo studio delle questioni, che non significa inefficienza e perdita di tempo ma il suo contrario. Dimostrare, esistendo, che la sostanza è più importante della performance attoriale. E che non esiste un tutto indistinto, la gente. Ma esistono i tanti, diversi, a volte confliggenti.

martedì 5 novembre 2013

Le risposte (im)possibili della Cancellieri

Nessuno ha fatto al ministro Cancellieri la seguente domanda: «Quanto da lei compiuto per Giulia Ligresti, che rischiava di morire in carcere, è encomiabile; ma quest'anno sono già deceduti 135 detenuti, come mai lei non ha fatto telefonate per nessuno di loro?». Eppure quella è la domanda più temuta dall'entourage della ministra e dalla Cancellieri stessa. Tanto che al ministero della Giustizia hanno lavorato per giorni alle risposte da dare nel caso venga posta. Questo l'elenco delle dieci giustificazioni possibili consegnato alla Cancellieri perché ne faccia buon uso.

1) Se avessi fatto una telefonata per ognuno dei detenuti morti in carcere quest'anno, per il rimborso della mia bolletta telefonica - cui ho diritto come tutti i ministri - sarebbe stato necessario ritoccare la legge di stabilità. Siamo in tempi di spending review e noi esponenti del governo siamo tenuti alla sobrietà e a limitare al minimo le chiamate in uscita. Il mio è un esempio di virtù repubblicana.

2) Molti dei detenuti morti in carcere erano stranieri. Vi pare sensato che un ministro si metta al telefono chiedendo trattamenti di riguardo per persone di cui non conosce bene neanche le generalità, rischiando di storpiarne il cognome ed esponendosi così al rischio di una figuraccia internazionale? Col mio atteggiamento ho tenuto alto il nome dell'Italia.

3) Alcuni dei deceduti erano tossicodipendenti. I servizi mi hanno informato che se avessi mostrato un interessamento a quei casi c'era il rischio concreto che Giovanardi arrivasse in parlamento con la corazza da crociato e l'alabarda che tiene custodite nella sua casa di Modena per presentare una mozione con cui sfidare a duello Letta, che non sa tirare di scherma. Sarebbe stata compromessa la stabilità del governo.

4) Avrei voluto interessarmi a quei poveri cristi che muoiono quotidianamente in carcere, ma non ho fatto in tempo essendo impegnata tutto il giorno al telefono con Mario Monti che mi chiama in continuazione per parlar male di Casini.

5) Giulia Ligresti rischiava di morire perché soffriva di anoressia, molti dei detenuti nelle carceri italiane invece, sono già abituati anche da liberi a non mangiare per giorni. I casi non sono assolutamente paragonabili.

6) L'estate scorsa in effetti ho provato spesso a chiamare diversi direttori di carceri italiane ma ho trovato sempre la linea occupata. Poi ho scoperto che era Berlusconi che si stava informando sulla possibilità di portare donne in cella nel caso venisse condannato. 

7) Interessandomi alla scarcerazione di Giulia Ligresti ho voluto tentare di dare il mio contributo al problema del sovraffollamento degli istituti di pena.

8) Avete ragione. Quello delle condizioni di vita nelle carceri italiane è un problema che non può essere sottovalutato. D'ora in poi farò il possibile affinché persone detenute e già in equilibrio precario non vengano sottoposte alla pena aggiuntiva, che so?, di trovarsi in cella con gente tipo Fabrizio Corona.

9) Lo ammetto, ho aiutato Giulia Ligresti per amicizia. Non ho retto quando i suoi familiari mi hanno confidato che erano pronti a tutto. Anche a fare un appello attraverso un'apparizione a uno dei programmi di Barbara D'Urso. Per questo credo di meritare almeno le attenuanti generiche.

10) Forse avete ragione voi. A vedere che mi dà contro mezza Italia e che tra coloro che solidarizzano con me c'è Brunetta, mi sorge il dubbio di aver fatto una gran cazzata.

martedì 29 ottobre 2013

A volte ritornano (o almeno, ci provano)

Il ritorno sulla scena di Fini, intervistato dopo mesi di silenzio dal Corriere della Sera, ha provocato un sussulto in numerosi esponenti politici finiti nell'ombra. Anche Bossi - che da tempo, caduto in una cupa depressione, non faceva altro che dialogare in una lingua protoceltica con una pietra asportata dal sito archeologico di Stonehenge e fatta posizionare nel giardino di casa - ha riportato il sorriso sul volto dei suoi familiari rivolgendosi finalmente al figlio col premuroso aggettivo col quale lo aveva sempre chiamato fin da quando, a sei mesi, il piccolo cominciò a dare prova di sé: «Pirla».

Ma Bossi non è un caso isolato. Ecco gli altri.

Matteo Salvini. Messo in ombra dal Movimento 5 Stelle, il segretario della Lega lombarda persegue un unico obiettivo: non farsi scavalcare da Grillo nelle politiche contro gli immigrati. È il compito più arduo che sia capitato a Salvini da quando, in terza media, la professoressa di educazione civica gli chiese di descrivere la differenza tra un semaforo e un palo della luce e, constatando che non sapeva rispondere, sconsigliò al futuro astro nascente della politica padana il proseguimento degli studi. Salvini ha contattato la redazione di "Porta a Porta" chiedendo di essere ospitato per lanciare una proposta di legge da egli stesso definita rivoluzionaria: l'intitolazione ad Artemisio Scaccabarozzi di tutte le piazze del nord attualmente dedicate a Garibaldi. Scaccabarozzi, cacciatore di frodo nonché vincitore per cinque edizioni consecutive della "Gara di rutti della pedemontana lombardo-veneta", è balzato agli onori delle cronache perché nei primi anni Novanta testava l'efficacia delle trappole per caprioli da egli stesso realizzate sugli immigrati albanesi giunti in Lombardia in fuga da Tirana. «È uno degli esponenti più alti della cultura padana che io conosca, ed è giusto che nelle piazze del nord campeggi il suo nome», argomenta Salvini. La proposta di legge, vergata con un artiglio di cinghiale della Valcamonica su pelle di vescica di agnello, è già stata depositata in Parlamento. Vespa ha detto a Salvini che la puntata si farà, ma solo se si riuscirà a realizzare un plastico dello Scaccabarozzi a grandezza naturale.

Roberta Lombardi. L'ex capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera, scaduti i tre mesi del suo mandato, è tornata al normale lavoro di parlamentare grillina, quello di contare gli scontrini delle spese effettuate ed elargire insulti gratuiti. Nel tempo libero Lombardi passa ore davanti allo specchio a fare le facce schifate: «Così mi alleno per quando mi chiamano in tv», ha confidato via skype all'amica del cuore conosciuta su facebook. Superato il grave esaurimento nervoso derivatogli dalla constatazione che Crimi è più ricercato di lei («Guarda se quella palla di lardo deve andare a finire sui giornali mentre a me non mi caga nessuno», ha mormorato durante una delle sedute davanti allo specchio), Lombardi sta meditando di ritagliarsi il ruolo di pitonessa dei 5 Stelle per tornare in auge. Per questo ha avvicinato la Santanchè, la quale, dopo averla squadrata, ha concluso: «Hai tutto quello che serve, ti mancano solo le dieci carte di credito che io ho nel portamonete e un fidanzato giornalista: io ho Sallusti, tu potresti scegliere tra Belpietro e Lavitola. Poi potrei contattare Paragone per farti invitare a La Gabbia. Però mi raccomando, non mi far fare brutte figure: sei già sulla buona strada, ma allenati bene a non pensare prima di aprire bocca».

Gianfranco Rotondi. L'ineffabile politico avellinese soffre di un grave complesso di inferiorità: è vero che Berlusconi l'ha portato con sé nell'ultimo governo da lui presieduto; ma l'ha nominato ministro "senza portafoglio", che per un ex dc passato al Pdl è uno degli affronti più gravi che si possa subire. Ma quello che sta tormentando Rotondi è la competizione con Brunetta, Capezzone e Giovanardi. «Non ce la farò mai», confida in privato. Già. Lui dice che trova oggi Berlusconi più in forma che vent'anni fa? Non se lo fila nessuno. Brunetta fa una comparsata in uno studio televisivo, innesca una rissa anche col tecnico delle luci e l'indomani va su tutti i giornali. Lui millanta di sapere chi sarà l'erede di Silvio alla guida del Pdl? Raccoglie l'indifferenza generale. Capezzone passa dai Radicali a pasdaran berlusconiano e raccoglie insulti nelle piazze di mezza Italia. Lui sostiene che Famiglia Cristiana è un giornale comunista? Giovanardi rilancia e spara che Stefano Cucchi è morto di inedia, vuoi mettere? Così Rotondi si è convinto che occorre una scossa: ha ingaggiato il consulente d'immagine di Marylin Manson e oggi veste solo giacche alla Mughini su aderentissimi pantaloni di pelle nera. È così che si presenterà ospite da Maria De Filippi a "Uomini e donne", dove si svestirà per mostrare in diretta tv la natica sinistra e quella destra, dove si è fatto tatuare rispettivamente le parole «Solo» e «Silvio».

Massimo D'Alema. Si vede ormai di rado in tv e sui giornali ma non è affatto intenzionato a mollare. Per questo sta prendendo parte attivamente alla battaglia in vista delle primarie del suo partito. Dopo le sue dichiarazioni in favore di Cuperlo, il candidato alla segreteria è partito in piena notte da Roma, in ginocchio, alla volta di Pietrelcina, lasciando un biglietto alla moglie: «Solo così posso sperare che Padre Pio prenda in considerazione l'idea di intervenire per controbilanciare l'influenza negativa di una tale presa di posizione». Sta meditando di tornare sulla scena con un libro: «Io guardo al futuro». Quando sono uscite le indiscrezioni sul titolo però, pare che il futuro se la sia data a gambe levate.